Il ruolo della filosofia nella formazione del giurista•
di Francesco Gentile

Resta da dire almeno una parola sull’insegna sotto la quale questo lavoro collettivo si è collocato: L’ircocervo. Evidente l’ascendenza crociana. Peraltro è difficile dire se, nella polemica con i filosofi del diritto, fosse una reminiscenza mitologica quella che suggerì a Benedetto Croce di definirne l’opera con l’epiteto malizioso: “un filosofico ircocervo”, o se non fosse piuttosto l’eco del linguaggio colorito di Spaccanapoli, dove “pigliare un ircuciervo” significa prendere un granchio! Come metafora dell’inesistente, l’ircocervo si trova nel bagaglio dei filosofi dal tempo di Aristotele100, nel caso specifico, tuttavia, risulta predominante il senso del miscuglio impossibile ed incongruo. Per intenderne la ragione non basta risalire all’idea che il giovane e distratto studente della Facoltà giuridica napoletana s’era fatta ascoltando a casa dello zio Silvio Spaventa noiose discussioni sui pareri del Consiglio di Stato e sulle sentenze della Cassazione. “Allora intravidi – ricorderà – che il modo di ragionare della giurisprudenza procede per convenzioni e finzioni e che voler innalzare quei concetti a filosofia riesce ad uno spasimo di acume vuoto”101. E neppure basta ricordare la commiserazione del potente dominus della cultura per quel “povero insegnante di filosofia del diritto” che “in una facoltà di tecnici – civilisti, romanisti, storici, economisti – ha tutta l’aria di un intruso, di un inesperto, che maneggia gli strumenti altrui e rischia di guastarli”102. Per intendere la ragione della critica alla filosofia del diritto bisogna rifarsi al sistema di Croce, la sua “filosofia dello spirito”, che com’è noto si articola nella distinzione dell’attività spirituale in teoretica e pratica, l’una come l’altra germinantesi in forma individuale (rispettivamente l’espressiva e l’economica) e in una universale (rispettivamente il pensiero logico e l’azione morale); donde lo spazio per estetica e logica, per economia ed etica, e solo per queste. Non c’è da stupirsi, dunque, che sulla base di tali premesse la filosofia del diritto, concepita come filosofia pratica, avente funzione educativa, al modo dei suoi cultori di metà Ottocento, risultasse uno “strano miscuglio”, una “sconcia combinazione”, un “groviglio di difficoltà”. Insomma un ircocervo. Fin qui la polemica, e Croce era formidabile nelle polemiche. Collocare all’insegna dell’ircocervo la fatica scientifica dei compagni d’avventura nel mare infido della filosofia del diritto è stato, quindi, per me come raccogliere una sfida, per metterci alla prova. Ma c’è di più, ed anche per questo il riferimento crociano ha un preciso significato.
In un passo nascosto e dimenticato dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, sin dalla prima formulazione del sistema Croce aveva avvertito il problema posto dai “fatti complessi e derivati nei quali si mescolano le varie attività”, di cui l’attività giuridica era portata ad esempio.
“L’attività giuridica – vi si legge – deriva dalla teoretica ed economica insieme: il diritto è una regola, è una formula (orale o scritta, consuetudinaria o legiferata, poco importa) in cui è consegnato un rapporto economico voluto dalla collettività. Questo lato economico l’unisce e distingue insieme dall’attività morale”103. Ma anche altri sono i “fatti complessi e derivati nei quali si mescolano le varie attività”, come la “logica formalistica”, la “conoscenza tecnica”, la “funzione educativa”, tutti casi per rappresentare i quali l’idealista ricorre all’immagine dell’ircocervo, che riflette specularmente l’assunto dell’aforisma giuridico: “Quod non est in actis non est in mundo”. Ora, poiché la filosofia del diritto in mundo c’è, m’è parso provocatorio utilizzare il nomignolo malizioso per rappresentare la fatica di dimostrarne l’esistenza anche in actis. Se, infatti, l’ircocervo rappresenta plasticamente lo strano miscuglio in cui si risolve la filosofia del diritto quando rimanga irretita nel preconcetto astratto della separazione, per non dire dell’estraneità, di essere e di pensiero, tematizzata in vario modo dalla filosofia moderna, dalla positivista come dall’analitica, dall’idealista come dalla materialista, d’altra parte, ad un’attenzione radicalmente problematica, quale solo un’attitudine autenticamente filosofica consente, l’ircocervo è significativo di come proprio il caso giuridico implichi la concreta istituzione del rapporto dialettico fra ciò che deve essere e ciò che è, fra teoresi e prassi. Sin dal primo momento del suo costituirsi, quando l’uomo advoca il giurista per mettere ordine nelle sue relazioni con gli altri e questi gli fornisce aiuto mediante la rappresentazione di quello che gli spetta, da iuratus104.
