Il ruolo della filosofia nella formazione del giurista•
di Francesco Gentile
Tutto questo conduce a dire che, se non interviene una concezione laica della giuridicità “dappertutto là dove nell’ambito della verità santa viene pronunciato un deciso ‘si’ e ‘no’, dove vigono forma oggettiva del culto, ordine e autorità, sorge anche il rischio della ‘Legge’ e del ‘fariseo’. Il pericolo di prendere l’esterno per l’interiore; il pericolo della contraddizione tra l’orientamento intenzionale e la parola; il pericolo di muovere da ciò che è in vigore ed è di diritto per mettere le mani sulla libertà di Dio133. (..) La storia della Legge – conclude Guardini – è un grande monito. Il sacro, che veniva da Dio, è stato reso uno strumento di perdizione. Quando Rivelazione espressa, ordinamento positivo dell’esistenza derivanti da Dio sono oggetto di fede, si instaura di nuovo questa possibilità. Ė bene per il credente saperlo – conclude il teologo – affinché nel Secondo Patto egli rimanga garantito di fronte al destino del Primo”134. E quanto bene sarebbe che lo sapesse anche il giurista, credente o non, lo possiamo misurare oggi riflettendo sul formalismo che ne compromette la fatica nell’attuazione della legge scritta dal dito dell’uomo esponendolo, sempre più pericolosamente, al baratro del nichilismo135. Immergendosi nel mistero della Legge, data da Dio a Mosé quale segno dell’Alleanza, “Voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19, 5-6), senza improponibili paragoni ma con più credibile fondamento, i giuristi, ‘cuius merito quis (..) sacerdotes appellet’ (D. 1, 1, 1), potranno rispondere alla domanda che loro rivolgono gli uomini di mettere ordine nelle loro relazioni rappresentando il suo di ciascuno.
Epilogo allegorico. Dormivo, forse sognavo, quando mi sono ritrovato in un buio pesto. Ben presto ho percepito d’essere in un locale chiuso e affollato. Sballottato da tutte le parti, mi sono mosso a tentoni finché non ho raggiunto una parete. Poi, aiutandomi con la mano, l’ho percorsa tutta lungo finché sono andato a sbattere sulla parete che la incrociava ortogonalmente. Volta la schiena all’angolo tra i due muri, mi sono sentito più sicuro perché non dovevo difendermi a trecentosessanta gradi ma solo a novanta, circa, e ho cominciato ad orientarmi, percependo vagamente davanti a me un enorme stanzone. Poteva essere un garage o un supermercato o una grande palestra. Pullulante di gente in movimento disordinato e tumultuoso come in un quadro del giudizio universale, quello del Tintoretto, ad esempio, nella Sala del Gran Consiglio a Palazzo ducale.
Il buio, pesto, era animato da immagini luminose che si accendevano d’improvviso e subito si spegnevano. Facendo attenzione ho cominciato a capire che si trattava di persone e di cose che passavano attraverso dei raggi di luce polarizzati, come qualche volta si vede a teatro, quando il palcoscenico non viene illuminato dal proscenio con luce diffusa ma dai lati con dei proiettori, degli “occhi di bue”. Aguzzando la vista, mi sono accorto inoltre delle ombre che questi fasci di luce polarizzata proiettavano, sul pavimento e sulle pareti; lo stesso soggetto creava così ombre diverse a seconda dei diversi fasci di luce da cui era illuminato, cosicché era difficile capire di che cosa veramente si trattasse e l’impressione era destinata a cambiare a seconda del fascio di luce alla quale il soggetto, persona o cosa, era esposto.
Incuriosito cercavo di capire da dove venissero questi raggi luminosi e mi accorsi che nella parte più alta delle pareti, quasi all’intersezione col soffitto, delle feritoie lunghe e sottili lasciavano filtrare la luce, con diversa angolazione e intensità. Dunque c’era un fuori! E fuori c’era della luce! Cominciai così a muovermi con una diversa consapevolezza, andando tuttavia a sbattere su persone e cose che non vedevo se non in un baleno o intuivo a partire dalle ombre proiettate. Cominciai a muovermi per raggiungere le fonti luminose che erano in alto, molto in alto, irraggiungibili senza aiuto. Girovagavo, incerto, per lo stanzone quando incappai un una costruzione a gradoni, uno stufenbau. In qualche modo m’inerpicai, sino al soffitto. Dall’alto mi parve che la situazione fosse meglio controllabile, soprattutto se si individuavano i soggetti alla luce di uno solo dei raggi polarizzati. Convenzionalmente, come se altri raggi non le illuminassero. Una “realtà virtuale” mi stava davanti. Ma ben presto fui attratto da una botola sopra la testa. Apertala mi trovai sul pavimento della stanza superiore. Inondato di luce.
La nuova stanza era più piccola di quella sottostante ma sempre assai grande. Anche qui molte persone e cose. Tutte bene in vista perché dalle pareti, interamente di vetro, la luce liberamente entrava e si diffondeva senza lasciare ombre. Dall’inclinazione delle pareti si poteva arguire che l’intera costruzione fosse a forma di piramide, un pesante soffitto tuttavia impediva di vedere da dove venisse tutta quella luce. La gente si muoveva ordinatamente, senza urtarsi; la luminosità diffusa infatti consentiva ad ognuno di riconoscere bene il proprio spazio e quello altrui sicché non era difficile riconoscere a ciascuno il suo.
