Il ruolo della filosofia nella formazione del giurista•
di Francesco Gentile

A rappresentare l’esperienza come prima forma di comprendere le cose in un tutto fluente, in cui soggetto e oggetto della conoscenza sono intimamente connessi, componendosi in modo da non potersi distinguere se non all’interno di quel tutto, il simbolo classico del fiume è il più efficace. “Non solo per il carattere di mobilità e per la varietà degli elementi che esso viene convogliando, ma anche per quel riflesso più determinato e particolare per cui dalla composizione di conoscenze, le quali nella loro individualità e puntualità sono certe, sorge un atteggiamento nuovo per il quale non c’è nome più appropriato di quello della fluidità. Questo atteggiamento significa inclinazione della precedente certezza e si attua come atteggiamento di ricerca, di indagine, di domanda, cioè insomma di schietta problematicità”72. A questo atteggiamento nuovo, di cui parla Marino Gentile in un prezioso volumetto su Come si pone il problema metafisico, sono divenuto familiare più che per una lettura scolastica per una convivenza quotidiana73, dalla quale sono stato portato a concepire la “filosofia” prima e piuttosto che come un sistema concettuale come un’attitudine mentale, mai come possesso ma sempre e solo come aspirazione al sapere, una condizione soggettiva, “un’attitudine di fermezza, che non consiste nell’assenza di movimento, bensì nel vigore con cui si resiste alle sollecitazioni esterne, come il nuotatore può esser detto stabile, se non si lascia sopraffare dalle molteplici spinte che tenderebbero a deviarlo, a trattenerlo o addirittura ad affogarlo”74. Così come, crescendo nell’Istituto di filosofia del diritto della patavina Universitas Iuristarum, sono stato portato ad intendere il compito di chi voleva essere filosofo del diritto, resistendo ai tumulti della crisi culturale, politica, economica, giuridica della società75, quello di ricercare al di là del contingente l’essenziale, al di là dell’opinabile il vero, al di là del legale il giusto. “Al di là” nel senso di “attraverso”: metá tà physiká.
Non so se per un disegno prestabilito, di certo per una felice intuizione, sono stato avviato a studiare il costituirsi della scienza sociale nei meandri della “physiologie générale ou sociale” di Claude Henri de Saint-Simon76 e quindi, risalendo nel tempo, il costituirsi della moderna scienza giuridica nella grande sistemazione del Esprit des lois di Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu77. Formato da queste ricerche storiografiche e dall’approfondimento epistemologico della struttura del sapere scientifico a cui fui sollecitato dal mio primo incarico d’insegnamento nella nascente Facoltà di Sociologia di Trento 78, all’inizio degli anni Settanta mi sono scontrato con il problema del rapporto tra scienza e storia, divenuto “il problema” della cultura giuridica contemporanea. Dal confronto con quattro importanti autori della scuola positivista, Uberto Scarpelli, Giovanni Tarello, Enrico Di Robilant e Giacomo Gavazzi, ha preso corpo quella che sarebbe diventata la mia idea sul ruolo della filosofia del diritto nella formazione del giurista. Un confronto che in partenza aveva le caratteristiche dello scontro79, a volte aspro benché sempre fruttuoso, perché io ero pregiudizialmente impressionato dalle, appunto, Impressioni su Kelsen tradotto80 di Capograssi, che aveva polemicamente denunciato la singolare “operazione di magia”, di preservare l’ordinamento giuridico dall’insolenza della storia, offerta dal concetto di validità formale della norma giuridica, elaborato da Kelsen con la sua Reine Rechtslehre ed entusiasticamente accolto dai filosofi del diritto italiani di matrice positivistica81.
Agli inizi degli anni Settanta fui sorpreso, ma in realtà tutti furono sorpresi, da una imprevedibile e sconcertante confessione di Uberto Scarpelli: “Sul particolarismo intellettuale si è abbattuta la mareggiata furiosa della contestazione globale (…) i giovani ci hanno costretto e ci costringono a riproporci in pubblica filosofia la domanda circa il senso globale di uno sviluppo sociale, che offre tanti mezzi di salute e di felicità ma che può portare alla distruzione dell’umanità e del suo ambiente. Anche l’analista incallito, dunque, deve smettere di prendere i figli a protagonisti di esercizi semantici e chiedersi con loro (per loro) dove sta e quale è questo senso (se c’è un senso)”82. Insomma anche il filosofo del diritto che più direttamente si ricollega alla tradizione del positivismo giuridico italiano, rinnovata con la lezione di Carnap e l’innesto della filosofia analitica di matrice anglosassone, si trova stretto fra l’esperienza, che gli pone il problema del diritto in termini “globali”, e il canone ermeneutico, che gli chiede di seguire anche in questo caso la geometria della “grande divisione”. E come ne esce? Parrebbe in maniera ambigua, destreggiandosi tra scienza giuridica, teoria generale del diritto, sociologia e politica del diritto. Ma alla fine, paradossalmente, conclude: “Quello che conta (…) è che le prese di posizione circa le strutture del diritto e le prospettive ed i metodi delle discipline ed operazioni giuridiche avvengano non in forza di mistificazioni tecnicistiche o scientistiche o di mistificanti demistificazioni, ma dopo un prudente bilancio dei valori e disvalori, vantaggi e svantaggi etici, politiici e sociali legati alle varie soluzioni”83 Ma che cos’è questa “prudenza”, che non è scienza nel senso descrittivo-predittivo perché è carica di eticità, e che non è neppure una scelta, o per lo meno una scelta come le altre, perché si pone come criterio selettivo, “bilancio”, fra le scelte possibili? Così mi parve si aprisse, anche all’interno di una concezione positivistica, lo spazio per una riflessione ulteriore rispetto alla scientifica, “metafisica” avrei detto io, a cui lo stesso analista riteneva fosse affidato il compito di chiarire “l’ambigua disponibilità della scienza per fini di vita o di morte, la valenza positiva o negativa della tecnologia”84. In realtà stava per iniziare la stagione della caccia alle ideologie.
