Intellettuali e potere: che cosa è cambiato dal ‘1984’
di Francesco Gentile
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“L’esercizio del potere è un dovere: perciò non può mai risultare arbitrario!”. Stavo riflettendo sul tema del XXIII Congresso Nazionale del Sindacato Libero Scrittori Italiani, dedicato appunto a “Intellettuali e potere: che cosa è cambiato dal 1984”, quando mi è capitato di incrociare questa laconica quanto perentoria affermazione, beninteso di un intellettuale “potente”, un collega in accademia. “L’esercizio del potere è un dovere: perciò non può mai risultare arbitrario!”.
Non nascondo che sono stato immediatamente colto da un senso irresistibile di sdegno. Sdegno per l’arroganza che mi è parso di riconoscere dietro al rifiuto di sottostare al giudizio da parte di chi esercita, seppure pro tempore, il potere, e quindi di non assumerne la personale responsabilità. Qualcosa di simile a quello che un intellettuale “organico” come Thomas Hobbes significa quando dice: “L’opinione che un monarca riceva il suo potere per mezzo di un patto, vale a dire a condizione, procede dal non intendere questa semplice verità che i patti, essendo solo parole e emissione di fiato, non hanno alcuna forza per obbligare, contenere, costringere o proteggere qualcuno se non quella che si ha dalla pubblica spada, cioè dalle mani non legate di quell’uomo o assemblea di uomini che ha la sovranità”. Insomma, asfittico, claudicante e impallinato da ogni parte, il principio di sovranità, con il suo strascico di imposture, soprusi e ingiustizie, ritrova splendore e ossequio nella testa, confusa, di un intellettuale nell’esercizio del potere in accademia!
Allo sdegno, però, è subentrato ben presto un senso misto di sgomento e di vergogna.
Riflettendo sull’affermazione: L’esercizio del potere è un dovere: perciò non può mai risultare arbitrario, mi è affiorato il ricordo di un passo del Die Macht: Versuch einer Wegweisung di Romano Guardini, che sono andato a cercare tra i libri in biblioteca e che, senza commenti, vorrei citare integralmente.
“Non esiste potere alcuno che abbia a priori senso e valore. Esso riceve il suo senso attraverso l’uomo che ne prende coscienza, che ne decide, che lo trasforma in azione, che ne assume cioè la responsabilità. Non esiste un potere irresponsabile dell’uomo. Esso è sempre azione, o almeno permissione, e come tale una istanza umana, una persona, ne assume la responsabilità. E’ così anche quando l’uomo non vuole assumere questa responsabilità (…) La progressiva statalizzazione (scoperto il riferimento alla riduzione in chiave di sovranità statale) dei fatti sociali, economici, tecnici, e insieme le teorie materialistiche che concepiscono la storia come un processo necessario, significano il tentativo di abolire il carattere della responsabilità accettata, di scindere il potere dalla persona, e rendere il suo esercizio simile a un fenomeno naturale. In tal modo, il carattere essenziale del potere come energia di cui una persona è responsabile, non viene soppresso ma solo corrotto. Ne nasce una condizione di colpa che si attua poi in forme di distruzione.
In sé il potere non è né buono né cattivo, ma riceve il proprio senso solo dalla decisione di colui che lo esercita. (…) Il potere rappresenta indifferentemente la possibilità di ciò che è buono e positivo e il pericolo di ciò che è cattivo e distruttivo. Tale pericolo cresce in diretto rapporto con la misura del potere ed è ciò di cui noi oggi (Guardini scriveva così nel 1951, cinquant’anni fa’, ma non sembra che le cose siano cambiate, se non nel senso che si sono aggravate) siamo divenuti consapevoli. Il pericolo può provenire dal fatto che del potere disponga una volontà che ha un orientamento falso, ovvero non sente più alcuna obbligazione morale. Può anche avvenire che dietro di esso non ci sia più alcuna volontà a cui ci si possa rivolgere, nessuna persona che risponda, ma solo un’organizzazione anonima, in cui ciascuno è guidato e sorvegliato dalle istanze immediatamente contigue e appare perciò privato della propria responsabilità (è forse per questo che l’esercizio del potere non può mai risultare arbitrario ad un intellettuale?). (…) Il potere allora assume un carattere che non si può individuare, se non alla luce della Rivelazione: esso diviene demoniaco. Quando l’azione non è più sorretta dalla coscienza personale, un vuoto singolare si determina in colui che agisce. Egli non ha più il senso di essere lui ad agire, il senso che l’azione cominci in lui e che egli perciò ne debba rispondere. Sembra che egli non esista più in quanto soggetto e che l’azione passi semplicemente attraverso di lui, semplice anello di una catena. (…) Si diffonde sempre più la sensazione che non ci sia affatto un ‘qualcheduno’, che agisce, che dell’accadimento risponda qualcosa di indefinito, che non si può in nessun luogo afferrare, che non si presenta davanti a nessuno, che non risponde a nessuna domanda”.
A questo punto Guardini ha un richiamo ai due romanzi di Kafka, Il processo e Il castello.
