Analisi del leading case Maxwell [1978][1]
Dolo di concorso e “concorso anomalo”, tra diritto penale inglese ed italiano.
Profili sintetici di teoria generale del reato e della pena
di Gabriele Civello

[38] Il Codice penale del 1889 conosceva solamente la c.d. “complicità corrispettiva” (art. 378), in forza della quale, quando più persone avessero preso parte all’esecuzione di un omicidio o di una lesione personale e non si conoscesse l’autore dell’omicidio o della lesione (c.d. “mistero della prova”), tutti i soggetti concorrenti dovevano sottostare alla pena stabilita per il delitto, seppur diminuita (cfr. M. RONCO – S. ARDIZZONE, op. cit., 675; PAGLIARO, La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, Milano, 1966, 36; MAINO, Commento al codice penale italiano, III, Torino, 1922, 326 e segg.). In proposito, nei lavori preparatori al Codice Zanardelli (Atti della II Commissione, 1868), si legge: “con l’istituto della complicità corrispettiva, la legge si contenta di fare astrazione dalla responsabilità maggiore che è quella dell’autore del reato, e di limitarsi a quella accessoria dei complici, sacrificando l’ignoto per attenersi a ciò che è certamente noto” (cit. in A. DE MARSICO, Concorso di correità e complicità corrispettiva, Nota a C., Sez. I, 15.10.1914, in Riv. dir. proc. pen., 1915, II, 208, poi ripubblicato in Studi di Diritto Penale, Napoli, 1930, 183).

[39] Per un riferimento, in particolare, ai rapporti tra la c.d. “scuola tecnico-giuridica” di Arturo Rocco e la concezione del diritto penale quale strumento di protezione “oggettiva” di beni giuridici, si veda M. RONCO, Commento sub art. 54 c.p., in M. RONCO – S. ARDIZZONE, op. cit., 372; sul punto, cfr. anche G. CARUSO, Il problema dell’architettura del caso: a proposito del trattenimento del tossicodipendente in comunità e delle cause di giustificazione, in F. GENTILE, Filosofia del diritto. Le lezioni del XL anno raccolte dagli allievi, Padova, 2006, 260.

[40] Cfr. F. MANTOVANI, op. cit., 738: “la pena è strumento irrinunciabile di controllo sociale, finché non sarà dimostrata come erronea la verità di sempre, e sempre riconfermata, che […] accanto ad una minoranza di soggetti che non delinquono anche senza la pena e di soggetti che delinquono nonostante la pena, esiste la maggioranza di soggetti che non delinque a causa della pena”. Lo stesso Vincenzo Manzini definisce la propria teorica come quella di una “forma garantita di difesa sociale” (V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, I, Torino, 1950, 79, cit. in A. BERARDI, Vincenzo Manzini. Del metodo giuridico, Napoli, 2003, 54).

[41] In tema di prevenzionismo, è paradigmatico il riferimento a C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, § XII, nel quale l’Autore evidenzia la duplice funzione della pena: “impedire al reo dal fare nuovi danni” (c.d. “prevenzione speciale”) e “rimuovere gli altri dal farne uguali” (c.d. “prevenzione generale”).

[42] Si tratta dell’indirizzo teorico che Bettiol chiama “positivismo metodologico e sistematico che aveva visto nell’uomo solo un frammento di natura cieca” o “panpositivismo per il quale la personalità umana era soltanto un frammento di una costruzione naturalistica” (G. BETTIOL, Dolo e responsabilità penale nel quadro dei principi costituzionali, in Scritti Giuridici (1966-1980), Padova, 1980, 79). Per i rapporti tra “difesa sociale” e “postulati materialistici e sensistici”, si veda G. CARUSO, Delitti di schiavitù e dignità umana nella riforma degli artt. 600, 601 e 602 del Codice Penale – Contributo all’interpretazione della L. 11 agosto 2003, n. 228, Padova, 2005, 206.

[43] In F. MANTOVANI, op. cit., 561, si parla addirittura di culpa in eligendo, consistita nell’imprudenza di “affidarsi, per realizzare il proposito criminoso, anche alla condotta altrui, che come tale sfugge completamente al dominio finalistico del soggetto e sulla quale non si può esercitare quel controllo che invece è possibile esercitare sulla propria condotta, per evitare, almeno entro certi limiti, la causazione di fatti offensivi non voluti”; ebbene, il richiamo alla categoria civilistica della culpa in eligendo è spia di una malcelata applicazione analogica, in ambito penalistico, della responsabilità oggettiva per fatto del collaboratore o del preposto.

[44] In proposito, cfr. D. DAVIDSON, Essere agenti, in Azione ed eventi, Bologna, 2001, 108, cit. in M. RONCO, Descrizioni penali d’azione, in Riv. it. dir. pro. pen., 2004, 479: “in nessun caso noi facciamo qualcosa di più che muovere il nostro corpo: il resto tocca alla natura”.

[45] Si tratta di quello che viene icasticamente definito il “postulato funzionalistico dell’esercizio del magistero punitivo come arsenale normativo-coercitivo volto a scongiurare il conflitto individuale endemicamente latente nella società, e concretamente operante come apparato sanzionatorio a protezione di beni giuridici dell’individuo” (G. CARUSO, Delitti di schiavitù e dignità umana, cit., 274).

[46] A. BERARDI, Vincenzo Manzini, cit., 190-191; l’Autore, sul punto, rinvia a G. BETTIOL, Aspetti politici del diritto penale contemporaneo, in L’Indice penale, 1974, 7-9 e G. BETTIOL, Il problema penale, Trieste, 1945, 38-41.

