‘Platone o il legislatore persuasivo’
di Giacomo Gavazzi

33 Il passaggio dal preludio al testo della legge è spesso sottolineato da Platone con frasi di questo tipo “a chi reverente si inchina e in conseguenza del preludio ..” (Leg., 870 e), “chi si inchinerà a queste esortazioni ..” (Leg., 880 a). Vanno poi ricordati i passi in cui si afferma che fare delle leggi (nel senso evidentemente di minacciare sanzioni) è “in un certo qual modo umiliante” (Leg., 853 b) perché “non dovremmo aspettarci .. che un cittadino rettamente educato si ammali di simile malattia” (cioè commetta ingiustizia) (853 d). Ma il passo fondamentale a mio parere è quello relativo alla persuasione da esercitare nei confronti degli atei e degli eretici (Leg., 890 b-d). Che cosa dovrà fare il legislatore, chiede l’Ateniese, “Ergersi in mezzo alla città dinanzi a tutti … e se c’è qualcuno che non si mostra docile alla legge, minacciare morte all’uno; percosse e carcere all’altro, atimia a questo, miserie ed esilio a quello, o non anche imprimere ai propri discorsi, mentre dà a questi uomini le leggi, una forza persuasiva che renda gli uomini quanto più possibile docili”? Al che Clinia di rincalzo: “Oh no! Forestiero, anzi, se in simili questioni si dà il caso di poter usare, anche in piccola parte, la persuasione, un legislatore appena degno di questo nome, non deve assolutamente risparmiarsi in tal senso, ma come suol dirsi, metterci tutto il suo fiato per venire con la sua parola al soccorso dell’antica tradizione”. N.d.C. Il testo platonico continua: “..che cioè gli dei esistono .. che sono naturali tanto quanto lo è la natura medesima, se, come mi sembra che tu sostenga e come io credo con tre, secondo un giusto ragionamento, la legge e la natura sono effetto di intelligenza”. In realtà per Platone esisteva una relazione logica (?at? ????? ?????, 890 d) e matafisica (e?pe? ??? ?? ?st?? ?e???µata, 890 d) fra l’esistenza della legge e l’esistenza di Dio.

34 Phaedr., 271 d.

35 Il celebre passo che si suole citare a proposito della “nobile” o “magnifica” menzogna è quello che racconta la nascita della Madre Terra (Resp., 414 b-c); ma la teorizzazione della menzogna e della liceità del suo uso è in Resp., 382 b-c-d, in cui si precisa che il diritto “di ingannare i cittadini o i nemici, quando lo esiga l’interesse dello Stato spetta soltanto a chi ha il governo della città” e “deve restare ignoto ai profani”. È interessante notare come per legittimare l’uso della menzogna Platone equipari la menzogna a un farmaco “utile come una medicina per stornare” nemici ed amici “quando per furore o per qualche follia stiano per fare del male”.

36 Leg., 933. N.d.C. Viene citato C.A. Viano (1965).

37 Leg., 671 b-c.

38 Phaedr., 259 e.

39 Oltre i passi della Resp. Già citati cfr. Leg., 663 d: “un legislatore che abbia un minimo di capacità, sia pur non stando le cose come il presente ragionamento ci ha provato che siano, se si è permesso di ingannare i giovani nell’interesse del bene, in questa, più che in ogni altra occasione, la sia menzogna non sarebbe stata menzogna utile, la più efficace affinché tutti, non forzatamente ma volontariamente, compissero tutto ciò che è giusto?”.

40 Che cosa significhi precisamente “governo” (dei re filosofi) mi pare un problema sostanzialmente sfuggito alla pur ricca letteratura sul pensiero politico di Platone. Probabilmente ciò si spiega con l’esitazione di applicare categorie concettuali moderne ad esperienze, o a progetti di esperienze come nel caso della Repubblica, a queste affatto estranee. Resta comunque il problema teorico: e al riguardo ritengo che almeno due ipotesi di interpretazione abbiano diritto d’essere prese in considerazione. Secondo una prima si potrebbe considerare il “governo” nel senso di Platone come appartenente all’area dei significati attualmente coperta dal termine “amministrazione”; secondo un’altra ipotesi, che non sembra però escludere in linea di principio la prima, si potrebbe vedere nel governo dei filosofi una forma di decisionismo ante litteram nel senso di Schmitt.

41 Resp. 473 d.

42 Polit. 295 b.

43 Polit. 294 a.

44 Leg., 875 c-d.

45 Mi riferisco ai passi, giustamente celebri di Polit., 294 e ss.; che si aprono con l’affermazione: “la legge non potrebbe mai prescrivere e con esattezza per tutti, ciò che è il meglio e il più giusto, aggiungendovi anche ciò che è più conveniente: ché le disuguaglianze che ci sono fra uomo e uomo, fra azione e azione, e la infinita inquieta varabilità, diciamo così, dei casi umani non consentono che alcuna arte possa definire nulla di assoluto che valga per tutti i casi e per tutti i tempi” (Polit., 294 b).

