Il ruolo della filosofia nella formazione del giurista•
di Francesco Gentile
Giacomo Gavazzi, forse il più lucido e insieme autenticamente critico esponente della scuola di Bobbio, notando come il positivismo giuridico, senza sconfessare la tesi fondamentale circa il primato della volontà nel diritto, abbia per parecchio tempo sottoscritto come propria la teoria della coerenza e, ancor più, quella della completezza dell’ordinamento, ossia due “ideali tipicamente razionalistici. Di un modesto razionalismo, certamente formale la coerenza; per dirla rudemente: ‘il legislatore può comandare tutto quello che vuole, ma non deve contraddirsi. Più invasiva, ma altrettanto formale la completezza; anche qui, per dirla in sintesi: ‘se il legislatore ha comandato certe cose, i suoi comandi valgono anche per le cose simili’. Su tale strada bisognava e, ancora si può, andar avanti – concludeva Gavazzi – per cercare di vedere un po’ chiaro nel problema del diritto razionale o come altro lo si voglia chiamare”92. In altri termini, veniva così riconosciuto il “pedaggio” che la volontà del legislatore deve, o dovrebbe, pagare alla ragione per potersi dire autenticamente capace di mettere ordine nelle relazioni intersoggettive. Per risolvere il problema, da positivista impenitente, Gavazzi proponeva la “motivazione delle leggi”, analogamente alla motivazione di una sentenza o di un provvedimento amministrativo, cioè “un discorso strumentale, preparatorio e giustificativo di quello imperativo della decisione o della prescrizione, come esposizione delle ragioni (vere o false, buone o cattive, congrue o incongrue, non importa) che vengono o possono venire portate a giustificare la prescrizione”93. Ma in tal modo appariva ancor più chiaramente, forse anche oltre le intenzioni dell’autore, come tale discorso, non fosse che per raggiungere lo scopo prefisso, non potesse svilupparsi nei termini convenzionali e operativi della scienza ma dovesse affrontare di petto il problema radicale dell’esperienza giuridica nei termini dialettici della filosofia.
Da questa intuizione, sul come si pone il problema filosofico del diritto all’interno della stessa scienza giuridica, prese avvio l’idea e l’organizzazione degli Incontri dell’Ircocervo su “Teoria e prassi alle radici dell’esperienza giuridica”94 che per cinque anni, tra il 1984 e il 1988, hanno visto un gruppo nutrito di filosofi del diritto raccolti attorno ad un giurista per discutere la sua esperienza. Perlingieri, Grasso, Ziccardi, Giannini e Fazzalari hanno aperto ad una discussione filosofica i recessi del diritto civile, del diritto costituzionale, del diritto internazionale, del diritto amministrativo e del processo.
Con Pietro Perlingieri la discussione si è andata sviluppando in una duplice direzione. Da un lato, si è rivolta a smascherare le aporie della dottrina civilistica tendente “ad esaminare gli istituti fenomenologicamente, senza il problema della loro ratio, ovvero della loro giustificazione”: l’aporia, potremmo dire, della teorizzazione di una prassi senza teoria. E, dall’altro, si è rivolta a smascherare le aporie della dottrina civilistica tendente a “considerare la prassi come aspetto esterno ed estraneo al fenomeno normativo ed il fatto come elemento occasionale e contingente nella ricognizione degli istituti giuridici, puri noumeni”: l’aporia, potremmo dire, della pratica di una teoria senza prassi. Per ovviare a tali aporie, Perlingieri proponeva come compito specifico e qualificante l’opera del giurista quello di “scoprire la potenzialità normativa della legge nel quadro dei valori e degli interessi garantiti e tutelati dalla costituzione”. Il dibattito si accendeva sul concetto di “legalità costituzionale”, per il quale sembrava che il giurista assumesse apoditticamente la costituzione come vero e proprio principio teorico regolativo della vita sociale, quasi che la costituzione non fosse una legge come le altre95. Ed era destinato a diventare incandescente, l’anno successivo, quando Pietro Giuseppe Grasso attirava l’attenzione sui problemi specifici della costituzione soprattutto quando, come capita spesso e comunque è capitato per la nostra, “i costituenti sono mossi dal proposito di distruggere tutto per rifare tutto ex novo in ragione di dogmi ideologici (…) astratti dalla realtà del proprio paese”. Invero, faceva notare Grasso, la storia giuridica “ha ormai accettato che anche laddove è sancito un simile documento solenne, l’organizzazione effettiva dei poteri supremi viene ad essere determinata soprattutto nel corso del tempo, mediante consuetudini, usanze, pratiche, convenzioni spontanee, ecc.”