Le radici comunitarie della riforma italiana del mercato del lavoro
La perduta occasione di una autentica sussidiarietà
di Torquato G. Tasso

Con il Trattato di Maastricht del 1992 l’Europa fa proprio il principio di sussidiarietà; nel Preambolo del Trattato dell’Unione Europea, i paesi membri dichiarano di essere “decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa, in cui le decisione siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio di sussidiarietà”.

Il principio, ripreso poi anche nel Titolo I all’art. A del Trattato, va inteso necessità d’effettiva e reale adeguatezza dell’intervento ai fini del conseguimento dell’obiettivo fissato ([21]).

L’istituzione minore (ossia più vicina al cittadino) è accreditata del titolo originario ed insindacabile dell’azione giuridica finchè è adeguata all’obiettivo; solo laddove manchi questa adeguatezza interviene l’istituzione superiore; l’unione – quindi – interviene solo dove lo Stato membro non è in grado di realizzare l’obiettivo o l’obiettivo si realizza meglio a livello comunitario. Viene stabilito – quindi – il principio di pluralità delle fonti normative non sulla base di competenze puramente formali, ma in funzione dell’adeguatezza effettiva e reale dell’intervento ai fini del conseguimento dell’obiettivo fissato.

Su questo è doveroso ricordare il pensiero di Francesco Gentile che evidenzia come il principio non vada visto sotto una prospettiva “burocratica” a difesa degli Stati e delle Amministrazioni locali (nel senso che sia stato previsto un mezzo idoneo a salvaguardia della sovranità, o di quella parte di sovranità che rimane dello stato o riconoscimento agli enti locali del potere nei confronti degli organi europei) ([22]).

Sussidiarietà è strumento politico di riconoscimento dei beni aggreganti la comunità e non pura organizzazione di potere; è – soprattutto – l’occasione per avvicinare le istituzioni al paese reale; ed è proprio questo che il nostro legislatore nella riforma sembra aver mistificato. Il nostro legislatore avrebbe dovuto comprendere che la riforma, anche se è stata sollecitata dall’Unione Europea, non per questo deve essere “internazionale“ nel senso più semplicistico del termine. Non basta mutuare forme contrattuali esistenti in Europa e riportarle in Italia perchè la riforma sia, in effetti, una riforma di tipo europeo.

Facciamo un solo ma chiaro esempio: il contratto di job sharing. Si tratta di un contratto che è nato e cresciuto in un mondo quale quello americano e inglese, il cui contesto lavorativo è radicalmente diverso dal nostro. In questi paesi, ai contratti part time non viene riconosciuta tutela nè in relazione all’anzianità di servizio nè all’ingiustificato licenziamento. A chi stipula un contratto di job sharing, invece, malgrado la notevole riduzione di orario dei due lavoratori (equiparabile a due part time) tali tutele vengono riconosciute. Ne consegue che un lavoratore che, per scelta personale, necessaria o volontaria che sia, intende avere un’occupazione a orario ridotto, è maggiormente incentivato a stipulare un contratto di job sharing per poter godere di quelle tutele che, altrimenti, con il semplice contratto di part time, non gli verrebbero riconosciute. Ed ancora, in questi paesi, non esiste la realtà previdenziale e assistenziale che c’è in Italia e la responsabilità conseguente alla malattia del lavoratore può essere attribuita al lavoratore stesso e ciò non è impedito nè dalla legge nè dai contratti collettivi. Anche per questo, il lavoratore è indotto a stipulare un contratto di job sharing che, attraverso la reciproca sostituzione dei lavoratori, gli permette di evitare le conseguenze negative legate alla propria malattia.

Tutti questi motivi, quindi, fanno sì che il contratto di job sharing possa trovare, in questi paesi, ampia applicazione, anche e soprattutto nell’interesse del lavoratore. Ma sradicato dal contesto in cui è nato e trapiantato in Italia, in cui il tessuto sociale e lavorativo è completamente diverso, questo contratto perde il suo autentico significato, perde la sua effettiva valenza e, conseguentemente, la sua efficacia ([23]).

5.4. La perduta occasione per una riforma autenticamente sussidiaria: lo Statuto dei Lavori. A questo punto, per evitare che il nostro contributo possa apparire eccessivamente destruens ma non sufficientemente construens si deve cercare di dare risposta alla questa domanda che inevitabilmente consegue alle osservazioni appena illustrate ossia su come sarebbe stato possibile essere, invece, autenticamente europeisti, alla luce della corretta interpretazione del principio di sussidiarietà, nella riforma del mercato del lavoro.

