Letture sulla Giurisprudenza[1].
Diritto e giuristi, oggi
di Andrea Favaro
[46] In questo senso potrebbe essere giustificato il recente interesse che i giuristi mostrano per le nuove tecnologie. Queste, difatti, già oggi permettono di esplicare al meglio le due principali caratteristiche della a-territorializzazione e della de-centrazione, contribuendo così a destrutturare anche il concetto stesso di pubblico. La mancanza di un centro e del territorio, quale elemento costitutivo dello stato, portano a ripensare la forma di questa categoria. Sulla questione della relazione tra “pubblico” e “privato” vedasi la critica alla concezione moderna e, in quanto tale, operativamente geometrica, della stessa in F. GENTILE, Politica aut/et statistica, cit., pp. 67-83, il quale propone una impostazione dialettica della (solo) apparente netta distinzione delle due categorie “necessarie per la definizione dell’essenza del politico” (cfr., in tal senso, J. FREUND, L’essence du politique, Sirey, Paris 1965, nonché H. ARENDT, The human condition, [1958] tr. it., Bompiani, Milano 2001), partendo proprio dal “nodo centrale” della privacy (nella accezione precipua della prassi giudiziaria anglosassone del diritto “ad essere lasciato solo”) con l’osservazione effettivamente paradossale dalla «scritta “privato” che nei locali pubblici delimita la zona inaccessibile al “pubblico”».
[47] M. GENTILE, Umanesimo e tecnica, Istituto di propaganda libraria, Milano 1943, p. 175. In questa sede pare interessante solo accennare ad un confronto tra questa affermazione del Gentile e quelle poco differente di Heidegger in merito non però alla tecnica ma alla scienza, espressa peraltro negli stessi anni, per la quale «nessuna scienza può pronunciarsi sulla sua essenza» (M. HEIDEGGER, Nietzsche. Seminare 1937 und 1944, Klostermann, Frankfurt am Main 2004, p. 302).
[48] Volendo ipotizzare uno spunto d’approfondimento potremmo collegare il concetto di “ordine” (necessariamente intrinseco a quello di “ordinamento”) a quello di “regola” quale medium che “sub-stanzi” l’ordine medesimo. Recuperando l’insegnamento di S. COTTA (in Soggetto Umano – Soggetto Giuridico, Giuffrè, Milano 1997) si potrebbe, fino a quale limite vale l’asserzione non è questa la sede più appropriata per determinarlo, definire quindi la categoria di “regola” come fondamento e principio del diritto. Invero, sempre sul tema dell’ordine interessante notare come il Cotta esprima tale asserzioni per porsi in netta contrapposizione alla tesi sostenuta in B. LEONI, Diritto e politica in «RIFD», 1961, n.1, pp. 89-107 e (più in generale) in ID., Freedom and the Law, Toronto-New York-London 1961, pp. 97-113, per la quale il fondamento del diritto sarebbe la categoria della “pretesa individuale”. Il Cotta, icasticamente, domanda «su quale base poggia la pretesa perché si possa attribuirle plausibilmente l’autorità di fondamento del diritto al posto della regola?» (op. cit., p. 61). Ma è la sua risposta che qui più rileva ai nostri fini: «Invero, già di per sé il fenomeno “ordine” evoca l’idea di regola e quindi di dovere» per poi perentoriamente affermare che «la realtà empirica della vita lo conferma: l’ordine, perché ci sia e si mantenga, si ha il dovere di rispettarlo» (op. cit., pp. 61-62).
[49] Cfr. P. GROSSI, Scienza giuridica italiana, cit., p.6 dove lo storico fiorentino giustifica le sue affermazioni recuperando il magistero di P. PIOVANI, Giusnaturalismo ed etica moderna, Laterza, Roma-Bari 1961, p. 119.
[50] Cfr. L. LESSIG, Code and Other Laws of Cyberspace, Basic Books, New York 1999; vedasi inoltre L. LESSIG, Free culture: how big media uses technology and the law to lock down culture and control creatività, Penguin Press, New York 2004. Altri saggi relativi al tema possono invece essere letti sul sito personale dell’autore al seguente indirizzo http://www.lessig.org/.
[51] L’esempio eclatante è il meccanismo (imposto dal diritto positivo stesso) di accesso alla Corte Costituzionale. A ben vedere, difatti, questa procedura è configurato in maniera tale da (sup)porre in capo ai consociati un "diritto di resistenza": violare una norma ritenuta incostituzionale è l’unico modo che il privato cittadino ha per adire la Corte con il risultato (solo eventuale) che ciò che precedentemente era antigiuridico diviene ora norma giuridica. In un tale meccanismo istituzionale, per cui nessuna norma può dirsi eterna, siamo spesso abituati a vedere un progresso della nostra civiltà giuridica. La regolamentazione con la strumentalizzazione della tecnica da mezzo a fine, invece, rimuove ab ovo questa possibilità.
[52] Cfr. F. GENTILE, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, cit., p. 37 (corsivo nostro).
[53] In merito risulta illuminante la declinazione della “norma positiva” che nella sua essenza di «fissità interlocutoria, esercita la funzione di modello per l’azione umana, nel senso che l’uomo trova nella legge – o meglio nella rete delle leggi in cui sono raccolti i tratti qualificanti di una relazione – le indicazioni utili per il disporsi concretamente ad una relazione nuova con gli altri» (cfr. F. GENTILE, Filosofia del diritto, cit., p. 218; per un approfondimento circa il parallelo tra “legge” e “concetto” vedansi pp. 216-223).
