Analisi del leading case Maxwell [1978][1]
Dolo di concorso e “concorso anomalo”, tra diritto penale inglese ed italiano.
Profili sintetici di teoria generale del reato e della pena
di Gabriele Civello

È noto come tale interpretazione strettamente oggettivistica ed in chiave general-preventiva[20] sia stata superata dalla giurisprudenza costituzionale, la quale, in ossequio al generale principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.) ha tentato di temperare le aberrazioni derivanti da una siffatta opzione ermeneutica.

In particolare, nel caso affrontato dalla Consulta e definito con sentenza del 31 maggio 1965, n. 42, il Signor Amedino Ferretti era stato imputato del reato di omicidio volontario ai sensi dell’art. 116 c.p.; pertanto, la sua difesa aveva sollevato questione di legittimità costituzionale di quest’ultima disposizione di legge, la quale prevedrebbe – come precisato nell’ordinanza del giudice a quo – una “ipotesi di concorso a titolo di responsabilità obiettiva per mero rapporto di causalità materiale tra l’evento non voluto e l’azione od omissione dell’imputato, responsabilità che sarebbe “ascritta per fatto non proprio”, e quindi in contrasto col principio, sancito dall’art. 27, primo comma, della Costituzione, della personalità della responsabilità penale”.

Si costituiva in giudizio l’Avvocatura dello Stato, la quale rilevava, “innanzitutto, che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, l’art. 27, primo comma, della Costituzione si limita a fissare il divieto della responsabilità penale per fatto altrui, “senza alcun riferimento al divieto della cosiddetta responsabilità oggettiva” (sentenza n. 107 del 1957). Osserva inoltre che la fattispecie prevista da tale norma non potrebbe mai risolversi in una ipotesi di responsabilità per fatto altrui, in quanto la norma richiede che fra l’azione e l’omissione del concorrente e l’evento diverso o più grave di quello da lui voluto sussista un rapporto di consequenzialità”.

Al termine del procedimento, la Consulta rigettava la questione di legittimità costituzionale, così motivando: “è da ritenere che con l’art. 116 del Codice penale, diversamente da quanto si afferma nell’ordinanza, non si versi nella ipotesi della responsabilità oggettiva, in quanto, secondo la interpretazione che negli ultimi anni, in numerose sentenze, ha data la Corte di cassazione, e che questa Corte ritiene di condividere, è necessaria, per questa particolare forma di responsabilità penale, la presenza anche di un elemento soggettivo.

Le interpretazioni immediatamente successive alla entrata in vigore del Codice furono strettamente influenzate dalla formulazione letterale della nuova disposizione; e ne derivarono per un certo tempo affermazioni piuttosto decise del principio della responsabilità oggettiva come fondamento della disposizione stessa. Tuttavia questa interpretazione non mancò di suscitare, fin dal principio, vive obiezioni.

Sebbene i suoi sostenitori abbiano sempre tentato di attenuarne in certa misura la portata, è innegabile che, a voler assumere come fondamento della responsabilità ex art. 116 unicamente il rapporto di causalità materiale, non si potrebbe, a stretto rigore, stabilito un tale rapporto, sfuggire a talune estreme conseguenze: a quella, soprattutto, di dover imputare all’agente, solo perché materiale conseguenza della sua azione, un reato non soltanto diverso o più grave di quello voluto, ma anche del tutto al di fuori, per sua natura, da ciò che sarebbe un prevedibile omogeneo sviluppo dell’azione concordata. La interpretazione dell’art. 116 in senso rigidamente oggettivo è pertanto apparsa giustamente alla Cassazione non conforme al vero spirito della norma, venendo a creare una forma di responsabilità del tutto contrastante col sistema e produttiva, oltre tutto, di conseguenze penali di sproporzionata gravità.

Di qui il graduale manifestarsi della tendenza a riconoscere nella responsabilità ex art. 116 un coefficiente di partecipazione anche psichica: tendenza che ha poi trovato negli ultimi anni, come si è detto, costante e decisa affermazione nella giurisprudenza. Né ciò può attribuirsi a una diversione tardiva da quella che fu la originaria interpretazione, in quanto significativi precedenti nello stesso senso si riscontrano in una parte notevole della dottrina sin dai primi anni dall’entrata in vigore del Codice, e traccia evidente ne presentano gli stessi lavori preparatori. Già, infatti, nella Relazione sul testo definitivo (pag. 71) si avvertiva che, “chi coopera ad un’attività criminosa può e deve rappresentarsi la possibilità che il socio commetta un reato diverso da quello voluto”.

La interpretazione che in definitiva si è affermata nella giurisprudenza, pur tra qualche difformità e incertezza di formulazione, esige, sostanzialmente, come base della responsabilità ex art. 116 del Codice penale, la sussistenza non soltanto del rapporto di causalità materiale, ma anche di un rapporto di causalità psichica, concepito nel senso che il reato diverso o più grave commesso dal concorrente debba potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, affermandosi in tal modo la necessaria presenza anche di un coefficiente di colpevolezza.

