Letture sulla Giurisprudenza[1].
Diritto e giuristi, oggi
di Andrea Favaro

Insomma, l’esistenza umana e il diritto avrebbero poco a che fare l’uno con l’altra, o al limite entrano in relazione unicamente in ragione di una necessità concreta: la gestione di una società complessa, il mantenimento del potere e del controllo da parte di un soggetto (o di un gruppo) sugli altri, l’accrescimento della potenza esterna, l’efficiente ripartizione delle risorse, e così via; ed è evidente che, mutando il fine, cambierà non soltanto il mezzo, ovvero le concrete modalità attraverso le quali il diritto cercherà di garantirlo, ma anche il valore e il grado di accettabilità di tale in autentica, ma operativa, normatività. Ciò che non muta, in tutte queste pur varie ipotesi, è che l’esistenza umana non ha, di per sé, niente a che fare col diritto, che cioè essa potrebbe essere in sé stessa pensabile senza di esso. Se pertanto si ricorre al diritto, lo si fa solo se costretti. Ecco per quale motivo si può finanche ritenere giustificato il ricorso alla virtualità ed al formalismo. Visto che il diritto non è essenziale, come tutti gli accidenti, la sua esistenza deve essere giustificata in qualche modo: o mostrandone l’utilità pratica, o politica, o economica, o cercando un qualche valore “superiore” (la pace sociale, la protezione della proprietà e della libertà individuali, etc…) che ne “tuteli” le concrete, e storicamente poste, modalità di manifestazione.

La logica dell’antigiuridismo contemporaneo[15], paradossalmente, muovendo da un originario rifiuto della normatività, intesa come denegato riconoscimento delle strutture normative intrinseche alle relazioni umane, non porta però solamente ad un’assolutizzazione della soggettività anarchica, all’individualismo[16] e alla conseguente rivendicazione del relativismo assiologico; la perdita di importanza della normatività “interna”, infatti, determina una situazione in cui il diritto risulta accettabile dai destinatari solo in quanto corrispondente al “loro” desiderio, alla “loro” prospettiva assiologica, alla “loro” utilità personale, solo in quanto cioè i contenuti normativi possono essere avvalorati dall’orientamento specifico di chi li assume come regola della propria azione. Invero ciò, come è stato già notato e studiato, ha portato all’esaltazione contemporanea di una certa concezione del diritto come pretesa[17], ovvero dell’idea che il diritto, a causa della sua inautenticità esistenziale, non debba fare altro che offrire riconoscimento e tutela alla spontanea e immediata manifestazione della libertà e delle pretese del soggetto; con il che, tuttavia, si è prodotto un continuo ‘inseguimento’ delle pretese soggettive da parte dell’ordinamento, che ha dato vita a quel fenomeno di giuridificazione[18] in cui l’intervento del legislatore è invocato sempre di più per disciplinare un insieme di esperienze umane non standardizzabili (anzi: significative proprio in quanto non tipizzabili), trasformando in giuridicamente tipico ciò che invece non può che essere personalmente autonomo e, di conseguenza, volontariamente singulare. In altre parole, a fronte di una progressiva riduzione della normatività “interna”, e dunque della rivendicazione di una sempre maggiore anomia della vita privata e personale, si espande a dismisura la normatività “esterna”, penetrando in ambiti che non possono che essere considerati giuridicamente irrilevanti. Da tale impostazione, si ritiene, emerge la confusione circa la scientificità del diritto presente nel secolo scorso, ma non solo. Difatti, come potrebbe uno scienziato essere a suo agio in una situazione in cui il proprio oggetto di studio non ha altra alternativa che essere cangiante ogni qual volta il desiderio dell’individuo “vuole” e, soprattutto, ottiene riconoscimento (formale) del “suo” stesso desiderio.

Questa impostazione, secondo la quale, come detto, il diritto non sarebbe in alcun modo una dimensione autentica, diremmo naturale[19], dell’esperienza umana, sottende una precisa antropologia, la quale non a caso emerge in modo affatto evidente nel dibattito odierno sul sapere scientifico; è un’antropologia, insomma, che delinea una dimensione contemporaneamente inautentica e categoriale dell’esperienza giuridica, e che costituisce il presupposto sufficiente e necessario perché il diritto possa intendersi solo come norma positiva e la scienza del diritto, per tutto quanto suesposto, mostrarsi perennemente in crisi.

Crisi talvolta mal spiegata, troppo spesso generalizzata perché, come appena accennato, rimane vero il ragionamento per il quale analizzando i molteplici nodi di doglianza rivolti alla scienza giuridica contemporanea, «si rileva facilmente che non è – né può essere – in crisi il diritto quale dimensione òntica d’una società ma piuttosto l’artificioso tentativo di semplificazione e costrizione a cui il diritto era stato sottoposto negli ordinamenti moderni a regime rigidamente codificato»[20]. Solo così si può essere accorti che per poter parlare di scienza in campo giuridico senza precipitare nella ideologia è necessario verificarne il presupposto di validità (ma soprattutto di esistenza) all’interno dell’esperienza umana.

