Sulla giurisprudenza come scienza
A proposito di un recente volume di Federico Casa
di Andrea Favaro
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All’interno del panorama dei più recenti lavori di filosofia del diritto, il volume di Federico Casa[*] propone un tema che a prima vista potrebbe apparire superato, se è vero che negli ultimi anni scarsa attenzione gli è stata riservata dagli studiosi della disciplina. Se l’interesse è parso venire meno, non per questo però l’attualità e la rilevanza del tema si possono dire assenti, ovvero risolte. Anzi, la pubblicazione, caratterizzata da un’analisi esaustiva e approfondita sulla questione della scientificità della giurisprudenza, per il vero giurista può rappresentare un tassello fondamentale della sua formazione.
A ragion veduta, difatti, il primo merito dell’A. è proprio l’aver esposto chiaramente le caratteristiche, ma soprattutto le condizioni, che rendono “classico”, e quindi fondamentale, un argomento. Tra queste, imprescindibile rimane la capacità di una problematica di pervadere il presente per illuminare il futuro. Proprio dalla disamina acuta che si dipana lungo tutto il testo il Casa offre al lettore una continua correlazione temporale tra “ieri” e “oggi” il cui forte dinamismo ha la propria fonte in un intrascendibile primato del presente. Nell’Opera, tale caratteristica non tende a mostrare un mero interesse per ciò che ogni singolo studioso ha scritto, ma è dovuta piuttosto alla capacità dell’A. di far emergere dal “presente” della prima metà del secolo scorso, temi che interessano il “presente attuale” di tutti gli operatori del diritto. Esito felice questo che sarà sicuramente arricchito non appena lo studioso padovano darà alle stampe il secondo volume dell’Opera dove l’analisi giustamente proseguirà nell’analisi del Kelsen e della Scuola Analitica di Torino (pp. 392 e 398).
Sin dall’Introduzione (pp. 1-6), si comprende però che la relazione che l’A. stabilisce con l’ambito “classico” della epistemologia giuridica, non è di mera erudizione, perché questa otterrebbe l’infecondo risultato di offrire gli strumenti utili a collocare correttamente un certo dibattito, ovvero una o più posizioni sul tema nel proprio orizzonte di appartenenza, ma non di schiudere tale orizzonte a ciò che oggi siamo. L’obiettivo esplicitato dall’A., invece, è verificare se il tema della “Giurisprudenza come scienza” abbia avuto e/o avrà mai la possibilità di «gettare un ponte tra il sapere filosofico, necessariamente astratto, e il concreto operare di giudici, avvocati, notai» (p. 1).
Solo in questa prospettiva si colgono bene tutte le prese di distanza dai singoli autori analizzati; perché trattando proprio un tema “classico” l’A. non si limitato ad offrire al lettore un patrimonio immenso di riferimenti testuali come un tesoro da cui prelevare ciò che più pare utile a ciascuno, perché altrimenti correrebbe il rischio della erudizione finanche saccente, mentre il Suo scopo precipuo (cfr. pp. 5-6) è quello di offrire una problematizzazione di ciò che il giurista è oggi, “all’indicativo” direbbe Villey.
Il lettore attento, difatti, giunge al termine dell’Opera constatando un approfondito profilo critico, sempre puntuale e giustificato, nei confronti, inter alios, di Opocher (pp. 88-90; 301; 392-393), Cesarini Sforza (pp.121-122 e 136-142), Bobbio (pp. 150-152; 212-213; 301-302), Treves (pp. 195-199), Capograssi (pp. 212-213), Ravà (pp. 244-245), Olgiati (p. 261) Leoni (pp. 279-280; 288), nonché Di Carlo (p. 187) e de Gennaro (pp. 126-127). Tutti rilievi di natura problematica che servono all’A. per evidenziare limiti e prospettive delle risposte fornite ad alcuni quesiti come: può considerarsi scienza la giurisprudenza? Qual è l’oggetto della scienza del diritto? Con quale metodo si determina cosa è il diritto in una società?
Interrogativi tanto ardui, quanto lasciati irrisolti da un diffuso disinteresse che, però, prova più del necessario. Difatti, l’A. a ragione dimostra come tale silenzio nel dibattito odierno non sia giustificato dal ritrovamento di una soluzione univoca, quanto dalla consapevole necessità di tacere dinanzi ad un tema che difficilmente potrà dirsi chiarito una volta per tutte se non si accoglie il fatto che la giurisprudenza è in sé e per sé vincolata con un nodo gordiano alla perenne evoluzione dell’esperienza.
