‘Platone o il legislatore persuasivo’
di Giacomo Gavazzi
Quello che risulta inequivocabilmente da queste poche ma dense pagine è che il “legislatore persuasivo comanda e persegue l’ubbedienza non solo e non principalmente con la minaccia delle pene ma con la persuasione e che la persuasione precede logicamente e istituzionalmente la costrizione”. In tal modo si è portati a riconoscere nell’intervento del legislatore, volto a moderare le intemperanze dei membri della società, non solo o soltanto la regolamentazione formale delle interferenze tra le azioni dei singoli ma la liberazione di ciascuno di essi dal condizionamento immediato delle voglie.
“ Si ricorra … a qualsivoglia mezzo pur di far odiare l’ingiustizia ed amare, o almeno, non detestare la giustizia nella sua essenza”.
Nell’auspicio, formulato da Gavazzi, di avviare un’analisi della struttura argomentativa impiegata nei preludi platonici, chiarendo la differenza specifica tra persuasione e costrizione nel comune genere del governo politico mediante legislazione che, per una immediata suggestione, oggi mi parrebbe dover iniziare da un preciso e puntuale riferimento alla composizione dell’anima individuale, nei suoi tre “aspetti”: razionale, concupiscente e impulsivo, e procedere attraverso un serrato confronto con la serie degli ordinamenti: l’aristocratico, il timocratico, il democratico e il tirannico, considerati in successione nel progressivo allontanarsi dalla “pura giustizia” per cadere nella “pura ingiustizia”, oggi è dato di riconoscere il suggerimento felice e fecondo di un intellettuale colto e illuminato ma anche e soprattutto la traccia di un’anima aperta all’amore del sapere e, tramite questo nonostante tutto, disposta naturalmente a dire sì all’Amore.
F.G.
——————————————————————————–
[i] Tratte da G. GAVAZZI, La motivazione delle leggi, “Il politico”, XXXIX (1974), n. 2, pp. 173-193.
[ii] “La polemica un tempo, neppur molto remoto, così accesamente condotta tra positivismo e giusnaturalismo sembra oggi spenta. Si direbbe che gli avversari dopo aspri combattimenti si siano ritirati addirittura al di qua dei primitivi confini lasciando fra mezzo una terra di nessuno. (…) Qual è in buona sostanza il capo d’accusa che il giusnaturalismo adebitava, e può tuttora addebitare, al positivismo giuridico? Il fatto, a mio parere, di aver presentato una concezione del diritto in termini volontaristici, come prodotto cioè della volontà di uomini; uno, pochi, o molti, non importa: principe, sovrano, legislatore, popolo, comunque sempre uomini. E con ciò il volontarismo era ovviamente considerato la porta d’ingresso sempre spalancata all’irrazionalismo, all’arbitrio, al capriccio. Sit pro ratione voluntas era in sostanza l’accusa dei giusnaturalisti ai positivisti. (…) Ho l’impressione che il positivismo giuridico si sia difeso piuttosto male dall’accusa di volontarismo e di irrazionalismo e, in ogni caso, senza quell’impegno che il tema richiedeva. (…) La difesa si svolse su due linee diverse e indipendenti. La prima consistette nel dire, e nel tentar di provare, che il giusnaturalismo stesso non era poi così razionalistico come voleva far credere; o meglio che era razionalistico a parole, ma non a fatti. (…) La seconda linea fu più una difesa dall’accusa di irrazionalismo e consistette nell’ammettere in limine una certa possibilità di irrazionalità e di arbitrio nella creazione del diritto ma nel mostrare nel contempo come l’arbitrio non fosse né assoluto né ineliminabile. Non assoluto perché il diritto stesso aveva provveduto ad introdurre positivamente princìpi, meccanismi, istituti, vari per natura e per efficacia, intesi comunque tutti a costituire un freno e un limite all’arbitrio del legislatore. (…) Né d’altra parte, si precisò, l’arbitrio è destino ineluttabile del volontarismo: anzi è proprio di una concezione volontaristica del diritto ammettere la mutabilità di questo, e il mutamento non è necessariamente in peggio. Proprio l’elemento volontaristico consente quell’adattabilità e quella autocorreggibilità