Il ruolo della filosofia nella formazione del giurista•
di Francesco Gentile
Una seconda suggestione deriva dal fatto che tale disposizione al cambiamento non ha nulla a che fare con la mancanza di orientamento propria, ad esempio, di una banderuola che cambia di direzione col mutare del vento né con l’indecisione nell’esistenza o l’influenzabilità occasionale che lasciano l’uomo soggetto all’ondeggiamento in qualsiasi direzione. Sulla irreversibilità dell’impegno fondamentale del cristiano a convertirsi la Lettera agli Ebrei ha parole che possono sembrare inquietanti ma che sono in realtà illuminanti. Se si è imboccata la vera direzione, la direzione della verità, quella rimane il tracciato ed indica il cammino, rimane la meta e imprime il movimento. Ora, mutatis mutandis, nell’esperienza giuridica della controversia la situazione presenta delle singolari e suggestive analogie: il confronto delle pretese di parte, infatti, avviene sulla base della loro ragionevolezza ossia della riconoscibilità in comune della direzione che conduce al vero e al bene, dalla quale non è più possibile discostarsi una volta adita la via del processo. La contraddizione non vi ha più spazio. Scoperta risulta la centralità che a questo scopo assume nel dibattimento il giudice il quale, non essendo latore di una pretesa di parte, è chiamato a garantire la più distesa apertura ad ogni prospettiva di parte in quanto tuttavia concorrente al riconoscimento del vero.
Incontraddittoriamente. Solo la fedeltà al vero, che non si presenta come possesso di un dato assodato ma come tracciato di una ricerca impregiudicata, rende possibile la conversione dei soggetti confliggenti nella lite, tanto che saremmo tentati di affermare come primario impegno del giudice quello di garantire il confronto più aperto e impregiudicato possibile delle ragioni di parte assai più della stessa imparzialità nel giudizio sul quale inevitabilmente finiscono per poter incidere le inclinazioni soggettive. Ma, a ben riflettere, non meno rilevante per l’attuarsi di questo processo è l’impegno dell’avvocato di parte. La conversione, infatti, è, e non potrebbe essere se non personale e interiore. È il soggetto litigante che solo può superare autenticamente la lite; è lui che deve rompere con le pulsioni individuali, egocentriche e bellicose, per lasciarsi trasformare dall’impronta del bene comune che lo allontanerà da esse, così ristabilendo la relazione con l’altro dal conflitto interrotta sulla base di un bene che è di tutti senza essere di alcuno in esclusiva. Ora questo mutamento richiede coraggio personale e interiore ma ha bisogno d’essere sostenuto comunitariamente e per questo a chi adisce la via del processo è tassativamente garantita l’assistenza di un giurista di professione. Un parákletos diremmo in greco, che significa insieme il chiamato in aiuto, l’advocatus latino, ma anche l’intercessore e il consolatore. Tutto questo non dovrebbe essere dimenticato da chi è chiamato ad esercitare la funzione di accusatore o di difensore nel caso concreto di un processo. Quanto alla terza suggestione che il riferimento alla metánoia mi ha provocato, forse la più penetrante, oggi non saprei dire se non che mi è parso come di intravedere nell’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive, allo stesso modo peraltro dell’ordinamento economico degli interessi e all’ordinamento politico delle dignità, un momento del processo di purificazione personale a cui l’uomo è chiamato per la sua natura intessuta di essere animale e divino, naturale e sovrannaturale. Ma non sono per ora in grado di aggiungere altro.