«L’idea di tentare una concezione del mondo su base scientifica è di solito ricusata da costoro[21] col pretesto che la concezione scientifica del mondo avrebbe già fatto fallimento»[22]. Con tale sentenza inappellabile uno dei massimi fisici del novecento, il premio nobel Max Planck, parrebbe attaccare, da prode difensore del sapere convenzionale, ogni accusa di fallimento alla scienza. Il fisico prosegue, però, affermando verità che farebbero tremare le vene e i polsi al più intrepido ed ultimo fautore dello scientismo, proprio perché espresse da uno dei massimi scienziati della contemporaneità: «c’è qualcosa di vero in questa affermazione: essa è anzi (…) giusta se si dà alla parola scienza, come spesso successo e succede tuttora, un significato puramente razionale. Ma chi così fa dimostra soltanto di essere interiormente lontano dalla vera scienza. (…) non c’è principio che abbia recato maggior danno, per l’equivoco a cui si presta, che quello dell’assenza di premesse nella scienza»[23].

“Assenze di premesse nella scienza”[24]. Appunto.

Equivoco sempiterno che tante volte viene denunciato e del quale ugualmente, a scadenze precise, viene rinnovato il dolce oblio. Oblio che malauguratamente cela una forma di ignoranza, finanche subdola, quella per la quale si ritiene, falsamente, di poter conoscere il “tutto”, quando non si conosce nemmeno la “parte”. Ed allora si giunge perfino a denunciare quale “irrazionale” tutto ciò che non è formale, rectius formalizzato dalla nostra (limitata) ragione[25]. Quando, invece, sarebbe del tutto preferibile partire dalla consapevolezza (umanamente necessaria) che «quanto appare snodo irrazionale del tutto, risvolto ingiusto e malvagio, sembra piuttosto denotare la nostra incapacità o ignoranza nel decifrare un disegno complessivo che ci sfugge[26]. Proprio perché, per dirla con Platone, «colui che cura il tutto a tutto disposto della salvezza e le virtù dell’insieme di tutte le cose, egli ha altresì suddiviso l’insieme in parti affidate alle “divinità reggitrici che presiedono fino alla più piccola azione o passione, sempre, e ne realizzano fino all’estrema suddivisione la completezza del fine”»[27].

Da quanto esposto anche nella disamina del Casa[28] è immediato asserire che ci allietano e ci istruiscono ben poco quelle scienze il cui oggetto è presto esaurito e non offre nulla alla nostra ammirazione; non così invece quelle nelle quali ogni sguardo lascia intravedere nuove meraviglie e ogni aspetto del loro oggetto nasconde maggiori bellezze.

In tal senso allora potremmo concordare nel qualificare la scienza del diritto, in particolar modo al momento attuale, come una scienza sistematica[29], dove per tale si intende una teoria del diritto, un sistema che permetta al giurista di ricondurre ad unità il complesso panorama normativo con lo sguardo sempre vigile sulla non dominabile esperienza umana. Rendendo ragione così alla verità di fatto che in questa nostra società, dove a venir meno è addirittura parte del materiale d’indagine della scienza giuridica, ovverosia il diritto[30], la funzione della giurisprudenza deve consistere nel rappresentare un sapere rigoroso che incarni il desiderio di conoscere la realtà (dei fatti).

Quanto affermiamo, peraltro, non è che un modesto recupero del magistero platonico. Nel dialogo che Platone dedica alle questioni inerenti alla scienza del diritto e della politica, infatti, egli applica alla teoria della legislazione la sua dottrina dell’etica e della politica come sapienza e scienza regia. La principale deduzione che se ne può trarre, se non erriamo, è un ruolo subordinato delle leggi, per loro natura generiche ed approssimative, rispetto alle direttive che possono scaturire dall’applicazione della rigorosa scienza pratica alla singola circostanza da parte di un saggio reggitore. Per essere coerenti, afferma Platone, anche se «in un certo modo è chiaro che la legislazione è parte dell’arte regia, (…) la cosa migliore è che abbiano forza non le leggi, ma l’uomo regale dotato di saggezza (…), la legge non potrebbe mai ordinare con esattezza la cosa migliore, comprendendo in sé ciò che è buono e più giusto per tutti»[31]. Lo stesso Platone, acuto osservatore della realtà quotidiana, si trova però a qualificare la sua teoria con l’esperienza umana, ammettendo la relativa utilità di regole legislative di massima, regole pratiche che valgono solo nella maggior parte dei casi. È indubbio che «se, per una sorte divina, un uomo generato con una natura adeguata fosse capace di comprendere» la prevalenza dell’interesse comune su quello individuale, «egli non avrebbe bisogno di leggi che lo governino. Nessuna legge e nessun ordinamento, infatti, è più forte della scienza»[32]. Invero la situazione degli uomini è molto lontana da questa ipotesi di divina onniscienza etica, e non resta che accontentarsi di leggi imperfette con l’imperativo, diremmo categorico, di rimanere vigili acciocché tale misera soddisfazione contingente non valga come trascendente e la libertà dell’umano agire rischia in tal modo di essere troppo compressa, se non addirittura irrimediabilmente compromessa[33].

Per poter individuare una soluzione, anche epistemologica, è necessario svelare il nesso con il quale la scienza giuridica possa individuare il passaggio tra la legge positiva e il «diritto vivente che viene dai fatti»[34]. In virtù di tale scopo, asseriamo che la garanzia della validità delle singole proposizioni scientifiche consiste nella effettiva capacità di comprendere l’esperienza che esse stesse pretendono garantire. Quello scientifico deve, quindi, essere inteso sempre e comunque come un “saper operare”[35]. Non potrebbe essere inteso in nessun altro modo se riuscissimo a rimaner saldi nella verità che si è costituito fondandosi sul monito di “non tentar l’essenze” di galileiana memoria, ma tuttora si prefigge lo scopo, operativo per l’appunto, di dominare[36] le cose.

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