Le radici comunitarie della riforma italiana del mercato del lavoro
La perduta occasione di una autentica sussidiarietà
di Torquato G. Tasso

Quali sono quindi le caratteristiche principali di questo contratto. Il contratto di lavoro deve indicare la misura percentuale e la collocazione temporale del lavoro giornaliero, settimanale, mensile o annuale che si prevede venga svolto da ciascuno dei lavoratori, restando comunque ferma la possibilità per i lavoratori di determinare discrezionalmente, in qualsiasi momento, la sostituzione ovvero la modificazione consensuale della distribuzione dell’orario di lavoro; La retribuzione deve essere corrisposta in proporzione alla quantità di lavoro effettivamente prestato da ciascuno dei lavoratori coinvolti; I lavoratori devono informare preventivamente il datore di lavoro sull’orario di lavoro di ciascuno dei lavoratori, con una cadenza almeno settimanale.

4.4. La certificazione dei contratti di lavoro. Un altro istituto particolarmente innovativo introdotto dalla riforma è la c.d. certificazione del rapporto di lavoro. La riforma prevede un’innovazione, anche se in via sperimentale, particolarmente interessante in ordine all’istituto della certificazione, istituto che non ha avuto, nel settore giuslavoristico italiano, alcun precedente ([18]). La novità consiste nel prevedere un organo pubblico o un organismo di natura sindacale bilaterale (quindi con le rappresentanze sindacali dei datori e dei lavoratori) incaricato di certificare, all’atto della stipulazione dei singoli contratti di lavoro, la natura del contratto stesso e la sua corrispondenza alla figura contrattuale tipica, indicata dalle parti, superando la diversa denominazione che le parti vi avessero formalmente data. Quest’opera di preventiva certificazione attribuirebbe al contratto concluso tra le parti un particolare valore legale al fine di prevenire (ed evitare) il contenzioso nel senso che, successivamente all’intervenuta certificazione, dovrebbe essere ridotto ([19]) ([20]).

4.5. Le altre novità. Cenni. Altre sono le novità della riforma, ovviamente, quali la revisione dei contratti a contenuto formativo, il lavoro a progetto, il lavoro occasionale, l’appalto e il distacco, ma abbiamo voluto soffermarci solo su quelle figure che, maggiormente, appaiono innovare il panorama giuslavoristico contrattuale italiano con un richiamo a realtà lavorative di altri paesi, europei e non.

5. Considerazioni conclusive. La riforma del mercato del lavoro che ha caratterizzato il panorama giuslavoristico degli ultimi anni, chiamata comunemente (e in parte, come vedremo, impropriamente) riforma “Biagi” si presentava con un intento evidentemente innovativo che prometteva grandi rivoluzioni nel settore. Come ogni rivoluzione, la riforma è stata accolta in modo molto contrastante. Da un lato è stata accompagnata da grandi entusiasmi. Dall’altro è stata accompagnata da una sorta di diffidenza. Senza entrare nella polemica (forse) più di natura politica che giuridica, è possibile comunque svolgere alcune riflessioni e considerazioni.

Innanzi tutto è doveroso precisare che la riforma non è il frutto di una volontà partigiana apparsa, come d’improvviso e inopinatamente, nel panorama della normativa giuslavoristica italiana. La legge Biagi, infatti, non fa altro che prendere atto di un’evoluzione normativa che si è evidenziata, negli ultimi anni, come necessaria (e necessitata) sotto molti punti di vista.

Necessaria soprattutto da un punto di vista europeo, dal momento che, come in precedenza abbiamo evidenziato, l’innovazione e la richiesta d’innovazione vengono proprio dall’Unione Europea che, in numerose occasioni, ha invitato i paesi membri (e l’Italia tra i primi) all’ammodernamento della loro normativa giuslavoristica. L’Italia era ad un bivio. O innovare la normativa giuslavoristica per rispettare i parametri imposti dall’Unione Europea e, quindi, rimanere in Europa (e possibilmente in una posizione di rilievo); o uscire dall’Europa, mettendo in discussione l’evoluzione in senso europeistico degli ultimi trent’anni della storia politica del nostro paese. Pare francamente improbabile (e antistorico) che si potesse anche solo pensare di seguire questa seconda opzione.