Sul iuratus. Cicerone nel De officiis fa memoria di un “costume tramandatoci – dice – dai nostri padri (oh, se noi lo conservassimo ancora), di pregare il giudice con questa formula: ‘Fa per me tutto quello che puoi, purché sia salva la tua coscienza’” (De officiis, 3,10,45). Alla coscienza anche oggi si appella chi è chiamato a giudicare ma a quale condizione la sua coscienza sarà salva? La iuris prudentia ha una risposta che anche oggi non può non risultare incontrovertibile. “Quando il giurato dovrà pronunciare sentenza si ricordi che adopera Dio come testimone, cioè – come io ritengo – la sua coscienza, della quale Dio stesso all’uomo nulla di più divino ha dato” (De officiis, 3,10,44). Una lapidaria citazione del teologo Romano Guardini mi soccorre a questo punto: “Coscienza è, anzitutto, quell’organo per mezzo del quale io rispondo al bene e divento consapevole di questo: ‘Il bene esiste; ha un’importanza assoluta; il fine ultimo della mia esistenza è legato ad esso; il bene bisogna farlo; in questo fare si decide una realtà ultima’. La coscienza però è anche l’organo mediante il quale dalla situazione ricavo il chiarimento e la specificazione del bene; mediante il quale posso conoscere che cosa sia il bene in questo determinato luogo e in questo determinato momento. L’atto della coscienza è dunque quell’atto col quale penetro di volta in volta la situazione e intendo che cosa sia, in tale situazione, il giusto e perciò stesso il bene. Così la coscienza è anche la porta per la quale l’eterno entra nel tempo”126. Sarebbe superfluo ricordare come coscienza e prudenza valgano quali sinonimi127. La formula “ex animi mei sententia”, con la quale il giudice romano, che era come tutti ricordano un privato cittadino, ma in fondo con cui ogni giudice, anche il funzionario pubblico d’oggigiorno, introduce e sostiene il suo giudizio, significa collocare l’azione del iuratus sotto il presidio della coscienza del bene e del sommo Bene. Significa, per usare un’espressione straordinaria dell’Antico testamento (Gdc 18,6), “camminare sotto gli sguardi Dio”.
“Non nobis, Domine, non nobis”. Inciso sulla facciata del Palazzo Loredan in Canal Grande, ancor oggi l’incipit del Terzo Salmo dell’Hallel (Salmo 113 b ), ci ricorda di quanto forte sia stato il “timor di Dio” nei governanti della Repubblica di San Marco, dalla cui terra vengo, che “serenissima” non ha mai temuto gli eventi umani essendosi in ultima istanza affidata sempre al Redentore. Ma ammonisce anche i giuristi di ogni terra, affinché riflettano sul timore degli uomini che, “una volta preteso di fare a meno del timor di Dio, è il principio d’ogni follia” ché, come dice il Papa Benedetto, “a bandire Dio dalla città si finisce per bandire la giustizia e anche il diritto”128.
Quanto alla legge, credo che non sarebbe inutile per il giurista riflettere sulla sua “storia enigmatica”, tra il Vecchio e il Nuovo Testamento. E mi spiego. Nel processo di trasformazione del conflitto in controversia il giurista interviene con la sua specifica professionalità traducendo, appunto, in termini giuridici le ragioni, che possono essere di diversa natura, economiche, sociali, psicologiche, ecc., sottostanti alla pretesa di dominio del litigante. Ora è scoperto il ruolo che in questo processo di definizione del giusto nella controversia esercita il complesso delle disposizioni normative istituzionali che potrebbe essere paragonato al ruolo che esercita il linguaggio nel processo di definizione del vero nel discorso. Più esattamente l’assertorità del linguaggio come del disposto normativo con la sua resistenza alla problematicità del discorrere e del controvertere non è un’accidentalità storica, propria del resto di ogni discorso come di ogni controversia, ma è la stessa determinazione dell’atto problematico intrinseco al controvertere e al discorrere. Sicché senza l’assertorietà implicita nel linguaggio come nella disposizione normativa la leva della problematicità avrebbe un’efficacia puramente illusoria e per noi, mortali, sarebbe vano cercare di discernere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. In questo modo si pone il problema della naturale positività del diritto, di cui un tema particolarmente significativo è quello del rapporto tra la lettera e lo spirito delle leggi 129.
