Letture sulla Giurisprudenza[1].
Diritto e giuristi, oggi
di Andrea Favaro
D’altronde, a ben vedere, quanto abbiamo cercato di esporre in merito alla necessaria riflessione della tecnica nel campo della scienza giuridica compendia il perennemente arduo equilibrio tra anomia ed eteronomia, dove si riassumono e nel contempo sfumano tutti i contrasti epocali in cui si dibatte l’esperienza giuridica. In tutte queste dispute, difatti, l’opzione per l’autonomia è sicuramente la strada maestra per il recupero del senso originario e non contingente del diritto, l’intelligenza della giusta misura, «l’intelligenza di ciò che conviene, che è opportuno, che è necessario alla convivenza umana»[55]: in una parola, (ancora) il giudizio[56].
Difatti, siamo pronti ad affermare che solo partendo da questa specifica impostazione antropologica, si riesca a comprendere perché il diritto debba essere considerato una “autentica” esperienza umana, e dunque – per tornare all’antitesi dalla quale sono scaturite queste riflessioni – una dimensione costitutiva di essa; il diritto, in altri termini, e dati questi presupposti, non può che essere ritenuto una realtà originaria e insostituibile nell’esistenza, qualcosa non solo di necessario empiricamente, ma di logicamente non surrogabile con le altre forme della normatività (la morale, la religione, l’economia, la politica…) né semplicemente derivato da esse. L’affermazione del primato della costitutiva relazionalità soggettiva determina invero una visione del diritto come regola oggettiva, necessaria, originaria. Oggettiva, perché riconosciuta come sussistente indipendentemente dal volere del singolo, che appunto subordina la propria volontà normativa al riconoscimento ermeneutico di un senso intrinseco nella realtà; necessaria, perché tesa a garantire la coesistenza dalle spinte disgreganti e conflittuali naturalmente presenti in essa, e radicate nella libertà che orienta la prassi del singolo; originaria, perché tale libertà ha bisogno di una struttura all’interno della quale sia garantita la sua stessa condizione di possibilità, uniformando l’esistenza individuale alla struttura coesistenziale nella quale è costitutivamente calata.
4. Conclusione.
Difatti, sullo sfondo della disamina circa lo stato dell’arte di diritto, scienza, tecnica e libertà, permane dunque il dubbio che, malgrado la splendida fioritura delle scienze moderne, l’epistemologia stessa non venga a provarci che qualche cosa nella realtà resiste alla sua penetrazione in un continuum fallibilista senza termine dove né i giuristi, né i filosofi sono in grado i proporre vere soluzioni. Da una parte, la ragione giuridica, che appare unilaterale e unidimensionale perché si sofferma (solo) su un fenomeno semplificato ad arte (la norma positiva) per scopi operativi: essa è ipoteticamente parziale ed insufficiente a cogliere e spiegare la complessità del fenomeno giuridico[57]. Dall’altra i filosofi che oggi tentano di riflettere sulla dimensione esistenziale dell’uomo nel mondo, al più sussumendo il metodo settoriale-operativo proprio della scienza, ma non percependone, spesso pregiudizialmente, la dimensione di specifica certezza. Ecco, in conclusione, la provocazione: un rinnovato “sapere” sintetico tra due poli. Da un lato l’istanza filosofica, scandalosamente avvertita come inerme dinanzi alla complessità contemporanea; dall’altro un pregiudizio scientifico, insuperabile nella sua essenza di non-verità[58].
Sul versante della scienza del diritto tale situazione di triste incomunicabilità l’avevano già denunciata Cammarata, Capograssi, Caiani, e pure il Grossi, di recente, fornisce la prova provata dell’ennesimo fallimento: «Legalismo e formalismo continueranno ad essere l’orgoglio ottuso d’una scienza giuridica, suo vizio e sua virtù: certamente virtù perché gli consente di disegnare armoniche geometrie e – perché no? – anche preziose categorie ordinanti; ma certamente anche suo vizio giacché continua la debolezza di costruire una dogmatica assumendo a fondamento – in un inguaribile attaccamento positivistico – la base tenue della legge positiva, tenue soprattutto quando al provveduto codificatore del ’31 e del ’42 si sostituisce (quasi sempre) l’incolto e grossolano legislatore del dopoguerra italiano». Terribile poi il giudizio dello storico per il lavoro dello studioso del diritto «Per la dottrina l’operazione è similare a chi pretendesse di edificare una cattedrale su delle semplici palafitte»[59].
Sul versante della filosofia del diritto, coricata nel letto del presente permane in tutta la sua validità la definizione del Caiani che la intende non come «astratta enunciazione da parte dei giuristi delle loro eventuali astratte opinioni filosofiche o morali o politiche (…), ma appunto quale operante consapevolezza dei problemi che emergono direttamente dalla loro esperienza»[60].
Quindi, possiamo affermare che la quaestio riposa tutta sulla disamina dell’oggetto.