Qual è la parte dell’intellettuale in questa sordida vicenda? Mi sono chiesto e non nascondo d’aver avuto paura: paura di me stesso, in quanto intellettuale. Che di questa triste vicenda sia corresponsabile l’intellettuale “commesso del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico”, chiamato a “mobilitare il consenso spontaneo delle masse all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo dominante” o a lubrificare gli ingranaggi “dell’apparato di coercizione statale (…) quando il consenso spontaneo viene meno”, è facile dirlo, con Gramsci, è quasi scontato dirlo, seppure con segno invertito. Ma non meno responsabile della sinistra vicenda, e forse persino di più, può essere l’intellettuale “chierico”, per usare la formula di Benda, “la cui attività non persegue immediatamente fini pratici”, che dice di cercare “la soddisfazione di un bene non temporale”, si compiace di proclamare che “il suo regno non è di questo mondo” e perciò assume “un atteggiamento di formale opposizione al realismo della masse”, ma in realtà si ricava abilmente una comoda nicchia dalla quale sentenziare come un “grillo parlante” di collodiana memoria. In apparenza rimanendo equidistante da chi ha il potere e da chi non lo ha ancora; in realtà essendo funzionale al potere anonimo e senza tempo. Diabolicamente.
Ed è sempre Guardini ad illuminare.
“Nella sicurezza della sua fede nel progresso, il secolo diciannovesimo ha deriso la figura del demonio, diciamo più onestamente e più esattamente di Satana; ma chi è capace di vedere non ride. Sa che egli esiste ed è al lavoro. (…) Quando si parla di ‘demoniaco’, come tanto spesso avviene, non c’è serietà nelle parole. Per lo più sono vane chiacchiere e dove se ne parla sul serio si esprime una paura indistinta o s’intende qualche stato psicologico, ovvero qualcosa di simbolico. Quando la scienza delle religioni, e la psicologia del profondo, il dramma, il film, il romanzo d’appendice parlano di demoniaco, esprimono semplicemente il sentimento che ci sia nell’esistenza un elemento di disarmonia, di contraddizione, di malizia, qualcosa di estremamente incomprensibile e sinistro che emerge con particolare evidenza in date situazioni individuali e storiche ed al quale corrisponde una particolare angoscia. In realtà si tratta non del ‘demoniaco’, ma di Satana. E chi sia Satana lo dice in modo competente solo la Rivelazione”.
Mettendosi poi nella prospettiva del “post-1984”, in cui affiora il ricordo di Orwell, la vicenda presenta aspetti ancor più significativi ed inquietanti.
Invero, la fine delle ideologie, simbolicamente concretatasi nella caduta del Muro di Berlino, ha preso “in grande” le forme della iconoclastia più selvaggia, mai si sono contate tante critiche della Sinistra da sinistra e da destra della Destra, ma “in piccolo” ha dato la stura alla nebulizzazione dell’ideologico, alla sua moltiplicazione per tanti quanti sono i singoli individui. Volendo utilizzare un termine del linguaggio tecnico oggi più avanzato, potremmo dire che si è prodotto il “nano-ideologico”. Ora l’intrinseca aporia, del particolare che pretende di valere in universale, o almeno in generale, che nell’ideologico poteva rimanere machiavellicamente mascherata, nel nano-ideologico è destinata a rivelarsi senza maschera perché la pretesa assolutizzazione dell’individuale non riesce a nascondersi nella guicciardiniana generalizzazione del “particulare”, e l’implosione del sistema, inevitabile, è nell’aria.
Il passaggio dall’uno all’altro dei vecchi recinti partitici è diventato fisiologico tanto da metter in soffitta, perché ormai ridotto a rottame, il trasformismo, che nella nostra storia politico-culturale aveva avuto in passato ampio spazio ma sempre in una luce obliqua, essendo gravato da un giudizio peggiorativo, e che oggi invece è divenuto segno di vitalità, di prontezza, di lungimiranza, “pratica” ma anche “intellettuale”. D’altra parte in un mondo in cui tutti sono, potenzialmente, in guerra con tutti sarebbe davvero difficile giudicare sconveniente l’aggregarsi variamente secondo il variare delle circostanze e l’evolvere dei progetti. Non potendosi dare contraddizione tra cloni.
Sennonché, proprio nel momento in cui, nel buio di una notte nera dove tutte le vacche sono nere, risuona il ghigno satanico del potere anonimo uno spiraglio di luce sembra aprirsi ed una voce pura risuona, mitemente ma fermamente. Perché nel dilagare del nano-ideologico non è dato a nessuno di ritenersi “semplice anello di una catena”, posto che ognuno pretende di far parte a sé solo e di agire esclusivamente in proprio. Nessuno può negare che “il senso dell’azione cominci con lui e che perciò ne debba rispondere” personalmente.. Non è più plausibile scaricare la responsabilità di ciò che accade su “qualcosa di indefinito, che non si può afferrare, che non si presenta davanti a nessuno, che non risponde a nessuna domanda”, la si chiami democrazia o classe o razza, la si definisca di destra o di sinistra. Chi lo facesse non sarebbe credibile, Non è credibile.
Di ogni azione c’è sempre qualcuno che deve rispondere, personalmente, in corpo e anima.
In questa terribile ma fortunata circostanza all’intellettuale è forse dato di esercitare un ruolo straordinario, lontano dal servilismo del commesso come dal narcisismo del chierico. Beninteso se è capace di sopportare l’emarginazione che può derivargli dal rifiuto di farsi strumento del potente di turno e nel medesimo tempo se non teme di misurarsi con esso per far valere la potenza critica di un atteggiamento indipendente e antesignano. assumendo il ruolo socratico della “levatrice”. La levatrice del vero.
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