46 La giustificazione prende le mosse dalla domanda del Forestiero: “E perché allora si debbono prescrivere le leggi, se la legge non è la cosa più giusta? Bisognerebbe trovarne la ragione” (Polit., 294 c) e si sviluppa con l’analogia dei maestri di ginnastica i quali non prescrivono ciò che conviene a ciascun corpo ma “quanto è utile ai corpi in senso generale, nella maggioranza dei casi e per i più”.

47 E ciò giustifica un eventuale mutamento delle leggi: “E a chi ha prescritto mediante leggi, scritte o non scritte, il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo, ad uso delle umane graggi … e quello stesso primo legislatore, che le scrisse con scienza, ritorni o qualche altro simile a lui gli succeda, non potrà esser lecito sostituire queste leggi con altre diverse?” (Polit., 295 e), Cfr. Leg., 769 d.

48 Leg., 875 c-d. Si veda Leg., 853 c-d: “Ma poiché non ci troviamo più nella condizione degli antichi legislatori, che come oggi si narra legiferavano per gli eroi, figli degli dei – essi medesimi figli di dei emanavano leggi per altri della stessa stirpe – ma uomini siamo ora che istituiamo leggi per semenze di uomini”. Cfr. anche Leg., 645 b.

49 Leg., 713 c.

50 Leg., 715 c-d

51 N.d.C. Vengono citati A. Verdross-Drossberg (1948), H. Goergemanns (1950), J. Lucioni (1958), M. Vanhutte (1954), E. Wolf (1970), G. Vlachos (1964), K. Popper (1973), G. Muller 81951), M. Michelakis (1953), G. Cambiano (1971), L. Robin (1968), L. Gernet (1956), G.R. Morrow (1960).

52 Resp., 421 c;L eg., 743 c; 963 a.

53 Resp., 473 c-d, 443 b; Leg., 692 b-c, 645 b; Ep. VII, 341-342. Confermano ulteriormente il punto l’analogia del legislatore col “vero medico” (Leg., 720 d, 857 c-d) nonché le doti che secondo Platone debbono possedere i “difensori delle leggi” (i membri del consiglio Notturno): “tutti coloro che dovranno essere difensori delle leggi, nel senso più pieno della parola, debbono conoscere a fondo la verità su queste cose, essere capaci di darne una logica dimosttrazione ed agire di conseguenza, sapendo giudicare quel che sia bello oppure no secondo natura” (Leg., 966 b). L’unico passo (Leg., 853 c-d) in cui il legislatore sembra scendere dal piedestallo della filosofia (“uomini siamo ora che istituiamo leggi per semenze di uomini”) può essere agevolmente interpretato come un artifizio letterario.

54 Leg., 724 b.

55 N.d.C. Viene citato G.R. Morrow (1960).

56 Leg., 880 d-e: “com’è noto le leggi sono nate alcune per i cittadini onesti, e per insegnare loro a vivere socialmente in amoroso reciproco rapporto, altre per coloro che si sottraggono ad ogni educazione, a causa di una qual certa loro durezza di natura che nulla riesce a intenerire, perché non si lascino andare a qualsivoglia malvagità; … ed è per simile gente che il legislatore è costretto a formulare le leggi di cui pur desidererebbe non ci fosse bisogno”.

57 N.d.C. Vengono citati J. Gould (1955), R.D. Dodds (1958), R.W. Hall (1963), G.R.Morrow (1960).

58 Resp., 532 c – 533 a (N.d.C: Si tratta del racconto del mito della caverna: “Ma non è forse questo quello che tu chiami procedimento dialettico? Sicuro. E la liberazione dai ceppi ed il rivolgersi dalle ombre alle statuette ed alla luce e l’ascesa verso il sole dalla sotterranea caverna … ebbene tutto questo lavoro, che si raggiunge con le varie scienze specifiche che abbiamo passato in rassegna, ha proprio questa virtù di elevare la parte più nobile dell’anima alla visione di ciò che di più eccellente v’è in ognuno degli enti”); Ep. VII, 341-342 (N.d.C. Si tratta dell’argomentazione con la quale Platone stigmatizza il fissare nello scritto ciò che conta sapere: “Da tutto questo, dunque, non possiamo trarre, in una parola, che la seguente conclusione: qualora si veda lo scritto di qualcuno, sia lo scritto di un legislatore sulle leggi o di altri su qualsivoglia argomento, tali cose non eran per l’autore le più serie, se davvero egli stesso è un uomo serio, ché le cose veramente serie restano deposte nella zona più bella ch’egli possiede. Ma se realmente costui, prendendo sul serio tali cose, le ha messe per iscritto, ‘allora senza dubbio’, non gli dei ma i mortali ‘gli tolsero il senno’”. Non bisogna dimenticare, infatti che per Platone, “solo dopo aver con fatica strofinato ciascuno di questi aspetti, nomi e definizioni, vista ed altre sensazioni, discussi in benevole discussioni, senza astio e senza invidie, che si servano di domande e di risposte, solo allora sull’oggetto studiato splende la luce della saggezza (f????s??) e dell’intelligenza (????), per chi, entro i limiti delle umane possibilità, vi si sia totalmente impegnato”.

59 Leg., 744 a.

[iii] Op. cit., p. 178.

[iv] Trad. it., Torino 1958, pp 115-116.

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