LE SCIENZE COGNITIVE
e gli studi attuali sull’informatica giuridica
di Federico Casa
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1. Alcune breve notazioni sulle scienze cognitive
Rispetto agli studi d’informatica giuridica è senz’altro possibile oggi affermare che il problema epistemologico per eccellenza è quello relativo ai rapporti tra l’Intelligenza artificiale e il diritto, questione che, a ben vedere, e se osservata da altro punto di vista, finisce per coincidere con la disamina della possibilità di applicare allo studio del diritto modelli epistemologici pensati e realizzati per altri ambiti del sapere scientifico, tenuto conto che progetti di ricerca propri delle cosiddette scienze cognitive[1] sono presenti nei più disparati ambiti di studio, dalla psicologia alla sociologia, dalle neuroscienze fino alla biologia attraverso la logica e la linguistica.
Infatti, se nessuno potrà dubitare che a partire dalla fine degli anni Ottanta affrontare la tematica epistemologica dell’informatica giuridica significa analizzare i presupposti teorici e verificare i risultati pratici di quelli che vengono comunemente denominati i sistemi esperti, pensati e realizzati appunto secondo i principi ed i dettami dell’Intelligenza artificiale, forse non è ancora a tutti noto che la maggior parte delle problematiche che s’incontrano oggi nello studio dell’informatica giuridica altro non rappresentano se non il punto di emersione dei nodi teorici proposti e, per certi versi, ancora irrisolti, dalle scienze cognitive, le cui formulazioni dovranno poi necessariamente fare i conti con le diverse concezioni della scienza giuridica[2], dato che non sarebbe possibile pensare di informatizzare rami o settori dell’ordinamento giuridico, se non vi fosse una qualche consapevolezza teorica in ordine al metodo, all’oggetto e all’obiettivo della giurisprudenza.
In altri termini, e da altro punto di vista, se tradizionalmente il problema filosofico dell’informatica giuridica era quello di comprendere come potesse saldarsi la formazione umanistica del giurista con la conoscenza tecnica dell’informatico, risulta evidente che mai come oggi si pone la questione di interrogarsi sul facere di quel medesimo giurista; il quale, divenuto informatico, da una parte, avverte l’esigenza di avere una puntuale conoscenza dell’aspetto tecnico del suo operare, che altro non significa se non consapevolezza filosofica della convenzionalità[3] dei suoi risultati o quantomeno percezione della parzialità degli stessi, dall’altra, non può rinunciare ad orientare la sua attività alla comprensione dell’unità di quel medesimo ordinamento giuridico, divenuto oggi sempre più informatizzato e, come tale, sempre più virtuale[4].
Se questo è l’itinerario tracciato, occorre preliminarmente concentrare la nostra attenzione sulla circostanza che il giurista, nella quotidiana ricerca del suum cuique tribuere, sola via attraverso la quale è possibile ricomporre la frattura creatasi nell’ordinamento e così ricostituire una pur provvisoria unità dell’ordinamento giuridico stesso, deve operativamente misurarsi con diversi livelli e sempre maggiori profili di convenzionalità.
Primo fra tutti, quello concernente la progressiva informatizzazione dell’ordinamento giuridico stesso, dal quale deriva anche recentemente l’idea, di matrice illuministica, secondo la quale la validità e/o l’efficacia di una disposizione dipenderebbe dalla sua propensione ad essere informatizzata, al punto tale che, secondo alcune teoriche[5], persino il legislatore più avveduto, nel dubbio fra più possibili formulazioni, dovrebbe comunque optare per la disposizione più informatizzabile piuttosto che per quella più aderente al fatto da regolare e successivamente per quella più facilmente reperibile attraverso l’utilizzo dell’elaboratore[6].
Lungo questa via, ci si imbatte nel problema, che è poi quello che interessa principalmente la presente trattazione, di comprendere se e come sia possibile elaborare materiale giuridico informatico, e proprio perché informatico già convenzionale, al fine di ottenere una “conoscenza che è ulteriore e diversa rispetto a quella di partenza”[7]. Si tratta di studiare quei sistemi informatici che, raccolta una conoscenza giuridica formalizzata[8] e, come tale, già trattata secondo rigide regole di logica e semantica attraverso precise inferenze logiche, la restituiscono in forma di conoscenza utile e qualitativamente diversa rispetto a quella di partenza. L’intento, in altri termini, è quello di fornire non tanto informazioni su una questione, come accade per le banche dati, quanto di indicare le possibili soluzioni rispetto ad un prefissato problema.
Inutile annotare che la disamina di tali sistemi, detti esperti o cognitivi a seconda che si voglia valorizzarne l’aspetto metodologico-strutturale oppure quello funzionale[9], non può non fare i conti con la concezione latu sensu filosofico-giuridica[10] degli ideatori-realizzatori (programmatori) dei sistemi stessi, nonché con quella dei fruitori dei medesimi. Basti pensare che a partire dagli anni Sessanta tali ricerche si sono formidabilmente saldate con quelle dell’orientamento sicuramente più diffuso e, sotto certi profili, anche più importante del panorama giuridico filosofico italiano, comunemente denominato “Scuola di Torino”[11], il cui obiettivo precipuo era di utilizzare e adattare all’ambito giuridico le teoriche elaborate dalla Scuola Analitica del Circolo di Vienna[12].
