Letture sulla Giurisprudenza[1].
Diritto e giuristi, oggi
di Andrea Favaro
Di qui possiamo osservare l’antinomia che travaglia la civiltà e la cultura contemporanea; le quali, da un lato, infatti, paiono voler realizzare un nuovo umanesimo, incentivando la “costruzione” di un nuovo tipo umano impegnato in un’intesa e spregiudicata esplorazione del reale e alieno dalle fughe e dalle acquiescenze dell’antico formalismo. E dall’altro, tendono a cadere in quello strumentalismo, come accoglimento incondizionato di tutte le determinazioni della prassi in quanto tale, senza riflettere sulle conseguenze che esse comportano per la condizione globale dell’uomo, per la sua spiritualità, e non solo per le strutture e le forme materiali dell’esistenza. In sunto, la scienza (e la tecnica, come si vedrà infra) ha perduto il senso della nuova problematicità di cui era foriera ed ha elevato una pretesa di compiutezza configurandosi come scientismo e tecnicismo, che è come asserire che la scienza, nel senso alto del termine, si sia ridotta a tecnica.
Così al giurista, perduta oramai quella scientifica, nel suo essere interprete e classificatore, non rimane che ritornare all’essenza problematica della filosofia, se non vuole conchiudere la propria attività nella torre eburnea delle mere forme e adeguare il concetto di “regola” a quello di norma positiva.
Ritornando ai classici, «un conto è la facoltà del parlare e un altro le cose dette; un conto è la vista e un altro le realtà viste; un conto l’udito e un altro quel che si ode e, infine, una cosa è la legge e un’altra le norme stabilite (…) dunque la legge non coincide con le norme sancite per legge»[37]; il diritto tout court, quindi, non è quello positivo, anzi, spetta allo scienziato del diritto, munito di incedere filosoficamente problematico, determinare il suum cuique tribuere, ossia ciò che il singolo in comunità desidera dalla scienza del diritto, senza per questo cedere alle derive anarchiche di cui si è già detto, perché consapevoli che la regola (sia essa legge, consuetudine, uso, etc.) non deve essere “posta”, poiché già sussiste e quindi deve essere al più cercata e poi trovata. Ma su questo punto pare opportuno tornare nel paragrafo conclusivo.
3. Giurisprudenza e giuristi: dalla scienza alla tecnica, e la libertà?
In effetti, il desiderio di diritto che l’uomo della strada possiede è oggi fortemente condizionato dall’idea (se non addirittura dall’ideologia) che esso costituisca un fenomeno essenzialmente razionale[38]. Nel contempo è ancora l’uomo della strada a sperimentare in presa diretta che l’esperienza giuridica (che talvolta non vive, ma subisce) tutto è, fuorché votata alla razionalità (decisioni controverse, disposti normativi “l’un contro l’altro armati”, etc.).
Sotto tale cono d’ombra la ratio juris si mostra come lubrificante dell’ordinamento giuridico, in virtù del quale il diritto si presenta come enigma quotidiano apparentemente risolvibile con il solo utilizzo della tecnica[39]. Difatti, se il dibattito tuttora in corso tra filosofi e scienziati del diritto verte sul ruolo che il giurista stesso, più che il diritto, in una sorta di accentuazione della fenomenologia soggettivistica, debba/possa rivestire nella società odierna[40], simile questione ha un eterno ritorno sempre e comunque anche all’interno stesso del mondo del diritto.
L’oggetto dell’analisi non potrà non principiare da una breve disamina sul rapporto scienza-filosofia. Difatti, sullo sfondo, oggi come allora, rimane il dubbio che, malgrado la splendida fioritura delle scienze moderne, la scienza in sè non sia in grado di provare che qualche cosa nella realtà resiste alla sua penetrazione in un continuum fallibilista senza arresto[41]. La ragione giuridica, così intesa, è unilaterale e unidimensionale perché si sofferma (solo) su un fenomeno semplificato ad arte per scopi pratici: essa è parziale ed insufficiente a cogliere e spiegare la complessità del fenomeno giuridico[42]. Difatti, l’impressione di fondo, difficile a celarsi, è che sia prevalente tuttora una concezione intellettualistica e razionalistica del diritto e che, quindi, si debba declinare l’accezione irrazionale come eccezione al cospetto della “norma” (non a caso il termine potrebbe già fornire una cifra indicativa dell’analisi) opposta.
La difficoltà odierna manifestata di recente anche dal Casa è quella di non riuscire a comprendere pienamente che in sé «la scienza non può e non deve pronunciarsi, perché non ha nessun diritto, non possiede e non può possedere nessun criterio valido per approvare o riprovare una presa di posizione; non deve dire niente, in quanto non ha niente da dire, perché la scelta precede, non segue, la fatica scientifica»[43]. La scienza “non può”, afferma Casa, ma spesso “vuole”, verrebbe da replicare e per questo rivela la crisi della riflessione scientifica stessa «che riprende piena coscienza del letto di Procuste in cui si trova collocata, da cui vuole uscire ma da cui non è facile uscire» e così ogni giurista che abbia il minimo desiderio di interrogarsi sul proprio facere, «ripete a se stesso il dubbio demolitivo di von Kirchmann sulla non scientificità della iurisprudentia»[44].