Ognuno poi, vedendo le spalle altrui ma non le proprie, era spinto a rivolgersi agli altri per saperne di più. E così tutti si parlavano, interrogando e rispondendo. E si spiegavano reciprocamente distinguendo ciò che tra loro era comune e ciò che li faceva diversi. In discussioni animate e talvolta persino accese su quella che doveva essere la giusta relazione tra persone. Senza risposta rimaneva tuttavia la domanda sulla luce in sé, che era percepita per i suoi riflessi ma che rimaneva inaccessibile nella sua fonte, nonostante i vari tentativi di forzare le vetrate, chiuse con inviolabile sigillo. Fuor di dubbio che venisse dall’alto ma il soffitto, finemente lavorato a cassettoni, costituiva un ingombrante ostacolo. Ad un tratto mi accorsi di una scala fatta di gradini di vetro trasparente, sostenuti da fili quasi invisibili, che saliva impercettibilmente sino al soffitto. La percorsi tutta e attraverso un piccolo abbaino, schermato da uno dei cassettoni del soffitto, mi ritrovai su di un terrazzo, aperto tutt’intorno. “Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/ che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,/ e cede la memoria a tanto oltraggio./ Qual è colui che sognando vede,/ che dopo ‘l sogno la passione impressa/ rimane, e l’altro a la mente non riede,/ cotal son io, ché quasi tutta cessa/ mia visione, e ancor mi distilla/ nel core il dolce che nacque da essa” (Paradiso, XXXIII, 55-63). Lo sguardo poteva spingersi intorno a perdita d’occhio. Paesaggi meravigliosi si distendevano per ogni dove. Ma era la fonte luminosa ad assorbire ogni attenzione poiché da quel “mezzo” ogni cosa risultava “giustificata” e “’l ben, ch’è del volere obietto,/tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella/ è difettivo ciò ch’è lì perfetto” (Paradiso, XXXIII, 103-105).
Stavo così crogiolandomi alla carezza calda e morbida della luce quando fui distratto da una scaletta che lungo uno spigolo della piramide scendeva verso il basso. Che a spingermi sia stato la voglia di vantarmi della bella avventura o il senso del dover condividere con gli altri la strada che mi aveva portato sino a quel “paradiso” non saprei dire, fatto sta che mi trovai al fondo della scala e. attraverso una bussola, rientrato nell’ “inferno” della prima stanza.
A questo punto l’avventura è sfumata ed io mi sono ritrovato sveglio.
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•Testo del Seminario per professori della Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università della Santa Croce, tenutosi a Roma, in Piazza sant’Apollinare, il 15 maggio del 2008.
1 G.GALLONI, Reclutamento e formazione dei magistrati in Italia. Contributi al dibattito su un nodo centrale della crisi della giustizia, Roma, 1991, p. 3 del dattiloscritto.
2 Op. cit., p. 5.
3 E’ questo uno dei tanti progetti predisposti ad integrazione del Piano di disciplina degli studi universitari dal Romagnosi, chiamato a Milano a “prestare i suoi lumi per la sistemazione del governo” dal conte Luosi di Mirandola, già membro del Direttorio Cisalpino, divenuto Gran Giudice o Ministro della giustizia. Napoleone aveva cinto la corona ferrea il 26 maggio 1805 e nominato Viceré d’Italia Eugenio di Beauharnais. Per la precisione storica va detto che il progetto del Romagnosi, concepito originariamente come contributo specifico al complesso delle innovazioni accademiche inaugurato dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria nel 1773, non ebbe mai attuazione, esso tuttavia esercitò un’influenza puntuale e specifica sulla legge 17 novembre 1808, la quale diede nuova sistemazione agli studi legali. Com’è noto, alla “mente” di Napoleone risalgono le coordinate dell’organizzazione universitaria italiana. Per un’analisi più dettagliata dei progetti romagnosiani si può vedere F. GENTILE, Il progetto di regolamento degli studi politico-legali di G.D. Romagnosi, in AA.VV., L’educazione giuridica. II Profili storici, a cura di A. Giuliani e N. Picardi, Perugia, 1979, pp. 430-453.
4 Professore insigne di diritto internazionale nell’Università degli Studi di Torino ma anche politico attivo quale Deputato alla Camera Cisalpina, il Mancini colse l’occasione offertagli dall’incarico di tenere il discorso inaugurale dell’anno accademico 1858-59 per tracciare un quadro dello stato degli studi giuridici in modo che “una delle grandi classi dell’umano sapere cessasse di apparire divisa ne’ suoi molteplici e secondari scompartimenti e ricomponendosi a sintetica unità le speciali discipline in essa comprese”. Per un’analisi più dettagliata del discorso manciniano si può vedere F. GENTILE, Il posto della filosofia del diritto negli studi legali secondo Mancini, in AA.VV., Pasquale Stanislao Mancini. L’uomo, lo studioso, il politico, Napoli, 1991, pp. 335-365
5 G.D. ROMAGNOSI, Filosofia del diritto, Napoli, 1839 (5a ed.), p. 9. Estremamente interessanti alcune annotazioni romagnosiane sul metodo d’insegnamento del diritto per le quali, proprio perché “le regole presuppongono le teorie e non offrono che le applicazioni pratiche delle teorie”, proprio perché “le regole dirigono la mano e non danno la ragione originaria e filosofica per dirigerla” (Op. cit., p. 37), è essenziale che il cittadino venga educato a cogliere al di là delle leggi scritte e immediatamente riconoscibili la loro “ragione filosofica” (Op. cit., p. 6), senza la quale la disposizione normativa può essere insufficiente ad orientare l’azione e con la quale il singolo è in grado di orientarsi anche “dove mancano le ordinanze speciali delle leggi” (Op. cit., p. 9).