[54] Cfr. F. GENTILE, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, cit., p. 38 (corsivo nostro). A questi problemi si riferiva Hobbes per sostenere una tesi del tutto opposta a quella della regolarità come condizione naturale del soggetto. Per il padre della geometria legale, infatti, giustificando il fatto che il sovrano non è soggetto mai alle leggi civili che egli emana, «non è possibile che una persona si obblighi verso se stessa, poiché chi può legare può anche sciogliere e dunque chi è obbligato soltanto verso di sé non è obbligato affatto» (T. HOBBES, Leviathan, (1651) [tr. it. a cura di A.Pacchi] Laterza, Roma-Bari 2000, parte II, cap. XXVI, p. 220). E non vi è dubbio che sia così, se si parte dal preconcetto o ipotesi che condizione del rispetto delle regole sia un atto di volontà. Non a caso Hobbes sta parlando qui del sovrano, ovvero dell’uomo la cui legge (dello Stato) è la sua volontà. Invero pure a PLATONE l’espressione “essere padrone di sé” pareva insoddisfacente, «infatti chi è più forte di sé stesso sarà certo anche “più debole di se stesso” e viceversa. Giacché in tutte queste frasi il soggetto è sempre lo stesso» (Cfr. PLATONE, La Repubblica, IV, 430e, [a cura di F. Adorno], Rizzoli, Milano 1995, vol. I, p. 137). Occorre allora superare la concezione dell’autonomia come esercizio di volontà e riconoscere che «il vero senso di questa espressione è che nella stessa anima di ciascun uomo vi sono due aspetti, uno migliore, uno peggiore. E quando la parte per natura migliore ha il governo della peggiore, ecco l’espressione “essere padrone di sé”, e suona lode. Quando, invece, per colpa di una cattiva educazione o di non buona compagnia la parte migliore, ma più debole, è vinta dalla peggiore, più forte, allora chi si trova in questa situazione è detto “schiavo di se stesso” e “intemperante”, e suona biasimo e rimprovero» (Cfr. PLATONE, La Repubblica, IV, 431a, cit., pp. 137-138). Per una lettura contemporanea, ma di impianto classico, del termine autonomia cfr. R. GUARDINI, Die Bekerung des Aurelius Augustinus (IV ed. 1989), tr. it. a cura di V. Faleschini, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 137-138, ove si legge: «C’è l’innato atteggiamento dell’autonomia. Questa presuppone una determinata esperienza di sé, quella cioè, nella quale l’uomo si sente indipendente, padrone del proprio essere, sicuro del suo rapporto con le cose e con i valori. Se quest’atteggiamento è genuino, esso forma una disposizione originaria, che può volgersi tanto ad una vita cristiana quanto ad una vita non cristiana, ed in ciò soltanto riceve la sua ultima definizione. Ma le sta di fronte un’altra possibilità che noi, per evitare il carattere dispregiativo che la parola ha assunto, vogliamo chiamare non eteronoma, bensì allonoma. Essa sta, in rapporto a quella sopra descritta, non come servitù a libertà, ma come un altruismo naturale rispetto ad un contrapposto egoismo – ambedue le parole vanno intese nel significato puramente psicologico; come definizioni di modi di comportarsi, di cui l’uno ha il suo immediato punto centrale e determinante in se stesso, l’altro lo ha nell’altro. Allonoma è quindi quella disposizione, che involontariamente si riferisce all’altro; essa fa sì che l’uomo si senta conforme alla sua natura come membro di un tutto, come espressione ed organo di una potenza, come parte di una storia universale. Anch’essa può ispirare sia una vita cristiana che una vita non cristiana, trovando in ciò la sua ultima definizione» (testo ripreso in parte da Citazioni, in «Ircocervo. Rivista italiana di metodologia giuridica, teoria generale del diritto e dottrina dello stato», 2/2006).
[55] F. GENTILE, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, cit., p. 65.
[56] Il “giudizio” che altro non è che la struttura e il fine del “processo”, a buona ragione qualificato come lo «schema dell’ordinamento giuridico» (F. GENTILE, Filosofia del diritto, cit., p. 223 ove il filosofo patavino prosegue la disamina palesando la matrice alla quale richiama anche il suo magistero: «Su questo punto noi ci sentiamo fortemente parte di quel filone di pensiero, che ha formalizzato la centralità del processo, che è stato, nel secolo scorso, anche qui a Padova su questa cattedra, quello di Giuseppe Capograssi, del suo allievo Enrico Opocher e poi di chi vi parla [Francesco Gentile]»).
[57] In effetti, è di per sé parziale perché non esplica la domanda di fondo, perché nemmeno se la pone: perché la cd. “crisi del diritto”? In effetti la elaborazione, come la creazione, del diritto è operata da legislatori (e giuristi), “in virtù”, parrebbe, dell’ordinata convivenza degli uomini, viene tracciata come opera della ragione, ma soprattutto perché la sua essenza intrinseca pare risiedere nella radice intellettuale dell’uomo e nella sua capacità di ridurre, parafrasando Hegel, il reale a razionale allo scopo di fornire concrete risposte ai problemi dell’esperienza (comune). Ed ecco utile torna la concezione (classica) di dialettica, per la quale «l’intelligenza è propriamente la sola attività ad avere il fine in se stessa (…) e la relazione dell’intelligenza con se stessa non può assumere la forma della dimostrazione razionale, cioè del sapere ipotetico-deduttivo» (cfr. M. GENTILE, Breve trattato di filosofia, Padova 1974, p. 124).