Sul problema internazionale penale *
di Gaetano Marini

Ma quali sono le conseguenze sul piano logico di questi corollari, potremmo dire, internazionalistici di una teoria che assume come criterio regolativo la spada di Bodin o le mani libere del sovrano di Hobbes? Probabilmente se ne possono leggere gli esiti più coerenti nel rifiuto che il positivismo giuridico oppone a qualsiasi tentativo di mettere in comunicazione penale ed internazionale. E non mancherebbero, come vedremo, buoni argomenti per dedurne un breve trattato di filosofia dei giuristi del ‘900. Ma per ora basterà ricordare due grandi Maestri della Scienza giuridica penale come Manzini ed Antolisei che negano questa felice possibilità combinatoria atteggiandosi ad epigoni, non si sa quanto consaputi, di Bodin e di Hobbes.

E’ forse più palese il caso di Manzini, massimo referente simbolico del tecnicismo giuridico penale, che nel suo monumentale Trattato del primo novecento esercita una autentica actio finium regundorum non solo tra scienza del diritto penale e filosofia ma anche tra penale ed internazionale. Con la conseguenza, se ne desume, che il diritto penale internazionale non esiste perché, se è diritto penale non può essere che diritto interno; altrimenti è diritto internazionale ma non diritto penale internazionale o, peggio, diritto internazionale penale18.

Non è meno significativo tuttavia il caso di Antolisei. Perché in quello che, nonostante le professioni di realismo, parrebbe l’ultimo grande Manuale del positivismo giuridico penale del secolo , si legge che il diritto penale internazionale non esiste e non esiste, sembra di capire, perché la legge penale che coincide con la potestà sovrana, “ può imperare solo là dove ha forza di imporsi”. Tanto più che in questa integrale dimensione esclusivistica non vi sarebbe neppure un interesse a punire fatti che avvengono al di fuori dei confini dello Stato 19.

Osserviamo incidentalmente che per vedere tematizzato questo interesse e per avvertire comunque una diversa attenzione al problema bisognerà attendere le riflessioni svolte dal Vassalli subito dopo la seconda guerra mondiale 20. Ma tornando alla chiusura del positivismo giuridico ortodosso e passando alla dottrina internazionalistica parallela e permeata, come dire, di sovranità, è difficile non percepire che, se cambia naturalmente per definizione l’orizzonte, riaffiora poi la stessa riserva mentale espressa dal sillogismo statalistico di Manzini che esclude in modo perentorio commistioni e sconfinamenti tra penale ed internazionale. E’ inevitabile pensare a Levi ed a Quadri che traducono non a caso questo sillogismo nel linguaggio e dal punto di vista degli internazionalisti 21.

Più in generale nella lettura positivistica del problema internazionale penale si avverte che la difficoltà di fondo è data dalla contraddittoria esigenza di riferirsi all’individuo come soggetto in un ordinamento che assolutizza la sovranità degli Stati, appunto, sovrani.

Questa difficoltà si esprime in modo esplicito nella dottrina dualistica tipicamente italiana che separa radicalmente diritto nazionale ed internazionale e che, con estrema coerenza rispetto a questi presupposti dottrinari, difende l’insegna di una soggettività negata all’individuo. Ma le cose non cambiano molto con la dottrina monista di matrice kelseniana che identifica invece diritto nazionale ed internazionale e che in questa identificazione immediata ma astratta riflette la stessa difficoltà quando elabora raffinate categorie classificatorie distinguendo ad esempio tra soggettività relativa, limitata o eccezionale, dell’individuo 22. Insomma, l’individuo finisce per essere considerato al modo di un soggetto tutt’al più potenziale dell’ordinamento internazionale.

Non è il caso di dilungarsi oltre su questo catalogo definitorio se non per sottolineare che le difficoltà comuni ai due punti di vista apparentemente opposti della prospettiva monista e di quella dualista parrebbero strutturalmente insuperabili se si rimane ancorati alle filiazioni dottrinarie di una teoria che dà alla sovranità statale il sigillo divino di un comando senza limiti nella verità e nella natura.

Vi è tuttavia da dubitare che per uscire dalle strettoie del positivismo giuridico, penale o internazionale che sia, basti capovolgere la questione cercando improbabili limiti alla sovranità nell’astratta duplicazione dei codici proposta dal giusnaturalismo moderno che separa essere e dover essere, diritto e natura.

Ci si può chiedere cioè se, da questo punto di vista, giusnaturalismo e positivismo giuridico non siano due facce dello stesso tentativo di uscire dall’impasse di una concezione che, nelle sue derive apparentemente conflittuali, finisce per propiziare quella che il giusfilosofo Gentile considera una sorta di “geometria legale” 23, alludendo ad un alibi giuridico che funziona al modo di una maschera del potere.

Per dare corpo a questi dubbi basta pensare ai diritti fondamentali dell’uomo che vengono violati ogni giorno in qualche parte del mondo anche se sono dichiarati solennemente, ma per certi versi astrattamente, inviolabili nelle dichiarazioni delle Costituzioni nazionali e della Carta dell’ONU.

