Il ruolo della filosofia nella formazione del giurista•
di Francesco Gentile
Così, nel 1948, iniziava la sua prima lezione nella patavina Universitas Iuristarum, sulla cattedra che era stata di Adolfo Ravà e di Giuseppe Capograssi, un giovane filosofo del diritto, neo vincitore di concorso49. A che cosa si riferisce specificamente Opocher con questa accorata denuncia? La risposta è precisa: “Nessun elemento è forse più rivelatore, a questo proposito, del carattere puramente strumentale che il diritto ha assunto nella società moderna. Quasi completamente appoggiato allo stato o, meglio, alle mutevoli e troppo spesso irresponsabili volontà che, attraverso il mito dello stato, si esprimono dominatrici della vita sociale, quel diritto che altra volta era stato scultoreamente definito come ars boni et aequi si è andato sempre più riducendo ad uno strumento per fini estranei al proprio contenuto, se non addirittura ad un mero strumento di potere. La sua dipendenza diretta o indiretta dalla volontà statuale, ossia la sua forma positiva, pur necessaria a garantirne la certezza, è diventata l’unico titolo della sua validità, l’unico criterio della sua giuridicità e per questa via esso è divenuto l’indispensabile strumento per realizzare, perpetuare e giustificare la volontà dominante, per piegare e dirigere l’azione verso qualsiasi avventura, per assicurare validità oggettiva allo stesso arbitrio” 50. La responsabilità di questa deriva, che compromette l’intera esperienza giuridica, risale ai “chierici del diritto”, filosofi e giuristi che siano, per il concetto puramente formale del diritto che li accomuna51. Il giovane Opocher non ha mezzi termini e parla di una vera e propria “tragedia”. “Un’antinomia invincibile (..) domina tutta la filosofia giuridica dell’ultimo cinquantennio. Non appena, infatti, i filosofi tentano di passare, com’è necessario, da una determinazione puramente formale della giustizia ad una determinazione contenutistica, la verità del diritto si vanifica tra le loro mani, si trasforma in un’affermazione meramente ideologica.
(..) Tipico, a questo riguardo, è il passaggio dalla filosofia del diritto neokantiana a quella idealistica e dall’idealistica alla marxistica”52. Non diversa è la “tragedia” dei giuristi, “ancor più concreta e decisiva per l’esperienza giuridica. Ogni volta, infatti, che i giuristi, rendendosi conto della necessità di dare un contenuto alla loro verità, si sforzano di superare il concetto puramente formale del diritto e delle categorie logiche che esso implica e si provano a giustificare con la storia e le forze sociali che essa esprime dal suo seno, la validità di un determinato ordinamento giuridico, il senso della loro verità necessariamente si oscura, si relativizza, si dissolve nel gioco delle forze storiche.
La legalità diviene il mero riconoscimento del fatto compiuto, il segno del prevalere di questa o quella forza sociale. (..) Il passaggio dal concettualismo al realismo o, se si vuole, dal normativismo puro all’istituzionalismo – conclude Opocher – è esiziale per l’affermazione della verità giuridica, nel campo della scienza del diritto”53.
Insomma, quell’incontro tra filosofi e giuristi che non s’era mai realmente stabilito nella costruzione dell’esperienza giuridica si sarebbe verificato nell’esplosione della sua crisi54! E Opocher ritiene anche di poter individuare la matrice della crisi in quello che egli definisce il “laicismo giuridico, ossia la pretesa di isolare l’esperienza giuridica dalla complessa trama dei problemi, delle istanze, delle certezze implicite nell’azione, (..) la pretesa di fondare e far valere la verità del diritto nel mondo sociale, indipendentemente dalle connessioni profonde che la legano alla complessa trama del mondo morale e quindi prescindendo da un’unitaria e coerente concezione del significato metafisico dell’azione e dei suoi valori. (..) Giacché il laicismo giuridico esclude di per sé ogni possibilità di cogliere nella sua concretezza la verità giuridica, implica una rinuncia alla consapevolezza di questa verità, porta, se spinto fino alle sue estreme conseguenze, all’inaudita pretesa di guidare e garantire l’azione, prescindendo dalla sua stessa verità”55. Viene, a questo punto, da chiedersi perché Opocher definisca tale pretesa formalistica e implicitamente nichilistica56 “laicismo giuridico”, con un’insistenza sorprendente57. Sono ragioni storiografiche e teoretiche insieme.
