Il ruolo della filosofia nella formazione del giurista•
di Francesco Gentile
Tracciando un profilo dell’insegnamento della filosofia del diritto nelle scuole giuridiche, nel 1942 presso l’Istituto di Filosofia del diritto della Regia Università di Roma, Norberto Bobbio è particolarmente severo nel giudizio: “Fu una disciplina esclusivamente scolastica (…) con tutti i difetti che a una filosofia scolastica sono inerenti, completezza che va a scapito della genuinità, sistematicità che soffoca la spontaneità, genericità che sa di formula e di imparaticcio; filosofia, come si legge qua e la nei sottotitoli, ad uso dei giovani, il che vuol dire, senza che magari si voglia confessarlo, filosofia attenuata o timorata o saggia o prudente o civile; filosofia, vorrei dire in una parola che mi pare colga il tono ma anche la sostanza, didascalica”17. Benché il giudizio sia severo, anche oltre misura e sulle ragioni recondite torneremo più avanti, dobbiamo riconoscere che coglie nel segno soprattutto con la denuncia del fatto che “in quel tempo la filosofia giuridica fu, dal punto di vista speculativo, eclettica”18.
Ma se ci si interroga, spregiudicatamente, sul perché essa sia “scivolata verso quel modo di ragionare per successive accumulazioni di parti eterogenee in cui consiste propriamente la “tecnica dell’eclettismo”19, non si può non constatare che la deriva era inevitabile considerato il modo in cui la disciplina venne per lo più coltivata dai suoi titolari, ossia come “filosofia dimidiata”20, come filosofia particolare o applicata, come parte o meglio appendice di una filosofia generale, sviluppata in termini di deduzione dal nucleo teoretico di un sistema filosofico piuttosto che come problematizzazione dell’esperienza giuridica. Solo per un esempio potremmo citare gli Elementi della filosofia e storia del diritto tratti dai principi della moderna filosofia italiana e disposti secondo il programma delle scuole universitarie di giurisprudenza di Ugolino Fasolis, insegnante di filosofia del diritto in Torino nel 1867 21, che sin dal titolo è significativo del modo in cui veniva praticata la filosofia del diritto. In altri termini, la filosofia destinata agli studenti della scuola di diritto veniva “tratta” da un sistema filosofico precostituito, indipendentemente dalle specifiche problematiche giuridiche, e poi a queste “mescolata” e per deduzione “adattata”, secondo un processo che saremmo tentati di definire fondamentalmente “ideologico”. Non è possibile sviluppare qui analiticamente questa affermazione che tuttavia può trovare una serie di conferme di vario genere. Dalle polemiche pro e contro “l’autonomia della filosofia del diritto”, che vide opporsi all’interno del positivismo giuridico Icilio Vanni e Salvatore Fragapane22 , o su “l’universale giuridico”, che infuriò all’interno del neo-idealismo tra Giorgio Del Vecchio e Benedetto Croce23. Ma anche dal modo in cui gli stessi cultori della materia si rappresentano la “storia della filosofia del diritto”, nei già citati saggi del Filomusi Guelfi e del Bobbio sulla filosofia del diritto in Italia nel secolo XIX, ma anche nei successivi di Pietro Piovani24 o di Rinaldo Orecchia25, nella monumentale opera di Guido Fassò 26o nel libro di Perez Luño27, e che trova la sua più significativa manifestazione negli atti del XI Congresso nazionale della Società italiana di filosofia giuridica e politica, tenutosi a Napoli nel 1976 e dedicato a La filosofia del diritto in Italia nel secolo XX28, presentata come articolantesi nei filoni, filosofici o come preferiremmo dire ideologici, dell’idealismo, del positivismo/neopositivismo e del giusnaturalismo. Per la verità, in quella occasione, una quarta sezione venne dedicata, in maniera extra-vagante, a “la filosofia dell’esperienza giuridica”, su personale e ferma richiesta del presidente della Società, il professore Enrico Opocher, ma questo ci porta ad una nuova serie di considerazioni.
Nel 1921 Giorgio Del Vecchio, che è stato per lungo tempo il “padre padrone”29 o, come avrebbe detto Pietro Piovani30, lo “scolarca incontrastato” della filosofia del diritto italiana, fonda la “Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto”, organo della Società Italiana di Filosofia del Diritto, con lo scopo, come si legge nel Programma, di farne “il punto d’incontro di filosofi e giuristi, i quali troppo spesso si ignorano e quasi ostentano una reciproca incomprensione mentre grande sarebbe da ambo le parti il vantaggio se, abbandonando vieti abiti mentali e diffidenze ingiustificate, si stabilisse tra gli uni e gli altri una certa comunione di lavoro e un attivo scambio di idee, per ciò che concerne la vita del diritto e i suoi problemi fondamentali”. Ed è subito vivace polemica, provocata dal saggio di Angelo Ermanno Cammarata, Su le tendenze antifilosofiche della giurisprudenza in Italia31, cui fanno seguito, nel breve volgere di qualche numero della rivista, quelli di importanti giuristi, quali Francesco Carnelutti32 e Pietro Bonfante33, e di valenti filosofi del diritto, quali Alessandro Levi34 e Giuseppe Maggiore35. Da quanto abbiamo osservato, sul modo in cui i cultori della materia hanno praticato la filosofia del diritto nella scuola di giurisprudenza, è agevole intendere i motivi delle incomprensioni che correvano tra giuristi e filosofi. Cammarata ha un’espressione molto colorita: “Un plotone di dottrine filosofiche in distaccamento presso il diritto!”36. Non era per questo che i giuristi avevano invocato, come abbiamo visto, con tanta insistenza l’introduzione di una disciplina filosofica nel piano di studi giuridici; “la ragione profonda dell’incomunicabilità tra giuristi e filosofi (..) andava rintracciata appunto in quella mescolanza di dottrine filosofiche e di concetti tecnico-empirici, di cui erano rimaste vittime, in forme diverse, sia l’indirizzo positivistico che quello neo-kantiano (Non è peraltro che con l’idealismo, aggiungeremmo noi, le cose andassero assai meglio37). In tal modo, un po’ per ‘applicare’ la filosofia del diritto, un po’ nell’intento di rivedere le bucce ai giuristi, si è finito col dar luogo ad un guazzabuglio di teorie che non poteva, a lungo andare, esser guardato di buon occhio né dai filosofi, né, tanto meno, dai giuristi”38.