Ma bisogna anche riconoscere che la necessità di mutare l’ordinamento o, meglio, di modernizzare la normativa giuslavoristica non appariva solo un’imposizione europeistica, espressione dello "ius corrigendi" dell’Unione. Era un’effettiva esigenza, se ci si poneva, con obiettività, a considerare i principali fattori evolutivi della realtà storico economica italiana. Le norme, o quanto meno, le norme storicamente più rilevanti e che hanno trovato la loro massima espressione nello Statuto dei lavoratori, sono figlie di un periodo storico molto importante per l’economia italiana e per il settore giuslavoristico, di conseguenza, quale quello degli anni ’60 e ’70; Un tempo, però, che appare ormai molto lontano. L’organizzazione del lavoro che caratterizzava quel periodo storico e i relativi rapporti sindacali erano molto diversi rispetto agli attuali. D’allora, molto è cambiato, relativamente alla tecnologia, all’organizzazione del lavoro, alla occupazione e al tipo d’occupazione, al diverso grado di cultura scolastica e universitaria della media dei lavoratori. L’economia stessa e gli equilibri economici internazionali erano molto diversi da quelli attuali; la logica imprenditoriale e commerciale erano diverse da quelle attuali. Le regole, per converso, non si sono evolute con la stessa velocità. Attualmente, il mercato del lavoro si trova ad essere regolato da regole obsolete che non hanno avuto la capacità di seguire l’evoluzione, per altro molto veloce, del mercato del lavoro e, in generale, dell’economia.

Abbiamo quindi visto, seppur sommariamente, come la riforma del settore giuslavoristico che ha caratterizzato gli ultimi anni della nostra legislazione, si inserisca pienamente e compiutamente nel contesto europeo. Abbiamo anche visto che l’Italia ha adeguato la propria normativa e, nel farlo, si è ispirata in parte agli altri paesi europei che, prima di noi, avevano iniziato questo cammino di riforme o, meglio ancora, avevano da tempo utilizzato strumenti normativi meno obsoleti.

5.1. La valutazione dei primi risultati della riforma. A distanza, quindi, di qualche anno è necessario cominciare a valutare i risultati della riforma proprio in una prospettiva comunitaria. Se ci soffermiamo un attimo a verificare i dati del tasso d’occupazione, possiamo vedere che gli stessi non sono di molto modificati. Se il tasso di occupazione è leggermente aumentato, il divario dalla media europea rimane attestato attorno al dieci punti percentuali. Ma volendo tralasciare questi dati, che forse competono maggiormente a degli economisti (se non altro in quanto, per una corretta lettura, andrebbero parametrati alla particolare contingenza economica e produttiva italiana e europea e ad altri indici economici di sviluppo) se guardiamo alla concreta attuazione degli strumenti normativi e contrattuali della riforma il quadro non appare francamente maggiormente confortante. Non si può non riconoscere che l’attività normativa di dettaglio e di esecuzione (ossia decreti, circolari e note esplicative) è stata notevole, concentrata particolarmente sugli istituti della certificazione e della somministrazione e intermediazione di manodopera, ma sufficientemente attenta anche agli altri istituti della riforma, quali il lavoro intermittente e condiviso, l’apprendistato e il lavoro a tempo parziale. Malgrado questo, però, la riforma stenta ancora a decollare.

5.2. I motivi dei limitati risultati raggiunti dalla riforma. Volendo cercare di comprenderne i motivi, va evidenziato, doverosamente, che sono ancora pochi i contratti collettivi (ai quali la normativa statale spesso demanda una regolamentazione più precisa) che hanno accolto e regolamentato in dettaglio i nuovi istituti introdotti con la riforma. A questo punto, si potrebbe quindi eccepire che questa mancata applicazione sia dovuta anche ad un atteggiamento culturale, per non dire ideologico, degli organismi sindacali e rappresentativi dei lavoratori (in particolare) che storicamente sono contrari a radicali riforme. Vorrei, però, evitare di entrare in valutazioni e polemiche di tipo politico e cercare, invece, una chiave di lettura squisitamente giuridica (e possibilmente europeistica) dello scarso successo reale della riforma, in considerazione del fatto che, spesso, le prese di posizione di organi sindacali non sono assunte aprioristicamente ma si basano, comunque, su considerazioni concrete su cui il giurista è chiamato a riflettere.

5.3. La mistificazione del principio di sussidiarietà all’origine dell’insuccesso della riforma. Se guardiamo con attenzione, possiamo notare che gli istituti della riforma che hanno trovato ad oggi più attuazione sono quelli più tradizionali, legati dell’intermediazione e somministrazione di lavoro, l’apprendistato e il contratto di inserimento, e il part time. Mentre istituti più rivoluzionari e innovativi quali job sharing e job on call e la stessa certificazione sostanzialmente non sono stati applicati e, quelle poche volte che hanno trovato applicazione, spesso vengono utilizzati a in maniera impropria e tale da snaturarne le caratteristiche.

Questo non è altro che il risultato di un fraintendimento che sta alla base della riforma, ossia l’aver travisato (e, in fondo, mistificato) la reale natura e portata di un principio che è venuto a far parte in maniera decisiva e centrale dell’ordinamento giuridico comunitario e che va sotto il nome di principio di sussidiarietà, principio che ha caratterizzato i convegni e le discussioni giuridiche degli anni novanta ma che è ormai troppo spesso dimenticato o impropriamente attuato.

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