La peculiare attenzione che il volume mostra nei confronti del contributo dei c.d. “pratici” del diritto, difatti, svela la esplicita confessione dell’A. che «il filosofo, come lo scienziato, muove dall’esperienza ed è proprio in questo suo porsi nei confronti dell’esperienza che si possono intravedere i tratti caratteristici della riflessione filosofica» (p. 413). Perché il tentativo che, come un fiume carsico, riemerge qua e là, ma davvero innerva l’intera disamina, può essere identificato nel tentativo di riannodare i temi epistemologici a quelli prettamente filosofici, che è stato visto all’epoca come l’esperimento per gettare i ponti del dialogo tra filosofi e giuristi. Tentativi di dialogo, “ponti” appunto, che ripetutamente sono stati promessi, tanto dai giuristi (Carnelutti, Calamandrei) quanto dai filosofi (Cesarini Sforza, Capograssi, Lopez de Oñate); ma che spesso le correnti più diffuse nella prima metà del secolo XX (positivismo, neo-idealismo, neo-kantismo) hanno impostato troppo presto come definitivi e non attenti alla realtà.
Purtroppo, la costruzione ipotetica dei primi si è ben presto arrestata alla sola fase progettuale e astratta e la inaffidabile solidità delle seconde è stata compiutamente svelata fin dai primi anni quaranta dal Leoni.
Seguendo, anzi volendo esplicitamente «ri-partire da Il problema della natura della giurisprudenza di Enrico Opocher» (p. 5), l’A., infatti, in questo Suo primo volume sul tema, comincia studiando il problema epistemologico alla luce del rapporto della filosofia del diritto con il positivismo filosofico, col neo-kantismo e col neo-idealismo italiano per poi affrontare lo studio di alcuni saggi (come quelli di Treves, Olgiati, Bagolini e Capograssi) che in quei medesimi anni avevano trattato filosoficamente temi che imponevano una preliminare presa di posizione epistemologica. Per tornare, infine, alla trattazione della “classiche” tematiche sulla scientificità della giurisprudenza, dalla negazione della stessa per opera di Julius Hermann von Kirchmann fino alla celebrazione della possibilità di una reine Rechtslehre da parte del Kelsen.
Proseguire dall’imperituro lascito opocheriano circa il carattere “operativo” della scienza giuridica, perché strumentale all’attività del giudice, a parere dell’A. significa sottolineare anche il carattere “convenzionale” della stessa giurisprudenza una volta che gli studi sul convenzionalismo scientifico ne abbiano dimostrato il fondamento (pp. 393 e 396 dove il testo di riferimento è L.Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza, Feltrinelli, Milano 1960).
Imprescindibile, quindi, è il problema dei rapporti tra la filosofia e la scienza giuridica nel primo novecento, dove il “vero nodo” di partenza verte sulla «proposta del positivismo italiano (…), che intendeva (…) accreditare il diritto come strumento di soluzione dei conflitti nella società e il ruolo del giurista come una sorta di lubrificante sociale» (p. 17), alla quale avrebbe voluto replicare un giusnaturalismo che non pareva in grado di fornire strumenti validi al giurista sia esso “neo-critico”, “storicistico” o “neo-scolastico”. Nemmeno le risposte neokantiane e neoidealiste, difatti, riuscirono a fornire valide alternative alle prospettive filosofiche di un Falchi o di un Fragapane, seguaci dell’Ardigò, come pure di un Vanni o di un Levi.
In questo scenario appena affrescato, l’A. è coartato nell’introdurre il tema del positivismo giuridico e assolve tale obbligo presentando una ammirevole campionatura delle varie accezioni che si hanno di tale impostazione giusfilosofica (inter alios, Bobbio, Kelsen, Scarpelli, Hart) fino a giungere alla giustificazione che l’A. accoglie come propria di positivismo giuridico, mutuandola dal Waldstein (Saggi sul diritto non scritto, Cedam, Padova 2002, pp. 51-52) per la quale «non si tratta di una visione logico-sistematica, né di una visione sociologica, nemmeno gli è essenziale l’importanza attribuita al diritto positivo, è decisiva, invece, l’inesatta assolutizzazione riscontrabile ovunque di singoli aspetti» (p. 65 nota 214).
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