Tale “metafisica dell’antimetafisica” risale, secondo il filosofo del diritto, a Grozio e alla sua idea di un sistema di diritto razionalmente costituibile “etiamsi (..) Deum non esse”58, a Thomasio, alla sua idea di un sistema di diritto razionalmente costituibile indipendentemente dalla morale e dal costume59, e più in generale al cosiddetto giusnaturalismo moderno60, il riferimento testuale è ad Hobbes, che condizionarono lo sviluppo di tutto il pensiero giuridico successivo. “Mentre la filosofia del diritto si tormentò per separare sempre più profondamente il suo presunto principio del diritto dalla concreta trama del mondo morale, la nascente scienza giuridica si fece zelante custode della purezza del diritto respingendo, come antiscientifico, ogni tentativo di interpretare le istanze unitarie che pur l’esperienza giuridica esprime nel suo movimento concreto”61.
Dalla consapevolezza della crisi derivante dalla pretesa di elaborare una teoria razionale del diritto “etiamsi (..) Deum non esse”, che peraltro riproduce nell’ambito degli studi giuridici la pretesa galileiana di elaborare una teoria razionale della natura “senza tentar le essenze”62, prende così corpo un movimento di pensiero che è stato classificato come “filosofia dell’esperienza giuridica” ed ha avuto in Giuseppe Capograssi l’anima piuttosto che il capofila.63.
La nozione del “diritto come esperienza”64 costituisce la novità più significativa e qualificante il movimento, anche in riferimento ai motivi che hanno promosso l’introduzione di una disciplina filosofica nel percorso formativo delle scuole di giurisprudenza, per il carattere essenzialmente problematico che la contraddistingue. Considerandone i riflessi sul versante filosofico, diventa agevole riconoscere come la filosofia del diritto non si distingua dalla filosofia tout court, o generale che dir si voglia, se non in quanto quella del diritto rappresenta una delle possibili vie di accesso, o “belvederi” come amava dire Capograssi65, sull’esperienza che costituisce la prima forma di sapere umano, sulla quale si fonda e nella quale si esplica ogni altra forma di sapere, perché “l’uomo vive nell’esperienza”66. Sicché, se ancora si volesse parlare di particolarità della filosofia del diritto, potrebbe aver senso parlarne solo riferendosi all’angolo visuale dal quale la coscienza si apre alla conoscenza, poiché quello dell’ordinamento delle relazioni intersoggettive è indubbiamente un angolo visuale particolare che, tuttavia, si protende sull’essere dell’uomo nella sua interezza e integralità. Considerando i riflessi del carattere essenzialmente problematico della nozione di “diritto come esperienza” sul versante giuridico, si riconoscono le ragioni della simpatia di cui il movimento ha goduto tra i giuristi67 perché Capograssi è stato estremamente energico nel sostenere che il filosofo del diritto, se vuol cogliere il valore dell’esperienza giuridica, deve seguire anche e soprattutto il lavoro del giurista per evidenziarne il significato speculativo, portando alla luce “i motivi profondi, e quindi in sostanza filosofici, dell’operare dei giuristi”68.
Nell’ottica del “diritto come esperienza” appariva così come la “sfortuna” della filosofia nel mondo giuridico fosse imputabile ad un certo modo di concepirla, come spiegazione di fatti, come razionalizzazione di procedure operative, come “esercitazione meramente filologica sul discorso giuridico”69. Come nottola di Minerva la filosofia del diritto era ed è inevitabilmente destinata ad “abbandonare l’intera esperienza giuridica all’irrazionalità del fatto compiuto e, in buona sostanza, alla forza”70! D’altro lato però, nella problematizzazione del fenomeno giuridico inteso come esperienza, in una specie di ripiegamento alle sue “radici”, che poi sono le radici stesse dell’esperienza, appare come originario il “riconoscimento della verità” come ciò senza di cui l’esperienza, anche quella giuridica, neppure sarebbe. Sicché risulta in maniera inequivocabile come il momento filosofico non solo non sopraggiunga ma anticipi l’operazione stessa e quindi venga prima di quel particolare modo di riflettere sul fenomeno che risponde al nome di scienza, anche di scienza giuridica.
Nell’operare del giurista, infatti, è presente sempre anche un sapere; diverso potrà essere il modo in cui questo sapere si esplica, consapevole o inconsapevole, giustificato o ingiustificato, ipotetico o anipotetico, autentico o in autentico, ma comunque sempre un sapere che trascende il fare immediato. Ora, se così stanno le cose, la funzione propria del filosofo del diritto non può essere che quella di richiamare l’attenzione dell’operatore giuridico sul momento originario della sua esperienza, per individuarne la trama fatta di teoria e di prassi, per riconoscere la sua “filosofia”, per avere intelligenza del posto del diritto nell’integralità dell’umano. E questo non per un astratto esercizio intellettualistico ma per l’autenticità dell’esistenza, e della stessa operazione poiché un fare che non sia illuminato dal vero non è veramente fare. In questo clima, nel 1954, a Padova Luigi Caiani, assistente alla cattedra di filosofia del diritto, scriveva il primo, importante, saggio sulla filosofia dei giuristi italiani71 ed io mi iscrivevo alla Facoltà di Giurisprudenza.