del sistema che il presupposto razionalistico, rigidamente e staticamente inteso, precluderebbe. (…) Prescindendo dai dettagli, sui quali vorrei sorvolare, è facile osservare come entrambe queste linee di difesa, pur avendo portato ad utili precisazioni ed approfondimenti, erano però inadeguate allop scopo: non la prima, che si riduce ad una mera ritorsione, formulabile nei seguenti termini: se non sono effettivamente razionalisti gli stessi giusnaturalisti, perché dovrebbero esserlo i positivisti giuridici? Ma neppure la seconda risulta del tutto appropriata. Infatti per quel che non dice ma chiaramente sottintende, essa oppone un semplice fin de non recevoir: in sostanza ha l’aria di dire che non è colpa né merito del positivismo giuridico se il diritto positivo è il proodotto della volontà degli uomini, così come non è colpa del positivismo giuridico se tale volontà possa essere di fatto capriciiosa, interessata, malvagia. Si tratta di un fatto, deprecabile ed anche, se del caso curabile, ma non da parte del positivismo giuridico in quanto tale e comunque non con gli escamotages verbali propri del giusnaturalismo del tipo lex iniusta non est lex. (…) Sarebbe troppo pretendere che il positivismo giuridico sconfessi la sua tesi principale circa il primato della volontà nel diritto: ma è altrettanto vero che il positivismo giuridico non era lontano da qualche compromesso. Lo sta a dimostrare una teoria che il positivismo giuridico ha per parecchio tempo sottoscritto come propria: quella della completezza e, ancor più, quella della coerenza dell’ordinamento. (..) Ora, si badi bene, sia quello della completezza sia quello della coerenza sono ideali tipicamente razionalistici. Di un modesto razionalismo, certamente formale la coerenza; per dirla rudemente: ‘il legislatore può comandare tutto quello che vuole, ma non deve contraddirsi’. Più invasiva ma altrettanto formale la completezza; anche qui, per dirla in sintesi: ‘se il legislatore ha comandato certe cose, i suoi comandi valgono anche per le cose simili’. Su tale strada bisognava, e ancora si può, andare avanti per cercare di vedere un po’ chiaro nel problema del ‘diritto razionale’ o come altro lo si voglia chiamare. (…) Nonostante tutto, il problema della razionalità o della ragionevolezza o della giustificabilità delle decisioni e delle scelte, sia di quelle che ciascuno fa per sé sia, a maggior ragione, di quelle che uno fa per gli altri (come le leggi) è problema che non si può umanamente eludere” (Op. cit., pp. 173-177 passim).
1 Non è chiaro a quale “premessa del genere” giacché nel passo immediatamente precedente si parla del poeta che siede sul tripode della Musa e svolge il suo discorso lasciando “scorrere ciò che affluisce” (Leg., 719 b-c).
2 Leg., 720 a. Quando non è diversamente indicato è utilizzata la traduzione italiana di F. ADORNO, (Dialoghi politici e lettere di Platone, a cura di F. Adorno, Torino, 1970).
3 Leg., 720 e.
4 Leg., 721 e.
5 Leg., 722 c.
6 Leg., 722 b.
7 Leg., 720 b.
8 Leg., 720 d.
9 Leg., 720 b.
10 Il raffronto con il tiranno e il despota ritorna sovente: per esempio Leg., 859 a.
11 Leg., 720 b-d.
12 Leg., 820 a; altrove (859 a): “come amorosa e assennata opera di un padre e di una madre”.
13 Leg., 890 c.: “una forza persuasiva che renda gli uomini quanto più possibile docili”.
14 Leg., 722 b.
15 Leg., 723 a.
16 Il passo va infatti completato con Leg., 857 c-e.
17 Leg., 721 b. (N.d.C.: trattasi di un termine legale che configura la privazione del possesso e dell’esercizio del diritto di cittadinanza).
18 Leg., 721 b-d.
19 Leg., 721 d; cfr anche 774 b-c.
20 Leg., 722 c.
21 Leg., 722 d.
22 Leg., 723 c-d.
23 Leg., 723 a.
24 Leg., 722 d.
25 Leg., 723 d-e.
26 Leg., 724 a.
27 Leg., 734 e.
28 Leg., 969 c.
29 Leg., 854 b.
30 Leg., 773 e ss.
31 N.d.C. Vengono citati di seguito gli studi di M. Vanhoutte (1954), G.R. Morrow (1953) e R.W. Hall (1963).
32 N.d.C. Viene ricordata la tradizione di Zaleuco, Caronda, Giovanni di Stobi, Diodoro Siculo, Cicerone e Seneca sui proemi delle leggi.