. Facevano capolino così anche altri concetti, oltre a quello di “legalità costituzionale”, come “istituzione” o “costituzione materiale”, ma soprattutto, sebbene in sordina, si affacciava tra le note della discussione quella di “ordinamento”, come luogo nel quale le dissonanze derivanti dalla preconcetta separazione di teoria e prassi, predicata dalla “Grande divisione” analitica, avrebbero potuto trovare composizione armonica. Ordinamento inteso, letteralmente, come modo verbale indefinito del verbo ordinare, indicante il processo inesauribile del mettere ordine, rispetto al quale rilevano tanto l’ordine, quale principio teoretico, regolativo dell’attività ordinatrice, principio direi metafisico, quanto la norma, anche quella costituzionale, la sentenza e il provvedimento amministrativo, quali strumenti operativi. Gli incontri successivi con Ziccardi e Giannini avrebbero attirato l’attenzione dei filosofi su due ordinamenti specifici, quello internazionale e quello statale.
Ponendo in primo piano il diritto internazionale privato, come diritto non tanto “inter-statale” quanto “trans-nazionale”, Pietro Ziccardi ha riproposto il tema dell’ordinamento, sintesi di teoria e di prassi, per il quale gli strumenti operativi non andrebbero reperiti solo nell’ambito della legislazione nazionale ma anche in quella straniera, in “un sistema aperto di diritto”, dunque, la cui unità sarebbe garantita da un comune principio regolativo, ossia quello dell’ordine da intendersi quasi come un principio “metafisico”, condizione e garanzia della transnazionalità.
Annunciando la scomparsa prossima ventura del diritto amministrativo, prodotto ottocentesco dello stato borghese, destinato, con l’avvento dello stato pluriclasse, a lasciare spazio anche nell’ambito della pubblica amministrazione agli strumenti del diritto civile e a risolversi per la parte delle regole dei poteri dello stato e dei diritti dei singoli nel diritto costituzionale, Massimo Severo Giannini proponeva, anche senza dirlo esplicitamente, il problema dell’ordinamento inteso quale processo del mettere ordine, rispetto al quale rilevano l’ordine, come principio regolativo di natura teoretica, e la norma, quale strumento operativo di natura pratica. In un plesso in cui non si dà ordinamento senza ordine né senza norme, ma neppure si può immediatamente identificare l’ordinamento con le norme né le norme con l’ordine, al modo tradizionale della “geometria legale”. La cosa era destinata a prendere il centro delle discussioni con la lezione di Elio Fazzalari su “teoria e prassi alle radici del processo”.
Invero, se per processo s’intende, come propone suggestivamente Fazzalari, quel procedimento caratterizzato dalla partecipazione alla formazione dell’atto finale, la sentenza, di coloro nella cui sfera di interessi il provvedimento produrrà effetti, e dal “modo dialettico di tale partecipazione, il contraddittorio, che è il dire e il contraddire (..) dei cui risultati l’autore dell’atto finale, il giudice, non può non tener conto”, risulta con tutta trasparenza come l’ordinamento giuridico, inteso quale processo del mettere ordine nel disordine delle liti intersoggettive, sia il risultato dell’intrecciarsi ed integrarsi di teoria e di prassi. Perché, per un verso, esso risulta da una serie di operazioni, del legislatore come del giudice, del funzionario pubblico come dell’operatore privato, nessuna della quali, né la loro somma matematica, sostanzia e crea l’ordine, ché anzi abbiamo sotto gli occhi gli esiti caotici di una tale pretesa, ove affermata, e l’illusione di porvi rimedio con un supplemento di potere. Mentre, per altro verso, basta riflettere un istante per rendersi conto di come ciascuna di queste operazioni risulti effettivamente operativa, in termini di ordinamento, solo se e in quanto sia orientata dall’ordine inteso come principio regolativo, direi come principio metafisico, rispetto al quale l’ordinamento è tale, cioè autentica messa in ordine, solo se ad esso è coerente, solo se di esso è scoperta, accertamento, istituzione96.
