‘Platone o il legislatore persuasivo’
di Giacomo Gavazzi
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La notte del Santo Natale dell’anno appena trascorso è morto nella sua casa di Montirone Giacomo Gavazzi. La sincerità del suo amore per il sapere, il fascino della sua capacità di meraviglia, la trasparenza della sua apertura alla relazione rendono spontaneo e insieme obbligato, in questo momento di doloroso distacco, manifestare un segno di riconoscenza e di memoria che vorremmo affidare allo stralcio di alcune sue pagine[i], in apparenza minori, dedicate a sondare nella profondità di un autore che avrebbe dovuto essergli ideologicamente lontano, e tale forse egli davvero sentiva, ma di cui non resisteva a sperimentare la prossimità filosofica, alla quale senza riserve si lasciava andare[ii]. Francescanamente sine glossa, per vivere ancora una volta il mistero della comunione nella differenza.
Le Leggi è l’unico dialogo in cui Platone attribuisce una funzione positiva e costitutiva al legislatore umano. In esso è posta con estrema lucidità l’alternativa tra due diversi modi o tecniche di formulare le leggi: da un lato lo stile che con linguaggio moderno possiamo chiamare imperativo, dall’altro lo stile imperativo-persuasivo. Successivamente, nel corso delo stesso dialogo, l’alternativa sarà superata e il secondo termine, discorso misto, imperativo-persuasivo, sarà sostituito con un termine complesso, in cui i due elementi, l’imperativo e il persuasivo, scissi l’uno dall’altro, avranno ciascuno struttura e sede autonome: precisamente nella legge quello prescrittivo, nel preludio alla legge quello persuasivo.
Consideriamo la prima presentazione dell’alternativa.
L’Ateniese, dietro il quale è lo stesso Platone, chiede se “chi abbia avuto l’incarico di compilare le nostre leggi non dovrà porre nessuna premessa del genere1 in capo alle leggi stesse; ma venir subito a dire quello che si deve fare oppure no, e, determinata la pena, passare alla legge seguente, senza aggiungere al complesso delle sue disposizioni nessuna esortazione, nulla che ad esse persuada”2.
Sono così delineate due tecniche di legiferare che poco più avanti3 saranno anche chiamate il metodo “doppio” (d?p????) una e metodo semplice (?p????) l’altra: la doppia formulazione consiste nel “persuadere e nel minacciare ad un tempo”, quella semplice “nel valersi delle sole minacce”4.
È chiaro che i due metodi non sono equivalenti: ma quale preferire? La risposta in parte è già contenuta nella definizione stessa degli stili ed in parte rafforzata dall’esempio, tratto dall’arte medica, con il quale l’Ateniese ha voluto illuminare l’intima differenza tra i due metodi.
Dalla descrizione risulta che il metodo doppio il quale usa la persuasione e la forza, e così tempera l’imperio con la persuasione5, è “due volte superiore all’altro per efficacia pratica”6. Sull’obiettivo dell’efficacia pratica ritorna con insistenza l’esempio dei due metodi di curare, o dei due medici: il medico empirico ed il medico scienziato.
L’esempio, presentato sin dalle prime battute della discussione sul doppio metodo, introduce però, quasi senza parere, elementi che mirano a giustificare il metodo legislativo della doppia formulazione su un piano diverso da quello della mera efficacia pratica.
In breve, ecco di che si tratta: esistono secondo l’Ateniese medici e aiuti medici. I medici(che sono uomini liberi) studiano l’arte medica scientificamente e scientificamente la insegnano ai propri discepoli7. In che consista lo studio scientifico dell’arte medica è precisato poco oltre8: il medico libero studia le malattie sin dall’origine e in quella che è la loro nartura. Viceversa l’ “aiuto medico” non apprende l’arte medica scientificamente, bensì “secondo le istruzioni del suo padrone, stando a guardare e in maniera empirica”9, in altre parole non indagando le cose nella loro origine e nella loro natura, ma imitando il medico vero. Ai due diversi modi di possedere l’arte medica, corrispondono due modi altrettanto diversi di esercitarla. Il medico libero normalmente cura gli ammalati liberi mentre il medico praticone cura gli ammalati schiavi, ma questo è il meno: il praticone tratta l’ammalato sbrigativamente, “con la sufficienza di un tiranno”10 “senza dare o ricevere una qualche spiegazione sui casi individuali dei singoli servi”; ordina ciò che gli suggerisce l’esperienza, come se avesse esatte cognizioni scientifiche” e passa ad un altro ammalato, rendendo così meno grave al padrone (al vero medico) la cura degli ammalati (liberi)11. Del tutto diverso il comportamento del medico libero verso i suoi pazienti: diverso, come abbiamo visto, il presupposto: “conosce e studia scientificamente le malattie”; ma diverso anche lo scopo: quello cerca “a poco a poco di restituire la salute”, mentre il praticone alleggerisce il lavoro del padrone e, quando gli va bene, restituisce anche la salute; e diverso infine anche il rapporto con i pazienti: “comunica le proprie impressioni all’ammalato e ai suoi cari”, impara qualcosa da parte dell’ammalato e soprattutto si fa “maestro dell’ammalato”, “metodicamente rendendolo docile e preparandolo per via di persuasione” ad accettare la prescrizione.