Tale interpretazione questa Corte, accogliendo i motivi che la giurisprudenza ne ha via via esposti e sviluppati, ritiene di dover pienamente condividere, escludendo con ciò che l’art. 116 del Codice penale importi una violazione del principio della personalità della responsabilità penale: principio che nella partecipazione psichica dell’agente al fatto trova la sua massima affermazione. Essendo ciò sufficiente per riconoscere infondata la questione proposta, non è compito di questa Corte il delimitare particolarmente la natura e gli aspetti del coefficiente di colpevolezza che ricorre nella fattispecie dell’art. 116, né lo stabilire se dalla semplice colpa esso possa addirittura assurgere alla forma dolosa, nel qual caso, è anche dubbio che si rientri nella ipotesi del predetto art. 116 […]”.

Ebbene, da un lato tale pronuncia della Corte Costituzionale sembra costituire un importante passo avanti, nel tortuoso cammino della c.d. “lettura costituzionalmente orientata” della legislazione penale pre-repubblicana: senza dubbio, infatti, l’inserimento – se pur in sede di sentenza interpretativa di rigetto – di un coefficiente psichico all’interno dell’istituto del “concorso anomalo” ha rappresentato un lodevole tentativo di arricchire di indici personali e soggettivi la fattispecie prevista dall’art 116 c.p..

Tuttavia, quantomeno due profili critici residuano e rendono la disposizione dell’art. 116 c.p., pur dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 42/1965, gravemente collidente con il principio di personalità della responsabilità penale.

In primis, infatti, in applicazione dell’art. 116 c.p., quand’anche letto in chiave soggettivistica, si finiscono per applicare in ogni caso le rigide pene del reato doloso (nel caso affrontato dalla Consulta, l’omicidio volontario), nonostante nel caso concreto sussista la mera colpa in relazione all’evento cagionato dal concorrente; in proposito, si è affermato che la “anomalia” del concorso risiede proprio in ciò, e cioè nel fatto che “il concorrente risponde di un reato doloso sulla base di un reale atteggiamento colposo”[21]. Così, a titolo esemplificativo, nell’ipotesi di rapina a mano armata, il c.d. “palo” che abbia concordato con i complici la commissione del solo reato contro il patrimonio di cui all’art. 628 c.p., dovrà altresì rispondere di omicidio volontario (e, quindi, secondo l’intenzione), per il sol fatto che fosse prevedibile (e, quindi, contro l’intenzione) che i complici avrebbero potuto, nell’esecuzione della rapina, uccidere taluno dei presenti.

Dall’altro lato – e qui risiede il profilo autenticamente comparatistico della presente indagine – non può non trascurarsi la sostanziale differenza tra i due approdi teorico-pratici cui sono giunti il diritto penale inglese ed il diritto penale italiano in tema di “evento non voluto da taluno dei concorrenti”.

Come sopra illustrato, infatti, nell’ordinamento criminale inglese si è assistito ad una sorta di fusione tra la disciplina di statute law concernente il concorso di persone nel reato[22] e la stratificazione giurisprudenziale di common law riguardante la mens rea nell’illecito penale; di talché il “diritto vivente” inglese è giunto ben presto ad affermare che il concorrente che non abbia voluto espressamente cagionare un ulteriore fatto di reato, commesso materialmente dal complice, risponde del medesimo esclusivamente nel caso in cui quest’ultimo reato sia effettivamente e concretamente “previsto come avvenimento (incident) possibile del comune piano illecito. La responsabilità penale [infatti] risiede nel partecipare alla vicenda con questa previsione”[23].

Viceversa, nel diritto penale italiano, la giurisprudenza costituzionale – seguìta successivamente anche da costante giurisprudenza di merito e di legittimità – è giunta solo al punto da subordinare la punibilità del “concorrente anomalo” alla mera prevedibilità del differente reato commesso da taluno dei concorrenti (“il reato diverso o più grave commesso dal concorrente deve potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto”[24]); sul punto, la giurisprudenza ha di volta in volta propugnato un criterio di prevedibilità in astratto (specie nelle pronunce più risalenti; così, ex plurimis, in Cassazione Penale, Sez. I, 6 ottobre 1988[25]) o di prevedibilità in concreto (così, ex plurimis, in Cassazione Penale, Sez. I, 20 novembre 2000, n. 4399[26]; Cassazione Penale, Sez. I, 19 gennaio 1999, n. 3465[27]).

E’ evidente, pertanto, la differenza tra l’approccio inglese e quello italiano: il primo, maggiormente rispettoso del canone personalistico, richiede, ai fini della punibilità del “concorrente anomalo”, che costui abbia effettivamente e concretamente previsto (con “colpa cosciente”, parafrasando l’art. 61, n. 3 del Codice Penale italiano) la possibilità della perpetrazione del differente reato da parte di altro compartecipe; il secondo, di contro, ancora vincolato ad incrostazioni oggettivistiche e general-preventive, nella patente tensione tra art. 116 c.p. ed art. 27 Cost., giunge tutt’al più a subordinare la punibilità del “concorrente anomalo” alla sola prevedibilità del differente reato non voluto, così legittimando de facto una vischiosa prassi giurisprudenziale la quale, dietro la “maschera” della prevedibilità (magari in astratto) del reato non voluto, finisce per perpetuare tutt’oggi il canone tralatizio del versari in re illicita e della responsabilità oggettiva.

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