Cominciava così una ricerca corale, per un verso rivolta a mettere a nudo le geometrie prodotte dalla scienza giuridica, evidenziandone la struttura ipotetico-deduttiva e la funzione operativo-strumentale97, e per altro verso intesa, tramite una attenta riflessione sulle aporie della “geometria legale”, a enucleare il principio metafisico in esse involontariamente e inconsapevolmente operante, per svilupparne tematicamente le potenzialità teoretiche98. Nella convinzione di venire incontro alle esigenze per le quali i giuristi hanno, a suo tempo e in ogni tempo, avvertito il bisogno di introdurre nel piano degli studi della scuola di diritto una disciplina filosofica: “veram, nisi fallor, non simulatam philosophiam affectantes”. A documentazione di questa ricerca corale stanno le due collane delle Edizioni Scientifiche Italiane da me promosse e curate: L’ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e politico italiano contemporaneo e La crisalide. Saggi filosofici di critica civile. La prima, nata dall’esigenza di tentare un “bilancio” e insieme un “esame di coscienza” del pensiero giuridico italiano contemporaneo, raccoglie saggi su filosofi come Cesarini Sforza, Mondolfo, Della Volpe, Bobbio, Levi, Gramsci, Maggiore, Olgiati, Del Vecchio, Treves, Cammarata, Battaglia, Fassò, Solari, Tarello ma anche su giuristi come Bettiol, Carnelutti, Ravà, Ascarelli, Benvenuti, De Meis, Volpicelli, Crisafulli, Manzini, Giannini. La seconda, concepita in “reazione” all’esito fallimentare delle molte rivoluzioni e all’estenuante precarietà delle continue riforme e sorretta dalla convinzione che il rinnovamento dell’esperienza politico-giuridica esigeva una autentica metánoia soggettiva, raccoglie saggi prevalentemente filosofici sulla libertà soggettiva, sull’umanesimo liberale, sull’intelligenza del principio, sull’etica impersonale, sull’ermeneutica idealistica, sulla razionalità della politica, sulle etiche del novecento, sulla nobiltà del governo, sull’ordine della politica, sulla filosofia in tempo di nichilismo, sulla metafisica debole, sulla verità della politica ma anche saggi prevalentemente giuridici sulla soluzione corporativa, sulla religione civile, sul processo canonico di beatificazione, sulla cattedra socialista, sul formalismo sovietico, sul sindacato di imprese, sul segreto di stato, sul giudice regale, sulla costituzione criticata, su relazioni industriali e politica, su cooperazione e conflitto, sul silenzio della pubblica amministrazione, su l’individuo e lo scambio, su Europa e costituzione, sulla teoria dell’interpretazione99. In questo quadro un significato particolare ha il volume delle “lezioni del quarantesimo anno” che gli avvocati Federico Casa, Alberto Berardi, Torquato G. Tasso, Giovanni Caruso e Giovanni Ferasin, miei allievi nella Scuola di dottorato in Giurisprudenza di Padova ma soprattutto miei preziosi collaboratori nella Scuola di applicazione forense per la preparazione agli esami di avvocato organizzata nel quadro di attività della Fondazione Gentile onlus, hanno voluto raccogliere in occasione dei miei settant’anni unendovi cinque interessantissimi saggi “per l’architettura del caso” che sviluppano le intuizioni filosofiche nell’ambito del diritto civile, del diritto penale e del diritto amministrativo