Un errore, che non esiterei a definire grossolano e tuttavia presente in molte anche raffinate trattazioni sulla legge, consiste nell’identificare immediatamente l’ordine con “il testo preciso della legge”. Uso questa formula che il Montesquieu ha coniato per definire l’opera del giudice senza temere di distorcerla, considerato che nella prospettiva geometrica la sentenza del giudice è equiparata alla legge, anzi. È da considerarsi l’unica, vera, legge del caso particolare. L’errore grossolano è quello di ritenere che l’applicazione formale del disposto normativo, ossia dell’imperativo veicolato dalla legge, al caso abbia automaticamente l’effetto di risolverlo, Ché, se anche così dovesse essere, cosa peraltro che non è, sarebbe un sovrapporsi della volontà pubblica sulle volontà private dei litiganti con un definitivo e irreversibile troncamento della relazione intersoggettiva e la sostituzione di questa con una subordinazione ma sarebbe meglio dire un assorbimento delle volontà private dei sudditi in quella pubblica del sovrano. A questo errore se ne aggiunge spesso un altro, altrettanto grossolano, di natura filologica. Quando parla di legge, più d’un teorico del diritto, credente ma più spesso non, dà l’impressione di pensare come ad un prototipo di legislazione alla Legge che Mosé portò giù dal Monte Sinai, incisa sulla due tavole della Testimonianza (Es 30, 15), per intendersi le tavole dei dieci comandamenti. Il testo che ce ne dà notizia precisa trattarsi di “tavole di pietra scritte dal dito di Dio” (Es 31, 18) e ancora: “le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole” (Es 32, 16). Si creda o non si creda alla Sacra Scrittura, che essendo rivelata non è e non pretende di essere dimostrata, quello che non si può fare è stabilire, immediatamente, un parallelo tra quella Legge e la legge prodotta, posta, dall’uomo, di cui si conosce perfettamente “il dito” che l’ha scritta, e non è il dito di Dio ma quello di un uomo o di un gruppo di uomini, in circostanze storicamente determinate, dal punto di vista culturale, e sociale, politico ed economico, tanto che abitualmente ogni legge si identifica con una data, quella della promulgazione, e con un numero, quello progressivo dell’inventario della legislazione, e talvolta persino con un nome proprio, quello del proponente nella fase iniziale della sua elaborazione parlamentare. Di più, essa, la legge di cui si servono i giuristi, per la sua convenzionalità, per la sua natura strumentale, esige d’essere collocata nella prospettiva operativa nella quale trova la sua ragion d’essere, nell’ordinamento della lite mediante l’instaurazione della controversia. In altri termini, la legge non è l’ordine e neppure la fonte dell’ordine ma uno strumento utile ad individuare le modalità dell’ordinamento delle relazioni intersoggettive a muovere dal caso e, specificamente, è lo strumento principale per la traduzione del conflitto in controversia. In tal senso si potrebbe formulare un paragone tra la legge e il concetto, un parallelo, ardito ma non temerario, per cui potremmo dire che come il concetto costituisce un principio regolatore della conoscenza, nel senso che mediante il concetto, o meglio la rete dei concetti, in cui si unificano le esperienze precedenti ci si apre ad esperienze nuove, così la legge esercita la funzione di modello per l’azione, nel senso che si trova nella legge, o meglio nella rete delle leggi in cui sono raccolti i tratti qualificanti di una relazione, l’indicazione utile per disporsi concretamente ad una relazione nuova con gli altri, nel caso della lite, superando le lacerazioni prodotte dal conflitto. Ora tutto questo risulterebbe più chiaro e convincente solo che si considerasse sommariamente la “storia enigmatica”, della Legge di Mosé, tra il Vecchio e il Nuovo Testamento. Romano Guardini offre lo spunto per una riflessione folgorante. “La Legge doveva impossessarsi del popolo a favore di Dio, attraverso ogni comandamento Dio voleva porre la mano su di esso – in verità però fu il popolo a prendere in possesso la Legge a proprio favore e a farne l’ossatura della propria esistenza. Dalla Legge trasse una pretesa di grandezza e dominio nel mondo, e incorporò Dio con la sua promessa in questa pretesa. Continuamente la volontà di imporre la Legge da parte dei sacerdoti e degli scribi si oppose alla libertà di Dio”130. A questo si aggiunse l’ipocrisia di una coscienziosità altamente sviluppata all’esterno mentre all’interno il cuore diventava sempre più duro; all’esterno fedeltà alla Legge, all’interno peccato. “In questo si è compiuto uno spaventoso stravolgimento del divino – quanto sia orribile, può emergere dalla sola frase che i farisei opposero al giudice supremo, il procuratore romano Pilato, quando questi, per sentimento naturale del diritto, dichiarò che non trovava alcuna colpa nell’accusato: ‘Noi abbiamo una Legge, e secondo questa Legge egli deve morire’ (Gv 19, 6-7). La Legge data da Dio è stata così infernalmente stravolta, che secondo essa il Figlio di Dio dovette morire!” 131. Se questa è l’infelice sorte della Legge mosaica, non si deve, tuttavia, credere che al pericolo di questo stravolgimento non sia esposta ogni legge. Il teologo è particolarmente puntuale nel denunciare che “non appena sussistono una gerarchia degli uffici e delle facoltà, della tradizione e del diritto, sorge il pericolo di vedere il regno di Dio già nell’autorità e nell’obbedienza stessa. Non appena sono fissate norme nell’ambito del sacro e si pongono separazioni tra diritto e non-diritto, sorge il pericolo di appoggiarsi su tale impostazione per mettere le mani alla libertà di Dio e per imprigionare nel diritto ciò che viene solo dalla sua grazia”132.