Non è facile uscirne perché, come Grossi descrive con la prosa efficacemente colorita che lo distingue, «il sapere giuridico è avvertito come sapere dalla grande capacità ordinante a condizione che riesca a depurarsi di scorie contingenti e particolari e a sovrastare la incandescenza e mobilità della realtà fattuale con i proprii schemi categoriali astratti»[45].
“Sapere ordinante” e “scorie contingenti” si ergono quindi come i due fuochi di un confronto inevitabile, anzi necessitato dall’esperienza stessa dove la “tecnica”, più ancora che lo scientismo, pervade le strutture concettuali stesse del diritto e sembra dotarle delle stesse caratteristiche[46] che sono (ormai) proprie del tecnicismo. Invero, premessa fondamentale ad ogni discorso sulla “tecnica” (anche nel diritto) deve però rimanere ancora il lucido monito di Marino Gentile: «la tecnica non indica, né vuole, né può indicare un vero fine: tutto ciò che essa porta, non può essere scopo che a se stesso, ma soltanto grado e mezzo per raggiungere qualcos’altro (…) e la tecnica non può determinare in che cosa quest’altro consista»[47].
In definitiva i giuristi, ancora una volta, sono chiamati ad avere una solerte attenzione che guardi non tanto ai singoli espedienti “tecnici” che influiscono sul diritto (dai dossi per regolare la velocità del traffico urbano agli strumenti che limitano l’accesso ad alcuni siti internet ritenuti non leciti), quanto ai soggetti che sono chiamati a determinare i parametri stessi dell’utilizzo della tecnica in ambito giuridico (dal legislatore all’amministratore locale, per finire al semplice tecnico della rete Web); perché, come già affermato anche dal Grossi, qui in gioco c’è la “libertà” dell’essere umano, con la quale il diritto gioca un ruolo determinante.
Ci si può però domandare se la regolamentazione della libertà attraverso la strumentalizzazione della tecnica possa definirsi (comunque) di natura sostanzialmente giuridica. Volendo finanche distinguere tra “norma” e “regola”, constatando la doverosità della prima contro la necessità della seconda, la violazione della norma implica una sanzione il cui conseguire non è regolato da una necessità fisica, ma solo dal dovere di ripristinare un ordine giuridico sedicente violato[48]. La regola, invece, impone la sua sanzione per via dell’inesorabile procedere della legge naturale: se non apro l’ombrello sotto la pioggia (regola) mi bagnerò (sanzione).
Passando alla giurisprudenza tout court, il Grossi sovviene in ausilio, chiarendo all’interno delle “Premesse definitorie e fondative” la prospettiva in cui è avviluppata la scienza giuridica moderna: la «regola giuridica può identificarsi tranquillamente (…) con la sua voce, l’unica in grado di dar voce alla volontà generale»[49]. Ecco che nel negare tecnicamente a priori e a prescindere dalla libertà, diremmo pure dall’autonomia del soggetto, l’accesso a certi dati, ovvero il diniego “fisico” di viaggiare ad una certa velocità (con l’inserimento, ad esempio, di dossi sul manto stradale), la tecnica muta in “regola” ciò che dovrebbe essere propriamente “norma”.
Non ingiustificatamente Lessig[50] definisce “tirannia” tale forma di regolamentazione. Le norme giuridiche devono essere violabili, innanzi tutto perché, talvolta, la loro stessa violazione assume un significato istituzionale disciplinato perfino dall’ordinamento[51].
Il panorama che descriviamo non è rassicurante. Il nostro, però, non vuole essere un sostegno alla tesi diffusa per la quale la tecnica come forma di regolamentazione deve essere giudicata sempre e comunque riprovevole. L’obiettivo che ci prefiggiamo, invece, è evidenziare come essa non rappresenti una modalità puramente “neutra” di imposizione del comando giuridico. Essa ne stravolge la natura e ne modifica la qualità.
Dalla disamina fin qui approntata potrebbe allora trarsi la gelida deduzione, tanto esaltante quanto inquietante, che la tecnica (nel/del diritto), costituisca una sorta di zona franca per l’autonomia del soggetto “uomo”. Difatti, ciascuno non viene più considerato come persona nel momento in cui qualcun altro, rectius qualcos’altro, decide al posto suo e lo lede nel suo essere “autonomo”, pienamente consci che «nell’espressione autonomia, classicamente, è implicito il concetto di regolarità, quale disposizione del soggetto a seguire una regola»[52]. “Disposizione”, non imposizione.
Disposizione non convenzionale, inoltre, ma reale, come risulta incontrovertibilmente dalla struttura della relazione intersoggettiva, la quale è sempre determinata da regole convenzionalmente poste[53], ma in tanto si stabilisce in quanto i soggetti che ne sono parte attiva siano disposti a seguirle realmente e non convenzionalmente; «ma nell’espressione autonomia vi è qualcosa di più. Vi è l’indicazione dell’attitudine del soggetto all’autoregolamentazione»[54].