Il nostro legislatore avrebbe dovuto seguire, a nostro avviso, la strada tracciata da Biagi, strada intrapresa ma poi, ad un certo punto della riforma, abbandonata. Ci riferisco all’idea più radicale di Marco Biagi, quella dello Statuto dei Lavori. Secondo l’illustre giurista, infatti, in seguito alle radicali modifiche e mutamenti nel mondo della produzione e del lavoro, non sembra aver più senso la rigida contrapposizione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, tra lavoro nella grande o nella piccola impresa; è, invece, necessario che alcuni diritti fondamentali trovino applicazione, a prescindere dalla qualificazione giuridica o contrattuale, a tutte le forme di lavoro rese a favore dei terzi. Ci si riferisce alla tutela della sicurezza e salute sul luogo di lavoro, alla libertà e dignità del lavoratore, al divieto di discriminazione, al divieto di lavoro minorile, al diritto ad un compenso equo, proporzionale alla quantità e qualità del lavoro svolto, alla libertà sindacale.

Questo nucleo essenziale di diritti e libertà inderogabili dovrebbe costituire il contenuto del nuovo statuto dei lavori, uno statuto chiamato a regolare tutte le prestazioni lavorative rese a favore di terzi, quale che sia la qualificazione giuridica del rapporto, a cui dovrebbe seguire una modulazione delle restanti tutele, secondo parametri più pregnanti ed efficaci di quelle attualmente esistenti e fondate sulla contrapposizione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, quali potrebbero essere: il grado di dipendenza socio economica del lavoratore; l’anzianità continuativa di servizio in modo da valorizzare e tutelare l’affidamento del lavoratore; la tipologia (anche dimensionale) dei datori di lavoro; le condizioni (siano esse di carattere oggettivo o soggettivo) del prestatore di lavoro; le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa; le finalità economico sociale del contratto;

In questo modo, la stessa “forma contrattuale” perderebbe molta della sua importanza al punto da poter trovare una formulazione più puntuale e aderente alla realtà da regolare in sede di certificazione dei contratti, con una contrattazione che sarebbe, quindi, quasi personalizzata e certamente, “più vicina al cittadino” ([24]).

Fare delle riforme in senso europeo, quindi, nel rispetto del principio di sussidiarietà, vuol dire guardare all’Europa, guardare agli obiettivi europei in funzione di un avvicinamento alle legislazioni europee, ma vuol dire che, fermo questo obiettivo, il modo migliore per attuare una riforma è sempre e comunque quello di guardare alla realtà, al contesto che si regolamenta e renderla la più aderente possibile al contesto, al paese reale, come recita l’articolo dello Statuto dell’Unione, “il più vicino possibile al cittadino”.

Solo così le riforme, una volta intraprese, potranno trovare concreta applicazione e non rimanere, invece, quanto meno in parte, inapplicate a far “bella mostra” di sè in polverosi codici in polverose biblioteche.

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[1] ) Si ricordano, tra gli altri:

DPCONS del 04/02/2004 n. 13666 art. 2;
DPR del 27/07/2004 n. 242 art. 2;
DM del 22/09/2004 n. 15608 art. 2;
DLT del 06/10/2004 n. 251;
PROV del 13/01/2005 n. 16640 art. 1;
L del 21/10/2005 n. 219 art. 8;
DLT del 05/12/2005 n. 252 art. 2;
DLT del 24/01/2006 n. 36 art. 3;
DM del 10/05/2006 n. 22501 art. 2;
DEC del 12/05/2006 n. 22368 all. 1;
DEC del 12/05/2006 n. 22368 all. 2;

[2] ) A tal fine, proprio con il citato Trattato di Amsterdam, l’Unione si è dotata di una propria Strategia Europea per l’Occupazione, che intende orientare i paesi membri verso obiettivi settoriali comuni.

[3] ) Essa ricordava inoltre che la sfida essenziale, nell’elaborazione delle varie politiche nel campo dell’occupazione, dell’istruzione e della politica sociale, è quella di riconciliare la sicurezza dei lavoratori e la flessibilità che è necessaria alle imprese".

[4] ) La Commissione sottolinea infine il ruolo che i poteri pubblici nazionali e l’Unione europea possono svolgere nel processo di ammodernamento.

[5] ) Si può evidenziare come questo sia stato – già da un punto di vista metodologico – un incipit che immediatamente rimanda alla tradizione europea.

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