[47] F. GENTILE, Esperienza giuridica e secolarizzazione, in AA. VV., Esperienza giuridica e secolarizzazione, Milano, 1994, 29.

[48] Ibidem, 29-30.

[49] Tant’è che, in tema di c.d. “complicità corrispettiva” (art. 378, c.p. 1889: v. nota n. 38, supra) – unica “isola” di concorso latamente “anomalo” all’interno di un codice sostanzialmente liberale ed informato al retribuzionismo – emergeva chiaramente anche in dottrina la matrice utilitaristica e “transattiva” dell’istituto; così in A. DE MARSICO, Concorso di correità e complicità corrispettiva, cit., l’illustre Maestro afferma: “per ragioni di politica criminale, alla impossibilità di graduare la responsabilità dei singoli agenti sul principio che ciascuno debba esser punito per quanto abbia fatto, come una transazione che consiste nell’irrogare a ciascuno una pena compresa fra quella comminata ai correi e quella comminata ai complici”; nella stessa sentenza commentata dall’Autore (C., Sez. I, 15.10.1914, in Riv. dir. proc. pen., 1915, II, 208), si legge: “con l’istituto della complicità corrispettiva si propose il legislatore (accettando per difetto di prova l’impunità relativa del reo principale), di conseguire la punizione del reo secondario”.

[50] Per una puntuale analisi dei rapporti tra teoria generale del reato e dignità umana, si veda G. CARUSO, Delitti di schiavitù e dignità umana, cit., passim; cfr. anche M. A. CATTANEO, Pena, diritto e dignità umana. Saggio sulla filosofia del diritto penale, Torino, 1998 e M. A. CATTANEO, Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano, 1981.

[51] “La considerazione del diritto penale non può esaurirsi nella valutazione dell’atto compiuto (ciò sarebbe un restringimento obbiettivistico del concetto di retribuzione), ma deve volgersi alla valutazione della causa personale dell’atto […]. Oggetto primario del diritto penale non è […] la condotta già obiettivata e cosificata, cioè l’azione-evento appartenente ormai al mondo della natura, bensì l’operatività dell’uomo nel suo dinamismo verso il conseguimento di fini, cha lascia intravedere, come momento negativo per il quale sorge la responsabilità, l’opposizione o la dis-attenzione nei confronti dei valori che costituiscono la trama dell’ordinamento giuridico” (M. RONCO, “Il significato retributivo-rieducativo della pena”, in Diritto penale e processo, 2005, II, 141; l’Autore cita anche M. GALLO, L’elemento oggettivo del reato. Appunti di diritto penale, Torino, 1974, 9-13, in cui, alla luce della considerazione del reato come illecito a modalità di lesione e non di mera lesione, si affronta il tema del rapporto tra diritto penale e morale, pervenendo alla conclusione circa l’esistenza di un nesso tra reato ed illecito morale, concernente non il contenuto del giudizio, bensì le modalità con cui il giudizio viene formulato).

[52] Sul punto, cfr. A. BERARDI, Il problema dell’architettura del caso: a proposito della rilevanza penale del patrocinio infedele “stragiudiziale”, in F. GENTILE, Filosofia del diritto. Le lezioni del XL anno raccolte dagli allievi, Padova, 2006, 232; l’Autore, in particolare, propone la via teorico-metodologica “dell’incessante dialogo tra la teoria e la prassi e dell’esperienza giuridica quale esperienza dalla struttura polimorfa”, in quanto “non v’è peggior giurista di chi si persuada di cambiare il mondo nel ristretto della turris eburnea dei suoi massimi sistemi, senza imbrattarsi della concretezza di una relazione intersoggettiva compromessa”.

[53] M. RONCO, Il problema della pena, Torino, 1996, 141.

[54] Tale concetto è icasticamente illustrato in M. RONCO, Il problema della pena, cit., 31: “con la teoria dello scopo appare per la prima volta in moto autarchico, svincolata da ogni altro fattore, la categoria del benessere dell’insieme, di cui sarebbe sottoclasse omogenea il benessere dell’individuo, che sostituisce le categorie della colpa, della libertà e della responsabile dignità di ogni singolo uomo”.

[55] D.P.P. for Northern Ireland v. Maxwell [1978] 3 All E.R. 1140

[56] In proposito, si veda F. GENTILE, Filosofia del diritto. Le lezioni del XL anno raccolte dagli allievi, cit., 145: “ciò che distingue la giustizia dalle altre virtù è la proprietà di regolare l’uomo in tutto quanto riguardi la relazione con gli altri; di giustizia si può parlare solo in termini di “relazione”, non esistendo una giustizia, o una ingiustizia, fuori della relazione, cosicché il limite dell’attuale concezione della giustizia dipende dalla curvatura solipsistica e individualistica che sembra assumere la giustizia a partire dalla pretesa dell’uomo di essere “unico”, ogni volta che si rivendica ciò che ci spetta. Proprio nel momento in cui l’uomo afferma: “questo mi spetta”, si è già perduta la consapevolezza che la giustizia vale solo all’interno della relazione”.

[57] A tal proposito, poco è risolto dal secondo comma dell’art. 116 c.p., il quale introduce una mera diminuzione (fino ad un terzo) della pena per il “concorrente anomalo”, non incidendo tale circostanza sulla permanente e sostanziale ingiustizia, connessa all’applicazione di una fattispecie dolosa in presenza di mera colpa o addirittura – secondo la littera legis e un’occulta interpretazione giurisprudenziale ancora in voga – in un’ipotesi di responsabilità oggettiva.

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