L’esampio dell’arte medica mira chiaramente a suggerire l’idea che la legislazione imperativo-persuasiva (come l’arte del medico libero) è più efficace perché più dolce12, piacevole (com’è detto in 684 c), tale da far accogliere le leggi volentieri dal popolo e dalla massa13, quel popolo e quella massa che in 720 a sono paragonati ai fanciulli che pregano il medico di curarli il più dolcemente possibile.
Che l’esempio abbia anche un altro significato, e nell’intento di Platone certo più profondo, risulta da una frase che concettualmente sembra lasciata in sospeso, e che perciò rinvia all’intera concezione platonica del reggitore-legislatore. L’affermazione cui mi riferisco è la seguente: “Ora, delle due specie di leggi sopra esposte, la seconda non è solo due volte superiore all’altra per efficacia pratica, ma, come abbiamo detto, veramente a proposito abbiamo fatto il paragone con i due tipi di medici”14. Che cosa significa, dopo aver ribadito la maggior efficacia pratica della legge persuasivo-imperativa, sottolineare con una avversativa ????, che il paragone dei medici è stato fatto veramente a proposito? Significa soltanto, come esplicitamente verrà detto poco dopo15, che l’analogia corre, e si arresta, tra la legge pura (o ordine tirannico) e la prescrizione di quei medici che Platone ha chiamato “schiavi”? Il testo isolato potrebbe giustificare siffatta interpretazione, ma non pare verosimile. Una lettura più organica16 avalla invece proprio il seguito dell’analogia: al vero medico corrisponde anche il vero legislatore, quello cioè che non solo prescrive in un certo modo – comandando e persuadendo – ma prescrive in quel certo modo perché è veramente in grado di farlo, perché, in altre parole, non è uno qualsiasi ma possiede una certa scienza e perché di questa scienza deve farsi maestro presso la “massa che non filosofa”.
Questo punto sembra assai importante per capire la funzione ed i limiti della persuasione che Platone vuole accompagni ed integri il comando della legge. Lo svolgimento del tema deve provvisoriamente essere accantonato, per completare l’analisi del mezzo proposto per conseguire la persuasione.
Torniamo così all’alternativa iniziale tra discorso imperativo e discorso imperativo-persuasivo.
A Platone non basta aver stabilito la superiorità del metodo “doppio” rispetto a quello semplice; vuol mostrare come rispettivamente si applichino nel campo legislativo e per questo sceglie come tema d’esercitazione l’età dei connubi. Che il legislatore provveda per prima cosa a ciò che negli stati riguarda il principio delle nascite, sembrava del tutto naturale a Platone ed alla cultura del suo tempo. Né precetto (inteso come norma di condotta) né sanzione (ce del resto è lasciata indeterminata) mutano dall’una all’altra formulazione. La prima, anzi, quella del metodo semplice, non contiene altro che quei due elementi. Essa suonerebbe all’incirca così: “Ognuno prenda moglie fra i trenta ed i trentacinque anni, se no venga condannato ad una multa e all’atimia”17. Una formulazione che indubbiamente sarebbe piaciuta ad Hobbes.
Viceversa la formulazione secondo il doppio metodo è un intreccio di argomentazioni che si incastrano suggestivamente l’una con l’altra, sortendo un effetto che, se oggi forse non può più dirsi propriamente persuasivo, mantiene un’efficacia assai forte.
L’argomento centrale18 è che “il genere umano ha una naturale affinità con il tempo nella sua totalità”; successivamente si identifica l’immortalità con l’accompagnamento del tempo “lungo tutto il corso dei secoli” e cioè, per l’appunto, con il tempo nella sua totalità. Ma perché l’identificazione abbia successo, bisogna anche suggerire l’idea che “il genere umano deve essere concepito come una totalità”, “come rimanente sempre uno ed identico a sé”, il che può avvenire appunto “lasciando figli dei figli”. A questo punto la catena può chiudersi col risultato che “per via di generazione il genere umano partecipa della immortalità”.
Naturalmente l’immortalità potrebbe anche non essere un bene desiderabile, ma a parare codesta eventualità provvedono due altri gruppi di argomenti. Il primo, esposto al principio dell’argomentazione, consta di un invito a riflettere come il genere umano (si badi, è il genere umano che viene posto come soggetto, predisponendo così il singolo che non senta desiderio di immortalità, a partecipare anch’esso a quel sentimento) “in un certo qual modo sia per natura partecipe d’immortalità”. Dopo di che, chi mai direbbe di aver sempre avuto desiderio di restare oscuro o, dopo morto, di essere completamente dimenticato, e perciò potrebbe coerentemente concludere di non desiderare l’immortalità?