“Se è vero, come credo sia vero, – scrive Giovanni Tarello – che le teorie giuridiche sono strumenti pratici, in quanto servono ad operatori che usano leggi e istituzioni, allora è ragionevole chiedersi cosa una teoria serve o può servire a fare”85. Si tratta cioè di portare alla luce gli obiettivi operativi perseguiti nell’agone della storia mediante gli strumenti elaborati dalla scienza giuridica. Ed ecco Tarello, seguito da alcuni allievi di parte marxista, impegnarsi in quella che egli chiama un’opera di “ragionevole censura”, tesa a mettere in luce l’obiettivo ideologico sottostante il processo di “tecnicizzazione della scienza giuridica” 86 e di “deresponsabilizzazione, in senso politico, del ceto dei giuristi” attuata dal positivismo anche nella versione analitica”87.
Con la “teoria pura” del diritto (di Kelsen e dei suoi molti seguaci italiani) si sarebbe realizzata l’operazione politica di “occultare fratture e di individuare coerenza di sistema (unità di ordinamento) ove la percezione immediata presenta contraddizioni e conflitti”88. Anche questa uscita di Tarello era destinata a sorprendere e sconcertare, benché non fosse ben chiaro se la critica al positivismo si spingesse sino al punto di negargli autentico valore giuridico, Bobbio coglierà l’occasione per ribadirlo affermando che il positivismo giuridico era “la filosofia più consona alla mentalità e all’esperienza dei giuristi”89 , oppure se ci si limitasse a censurarne l’utilizzo da parte della classe borghese, Alessandro Baratta si chiederà: “La filosofia giuridica della Scuola analitica è stata la filosofia giuridica della borghesia illuminata, potrà diventare la filosofia d’avanguardia di un movimento operaio illuminato?”90. In realtà il disvelamento delle ideologie sottostanti alle geometrie della scienza giuridica, anche di quella elaborata in chiave positivistica, e il porsi drammatico del “senso globale” dello sviluppo della società costringevano l’operatore giuridico, abituato a tenere ben aperti gli occhi su “quello che si fa” con il diritto, a porsi urgentemente la domanda su “che cosa ci stia a fare” il diritto nell’ambito dell’esperienza umana. Una domanda radicale a cui solo nella radicale problematicità della filosofia si può trovare risposta. Così si pone, per l’operatore giuridico, il problema filosofico.
Se il misurarmi con Scarpelli e Tarello è stato per me il modo per intendere concretamente come si pone il problema della filosofia dei giuristi, il confronto con Di Robilant e Gavazzi mi ha offerto l’occasione per riconoscere come il problema filosofico si ponga all’interno stesso della “geometria legale”.
“Il fatto che le teorie dell’ordinamento siano formulate con il linguaggio dell’esperienza comune – scrive Di Robilant – ha indotto i loro autori a credere d’aver condotto un discorso descrittivo della realtà; d’aver indicato, in altri termini, come stiano effettivamente le cose (…) in realtà alla luce di una metascienza, libera dall’ossequio a posizioni tramandate ormai per tradizione, la teoria dell’ordinamento costituisce un tentativo di ‘ordinare’ fenomeni della realtà, osservati – potremmo dire con Popper – con occhi impregnati di teoria; un tentativo, cioè, di ordinare i fenomeni ‘come se’ costituissero un ordinamento”91. Da questa constatazione elementare, avvalorata peraltro da un riferimento alla teoria quantistica della fisica, Di Robilant traeva due conclusioni. Da un lato ribadiva la necessità di valutare una teoria scientifica, qual è quella del diritto come ordinamento, in termini puramente operativi e non ideologici, cioè sulla base della sua capacità di perseguire i fini rispetto ai quali essa è funzionale, che la precedono come sua condizione e sui quali essa non ha nulla da dire essendo loro puramente servente. Ma dall’altro avvertiva anche come fosse imprescindibile per uno scienziato, e quindi anche per lo scienziato del diritto, la consapevolezza del carattere ipotetico e quindi puramente virtuale delle proprie teorie che sola gli consente, insieme, di muoversi con la spregiudicatezza di chi sa di non agganciare la realtà ma di operare con essa e lo protegge dalla tentazione di attribuire alle teorie stesse un valore reale e di presentarle ingiustificatamente e dommaticamente per vere, essendo solo eventualmente funzionali. In altri termini dal richiamo del carattere operativo ed ipotetico della “geometria legale” emergeva la necessità di una consapevolezza che per essere veramente critica non poteva essere né ipotetica né operativa, insomma non poteva non essere autenticamente filosofica, non fosse altro che per il buon funzionamento della “geometria legale”.

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