Difatti, in fin dei conti, è ipotizzabile un discorso circa la scientificità di una disciplina solo se si verifica il presupposto se (essa) abbia almeno gli strumenti per carpire quale sia l’obiectum della sua analisi. Se oggetto della scienza giuridica, difatti, è la legge positiva, ecco che il lavoro del giurista è facilitato e potrebbe pure dirsi “scientifico”, perché si limiterebbe (invano) ad innalzare elucubrazioni circa l’analisi del linguaggio volta per volta adoperato dal legislatore di turno. Il resto non conta. Se, invece, si ammette che l’oggetto della giurisprudenza non è la “legge positiva” ma l’essere umano, allora si aprono questioni epistemologiche ben più ampie, perché l’oggetto di studio non è immediatamente “oggettivabile” epperò rimane costantemente “verificabile” sperimentalmente nella quotidiana esperienza. In tale prospettiva, una scienza giuridica diremmo “ortodossa” non riuscirebbe a sostenere da sé tutta la costruzione artificiale di un ordinamento giuridico progettato dal leviathan di turno, nel momento in cui è resa consapevole della natura stessa del suo oggetto. Res obiecta che, a ben vedere, non è l’uomo inteso come “unico”, chè altrimenti non avrebbe nemmeno senso di esistere il diritto[61], quanto invece la relazione intersoggettiva tra gli uomini.
Consapevolezza dell’oggetto, che crediamo davvero capace anche oggi di alleviare le sofferenze del giurista, sempre più conscio della distanza tra la realtà dell’esperienza ed i modelli astratti che troppo spesso è chiamato a studiare, applicare se non addirittura creare ex nihilo.
Tornando al quesito esposto nella “Premessa”, si tratta quindi di verificare se e perché il sapere giuridico sia in crisi[62]. Si è oramai inteso, grazie soprattutto ai contributi di Caiani, Grossi e Casa, che la scienza del diritto abbia attraversato una fase di transizione non facile per tutto il novecento; ma quel che più rileva è notare che il momento attuale non mostra ancora una soluzione di questa crisi, ma ne svela quantomeno gli orizzonti risolutivi. Spazi ancora da esplorare, dove l’epistemologia deve ri-cominciare, dopo una parentesi d’oblio, a mettere in gioco profili assiologici, magari seguendo la profetica asserzione del Caiani il quale, candidamente, affermava che quella, come questa attuale, «non tanto è crisi della scienza giuridica in sé, intesa astrattamente, quanto piuttosto è crisi di quella esperienza, ovvero di quel sistema di valori di cui era appunto espressione quel particolare modo di concepire la funzione e la posizione del giurista». Circolo (non vizioso) tra funzione e posizione che svela intrinseco il connubio tra sapere e conoscere[63] che può oggi essere in grado di andare oltre lo studio del mero disposto normativo, percependo l’importanza che rivestono per il diritto anche le altre discipline che abbiano tutte a che vedere con l’universo “umano” (economia, politica, lingua, etc.) nonché quelle che all’umano comunque tecnicamente servono (matematica, fisica, chimica, ingegneria, architettura)[64]. Non ci meraviglieremmo di certo se poi la filosofia, intesa come “amore per il sapere”, fosse chiamata in prima linea nell’affrontare questa sfida dove il conoscere non è limitato dalla aproblematicità di una scienza isolata, ma si nutre dell’intersecarsi continuamente necessario di più competenze scientifiche, al fine di rendere maggiormente agevole, perché più autentico, il ruolo del giurista. Maggiormente agevole perchè il giurista sarà facilitato a rispondere all’essenziale problema «della rappresentazione e (…) del rapporto tra essa e ciò di cui è rappresentazione, che (…) non potrà dirsi propria di un giurista (…) se non possederà anche la capacità d’intendere “realmente” l’esperienza che è chiamato quotidianamente a comprendere e regolare»[65].
“Comprendere” prima di “regolare”, dunque. Procedura questa, che per il giusperito significa non porre la “regola”, ma invenirla all’interno dell’esperienza. Procedimento questo che potremmo anche qualificare come non oggettivo perché in senso realista si è voluto operare lo sforzo di conoscere questa (l’esperienza contingente), prima di applicare quella (la regola che dalla stessa esperienza procede); ma, forse, in tale maniera alla ancora attuale domanda-risposta dell’Esposito, («se una singola legge (ingiusta) non si lascia interamente assorbire nel sistema stesso? La risposta non può che essere questa: al giurista come tale non rimane che accettare la norma ingiusta e accettarla come diritto»[66]), potremmo da giuristi “veram philosophiam affectantes” denunciare come irrazionale il “diritto ingiusto” e scoprire tra le pieghe della realtà l’applicazione concreta della regola aurea del suum cuique tribuere, a prescindere perfino dal deterministico bisogno di un “sistema” astratto di riferimento, perché, da uomini, il giusto (per natura) è più razionale invenirlo che porlo.
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[1] La presente disamina è debitrice dello spunto d’avvio fornito dall’analisi comparata delle seguenti opere:
· L. CAIANI, La filosofia dei giuristi italiani, Cedam, Padova 1955;
· P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, Milano 2000;
· F. CASA, Sulla giurisprudenza come scienza. I: Un dibattito attraverso l’esperienza giuridica italiana nella prima metà del ventesimo secolo, Cedam, Padova 2005.
[2] Per un utile argomentazione, anche per l’universo giuridico, sul concetto di “classico” rimandiamo a T.S. ELIOT, Che cos’è un classico [1945], in ID., Opere, vol. II, Bompiani, Milano 2003, pp. 473-495, ove si legge anche «Un classico non appare se non quando una civiltà, una lingua e una letteratura sono mature» (Op. cit., p. 475 – corsivo nostro) e a F. GENTILE, Pensiero ed esperienza politica, Ce.Gra.M., Cercola (Na) 1981.
[3] L.CAIANI, La filosofia dei giuristi italiani, cit., p. 201.