La presa di coscienza dell’esito fallimentare di una filosofia del diritto come filosofia particolare produce l’effetto di focalizzare l’attenzione dei cultori della materia “sulla reale natura della scienza giuridica e sul rapporto tra quest’ultima e la filosofia”39 senza aggettivazioni. Esemplare in tal senso la critica gnoseologica alla giurisprudenza proposta da Cammarata, tutta polarizzata sul “formalismo giuridico”40. A partire dalla seconda parte degli anni Trenta appariranno i più significativi studi filosofici sulla natura della giurisprudenza come scienza: Il diritto come relazione di Renato Treves e Scienza e tecnica del diritto di Norberto Bobbio nel 1934, Il problema della scienza del diritto di Giuseppe Capograssi nel 1937, Studi filosofici sulla scienza del diritto di Flavio Lopez de Oñate del 1939, Il problema della scienza giuridica di Bruno Leoni nel 1940, Diritto e scienza giuridica nella critica del concreto di Luigi Bagolini del 1942, Il concetto di giuridicità nella scienza moderna del diritto di Francesco Olgiati del 1943, a cui più tardi si aggiungeranno, quasi a compimento di un percorso speculativo, Teoria della scienza giuridica di Bobbio del 1950 e Il problema della natura della giurisprudenza di Enrico Opocher del 1953. Anche in questo caso sin dai titoli degli studi si evince quale sia divenuto il tema centrale della speculazione giusfilosofica, ossia quello della giuridicità, affrontato questa volta con riferimento specifico ai problemi della giurisprudenza41 e a confronto diretto con le teorizzazioni dei giuristi42, in una prospettiva, tuttavia, profondamente condizionata dal dominante neoidealismo, tanto sul versante dell’attualismo gentiliano che del crociano storicismo assoluto, il che avrebbe impedito un autentico “incontro di filosofi e giuristi”, tanto per la riduzione del diritto a “volontà voluta”43 quanto per la definizione di quelli giuridici come pseudoconcetti44.
Di tutta questa complessa vicenda una ricostruzione, meticolosa nell’analisi e intelligente nella critica, è tracciata nello studio Sulla giurisprudenza come scienza. I: un dibattito attraverso l’esperienza giuridica italiana della prima metà del ventesimo secolo45, da Federico Casa il quale è molto fermo, e documentato, nel sostenere che “per tutto il Novecento quel ‘ponte’ non è stato mai veramente gettato. Né dalla filosofia della Scuola analitica, per ammissione stessa, ormai più di trentenni fa, di Uberto Scarpelli, uno dei suoi più intelligenti interpreti. Né da parte della filosofia del cosiddetto circolo ermeneutico che, se ha avuto e probabilmente ha ancor oggi il merito specialissimo di problematizzare sia la struttura che il significato dell’autorità giurisdizionale, non è poi riuscito a cogliere il reale significato dell’esperienza giuridica. D’altro canto – continua maliziosamente Casa – riterrei davvero difficile sostenere che, nella stesura dei suoi provvedimenti, questi sì incidenti sulla vita e sul patrimonio dei cittadini, un magistrato abbia presenti gli affascinanti modelli ermeneutici di un Gadamer o di un Heidegger, così come mi parrebbe assai peregrino affermare che un autentico ausilio offra agli avvocati, nella stesura di un atto giudiziario o nella impostazione di un’arringa difensiva, il pur significativo e pensato saggio di retorica di un Perelmann e dei suoi più o meno fedeli proseliti, dei quali, seppure abbiano colto la logica e la rilevanza della composizione e ricomposizione degli argomenti giuridici ai fini della persuasione del giudice, non si può certo dire che forniscano strumenti efficaci dal punto di vista operativo”46. Non più tardi di qualche anno fa’, al Congresso nazionale della Società italiana di filosofia giuridica e politica di Macerata, l’invitato d’onore, il celebre giurista Natalino Irti, “si domandava divertito come possano i filosofi del diritto discettare di teoria generale dell’arbitrato senza mai aver preso parte ad uno”47. “Bisogna veramente riconoscere che il diritto del nostro tempo è un diritto senza verità, che l’attuale crisi dell’esperienza giuridica è, nella sua essenza più profonda, una crisi della verità del diritto o, meglio, di quell’intima consapevolezza del proprio valore, senza di cui l’esperienza giuridica diviene cieca, non è più se stessa”48.