Rispetto a tale tema, e a questo punto della trattazione, salvo poi affrontare più diffusamente la questione nel prosieguo dell’esposizione, occorre rilevare che autorevoli studiosi[13] della Scuola di Torino hanno ritenuto che la realizzazione di sistemi informatici cognitivi non solo avrebbe consentito di utilizzare finalmente gli strumenti epistemologici da loro predisposti precedentemente, ma la progettazione di tali sistemi avrebbe anche collaborato in modo decisivo al raggiungimento di quello che era l’obiettivo da tempo affidato alla scienza giuridica, quantomeno da quel fondamentale saggio di Norberto Bobbio del 1950, Teoria della scienza giuridica, purificare, completare e ordinare il linguaggio del legislatore[14].
Chiarito pertanto che il proseguo dell’esposizione sarà caratterizzato dall’analisi dei sistemi cognitivi[15] predisposti dall’informatico in vista dell’utilizzazione da parte del giurista, occorrerà pertanto formulare una prima definizione di Intelligenza artificiale. Riprendendo la definizione di Sartor, “essa è la scienza intesa a sviluppare modelli computazionali del comportamento intelligente, e quindi a far sì che gli elaboratori possano eseguire compiti che richiederebbero intelligenza da parte dell’uomo”[16]. Di qui la possibilità di affermare che quasi tutti i sistemi giuridici esperti utilizzano ed applicano gli strumenti teorici messi a disposizione dai progressi realizzati dagli studi di Intelligenza artificiale, i quali appartengono a quel più ampio settore di ricerche che prende il nome di “galassia cognitiva”[17].
2. I primi approcci alle scienze cognitive
Gli studi di scienza cognitiva si fanno convenzionalmente iniziare nel 1956, data del Darthmount Summer Research Project on Artificial Intelligence, a partire dal quale risulterà subito chiaro quello che sarà l’intento degli studi Intelligenza artificiale: “simulare su un elaboratore elettronico il comportamento intelligente umano, costruire cioè una macchina, pur se diversa nella struttura dal cervello umano, in grado di avere un comportamento intelligente indistinguibile da un comportamento umano in un determinato ambito”[18].
In rapporto a queste premesse emerge dunque chiaramente il debito epistemologico di tali elaborazioni concettuali nei confronti di quelle scienze, dette appunto cognitive, che studiano l’atto cognitivo umano, inteso come espressione di tutte le capacità della sua mente, dalla razionalità alla percezione, dal comportamento al coordinamento muscolare.
Pertanto, e pur nella difficoltà di chiarire oggi con precisione quali siano i caratteri fondamentali delle scienze cognitive, occorre subito evidenziare che lo scienziato cognitivo sostiene la possibilità di rappresentare il funzionamento della mente umana ma solo attraverso un livello di analisi separato, che può essere chiamato il livello della rappresentazione, in cui l’attività cognitiva umana risulta necessariamente descritta nei termini di simboli, di schemi, di immagini, di idee e di altre forme di rappresentazione mentale. Ne deriva, secondo la cifra teorica di questa prospettiva, che il problema epistemologico per eccellenza diviene quello relativo alla scelta dei modi migliori per concettualizzare le rappresentazioni mentali, le quali potranno essere contemporaneamente proposizioni e enunciati oppure proposizioni e immagini.
Il ricorso al livello separato della rappresentazione comporta, quale ulteriore protocollo delle scienze cognitive, la convinzione in capo agli scienziati cognitivi dell’opportunità di escludere dall’oggetto delle loro ricerche tutto ciò che ha una qualche relazione con il contesto storico, culturale, emotivo che circonda il pensiero umano; risulta pertanto chiarissimo che i modelli delle scienze cognitive convenzionalmente escludono dalle loro analisi tutto ciò che attiene all’ambiente nel quale il pensiero umano è chiamato ad operare e ne può risultare influenzato, non solo nella convinzione che tali componenti non interagiscano con i processi mentali dell’uomo, ma anche quale vera e propria ipotesi di lavoro.
Inoltre, non si può dimenticare che altro elemento caratterizzante le scienze cognitive è rappresentato dall’uso dell’elaboratore[19]. Sul punto, occorre però intendersi, poiché esso, ai fini che qui interessano, assolve almeno a tre funzioni; in primo luogo, il computer rappresenta la prova di esistenza delle scienze cognitive stesse, dato che, se si può dire di una macchina costruita dall’uomo che essa ragiona e che è comunque in grado di trasformare le proprie informazioni iniziali, allora essa costituisce la conferma del fondamento epistemologico delle scienze della mente, della possibilità, in altri termini, di riprodurre il funzionamento del pensiero umano.