La stanza della “geometria legale”. Nel libro della Sapienza si legge che gli empi, tra loro sragionando, dicono: “La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. (…) La nostra esistenza è il passare di un’ombra e non c’è ritorno alla nostra morte. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! (…) perché questo ci spetta, questa è la nostra parte” (Sap 2, 1-9. Anche l’empio, per il quale la vita passa “come le tracce di una nube”, destinata a disperdersi “come nebbia scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore”, rivendica ciò che gli spetta. Rivendica cioè che gli venga riconosciuta la sua parte. Chiede un ordinamento delle relazioni intersoggettive, un ordinamento giuridico. Insomma, anche nel più ingiusto dei mondi, anche in una società di delinquenti, ferma rimane la nozione, giuridica, di giustizia, “la costante e ferma volontà di dare a ciascuno il diritto che gli spetta”, come disse Ulpiano distillando una sapienza antica, da Omero (Od 14, 84) a Platone (Resp 331), da Aristotele (Ret 1, 9) a Cicerone (De fin. 5, 23).
Una nozione che ha trovato nei testi dei Padri della Chiesa rinnovata vitalità, in Ambrogio (De off. 1, 24) come in Agostino (De civ. 5, 23), per raggiungere infine il momento più alto con Tommaso: “Giustizia è quell’abito in virtù del quale un uomo di ferma e costante volontà attribuisce a ciascuno il suo proprio
diritto” (II, II, 58, 1).
L’esperienza nella quale il giurista viene chiamato, advocatus, ad esplicare la sua professione è l’esperienza della lite: del conflitto, della comunicazione interrotta, della relazione lacerata. Ed egli corrisponde alla richiesta d’aiuto mediante la rappresentazione del suo di ciascuno. Ora, in un’epoca tecnologica105 qual è la nostra, la rappresentazione che immediatamente ne viene data è quella offerta dalla geometria legale106, prodotto dell’applicazione del metodo ipotetico-deduttivo, proprio delle scienze fisicomatematiche o naturali che dir si voglia, allo studio dell’uomo e delle relazioni umane.
Benché diverse e varie siano le versioni che ne sono state date, il nucleo comune e fondamentale del “protocollo”, o “principio proprio” o “apriori”, della geometria legale è costituito dalla convenzione dell’uomo come individuo, come atomo, come unico e quindi del soggetto senza regole perché privo delle nozioni di bene e di male. Per tutte valga l’icastica affermazione di Hobbes dal Leviathan: “Fin quando un uomo è nel puro stato di natura (…) il suo appetito personale è la misura del bene e del male (..). Bene e male sono nomi che significano i nostri appetiti e le nostre avversioni che nei differenti e diversi uomini differiscono per il loro giudizio (…). Anzi lo stesso uomo, in tempi diversi, differisce da se stesso, e in un tempo loda, cioè chiama buono, quello che in altro tempo disprezza, e chiama cattivo; onde sorgono dispute, conflitti e, alla fine, guerra” (Lev. XVI). Il puro stato di natura, dove “puro” sta per convenzionalmente assunto, è dunque uno stato in cui ognuno ha una pretesa su tutto e di conseguenza nessuno è sicuro di niente. La precarietà assoluta dello stato di natura, postulata da Hobbes, viene da Rousseau colorita con introspezioni psicologiche straordinariamente profonde, potremmo dire anticipatrici degli sviluppi in senso consumistico della società tecnologica107. L’unico, che negli altri vede solo ostacoli o strumenti, per soddisfare i suoi appetiti rimane irretito in una serie di legami soffocanti. “Sempre attivo, suda, si agita, si tormenta continuamente alla ricerca di occupazioni più faticose; lavora sino alla morte a cui corre incontro per sentirsi vivo, o rinuncia alla vita per conquistare l’immortalità. Fa la corte ai grandi che odia e ai ricchi che disprezza; non si risparmia pur di ottenere l’onore di servirli; si vanta orgogliosamente della sua miseria e della loro protezione, ad un passo dalla schiavitù parla con disprezzo di quelli che non hanno l’onore di condividerla” (Discours sur l’origine de l’inégalité). Sulla base di questo protocollo, convenzionale, la geometria legale postula l’associazione politica come compagnia di assicurazione alla quale si accede mediante il contratto sociale.
Dell’associazione politica come compagnia di assicurazione bisogna considerare le due modalità opposte, dello “stato di diritto”, che assicura in negativo ossia per repressione, e dello “stato sociale”, che assicura in positivo ossia per promozione108.
Ora non v’è dubbio che la diversità dei beni assicurati, dalla sopravvivenza alla salute, dalla proprietà al lavoro, dall’eguaglianza alla previdenza, ecc. comporti difficili problemi di adattamento del sistema assicurativo ma questo non ne modifica la struttura essenziale e lo scopo ultimo, come peraltro risulta scopertamente dai due casi limite dello “stato minimo” sul versante dello stato di diritto e dello “stato assistenziale” sul versante dello stato sociale. L’uno rappresenta il limite negativo dell’assicurazione sociale, che si basa sul principio di risarcimento secondo il quale, se s’impone una proibizione ad attività rischiose, si deve risarcire chi è danneggiato dal fatto che queste gli vengono impedite. L’altro rappresenta il limite in positivo dell’assicurazione sociale, configurandosi come sistema di protezione estesa a tutti i segmenti dell’esistenza, come volgarmente si dice “dalla culla alla bara”, e per tutti i membri della società senza distinzione di classe sociale o economica, volgarmente potremmo dire “dallo Zio Tom a Rockefeller”.

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