Ci si può domandare se siano davvero queste dichiarazioni a sanzionare la morte della sovranità, come ad esempio parrebbe credere Ferrajoli24. E la risposta a questa domanda evidentemente retorica è che la vera pietra d’inciampo della sovranità non è data tanto, o non solo, dalle nobili ma astratte dichiarazioni di principio quanto dal loro concretarsi grazie all’esistenza di una effettiva giurisdizione internazionale penale. E qui il cerchio si chiude perché, più che mai, in una prospettiva ambigua e complessa come quella internazionale penale, potremmo dire usando una terminologia anglosassone, l’incipit è dato dal law in action e non dal law in the books. Insomma dal diritto vivente e non dalle costruzioni artificiali ovvero dalle finzioni delle dottrine in perenne conflitto nel dibattito delle Scuole.

Vale a dire che la sovranità non è, e non potrebbe essere, messa in causa dalle sottili distinzioni in tema di diritto internazionale penale che la presuppongono ma semmai dalla e nella dimensione operativa di quella scienza giuridica applicata nella quale consiste la giurisprudenza elaborata dai giudici.

III

Sciogliendo qualche riserva sui temi appena delineati, possiamo esplicitare meglio una delle ragioni per le quali parrebbe così dirompente l’immagine di un’autentica giurisdizione internazionale penale.

Come luogo di verifica può valere il problema tecnico e tuttavia denso di spessori non solo giuridici che è posto dall’esigenza, sentita in ogni dopoguerra ma sempre riemergente, di interrogarsi sui confini della responsabilità o, specularmente, della irresponsabilità dell’esecutore di ordini criminosi. Ma procediamo con ordine prendendo le mosse dagli esiti di queste prime riflessioni per osservare che l’esistenza di una giurisdizione internazionale penale nel suo concreto operare implica il riconoscimento, per così dire, giudiziario che accanto agli Stati vi siano gli individui titolari di diritti e doveri sul piano internazionale; e che dunque, come gli Stati, gli individui possono essere considerati, beninteso su piani diversi, responsabili di ogni atto commesso in violazione delle norme di diritto internazionale generale.

Pensiamo, nell’ambito che qui preme focalizzare, all’indicatore costituito dalla mutevolezza dei modelli penalistici di valutazione della responsabilità per i crimini di guerra. Ma è il caso di essere più espliciti. Se utilizzando luoghi di verifica e indicatori così significativi volessimo rappresentare per fasi la storia di questo riconoscimento giudiziario di soggettività nei confronti dell’individuo, finiremmo per tracciare non soltanto i lineamenti di una storia della giurisdizione internazionale penale ma anche il grafico declinante del concetto di sovranità fino alla crisi odierna che non potrebbe essere negata neppure dai suoi stessi cultori.

Proviamo a rappresentare queste coordinate con uno schema riassuntivo che poi bisognerà documentare. Nella fase iniziale di questo itinerario di storia del diritto giudiziario internazionale penale il principio della irresponsabilità individuale costituisce il corollario di una sovranità che potremmo definire totalizzante perché contrappone lo Stato come soggetto al suddito come oggetto.

Nella fase, che poi evidentemente è un faticoso e non definitivo punto di arrivo, in cui si affaccia invece il principio della responsabilità individuale, l’individuo viene appunto considerato capace di rispondere dei propri atti in prima persona senza la possibilità di nascondersi dietro lo scudo protettivo del potere cristallizzato ad esempio nell’ordine superiore, beninteso, criminoso.

Per questa via l’individuo conquista sul campo giudiziario il diritto ad essere considerato soggetto senza bisogno di alcuna mediazione statale cioè soggetto di diritti fondamentali come cittadino della Comunità internazionale.

Ora si può fare un esempio retrospettivo della fase in cui prevale il criterio della irresponsabilità. Evitando di tornare alla preistoria della giurisdizione internazionale penale, si può descrivere in breve l’esperienza non molto lontana del Tribunale di Lipsia che nel 1921 avrebbe dovuto operare in linea con le clausole del Trattato di Versailles nelle quali, forse per la prima volta, si esprimeva la tendenza a riconoscere una forma embrionale ma esplicita di responsabilità penale di diritto internazionale.

Sappiamo bene come andò a finire. Il Tribunale di Lipsia avrebbe dovuto giudicare anche il Kaiser Guglielmo II ma l’Olanda gli diede rifugio e negò l’estradizione agendo del resto con il sostegno unanime della dottrina dell’epoca. Pensiamo a Jellinek, Vittorio Emanuele Orlando e, ancora, a Levi. Anche se i sillogismi di Manzini appaiono come al solito i più chiari in negativo. Nella sua prospettiva che era, ricordiamolo, la prospettiva dominante del tecnicismo giuridico, sarebbe stato paradossale dal punto di vista della scienza del diritto mettere sullo stesso piano due concetti disomogenei come la responsabilità di diritto internazionale, propria degli Stati, e la responsabilità penale, propria degli individui 25.

Nel clima prodotto da questi dogmi del positivismo giuridico, il tribunale di Lipsia emise condanne molto lievi, successivamente condonate con l’amnistia del ‘23, ma non superò – e del resto ci si può chiedere come avrebbe potuto – l’impasse determinata dal principio del rispetto degli ordini ricevuti, fossero o no criminosi.

In realtà si venne fuori da questo vicolo cieco soltanto dopo la seconda guerra mondiale con il Tribunale di Norimberga il quale applicò un principio radicalmente diverso che si può riassumere così: l’esecuzione dell’ordine superiore non esonera dalla responsabilità ma può esclusivamente determinare una diminuzione di pena a patto che – dispone l’art. 8 della Carta di Norimberga – la giustizia lo richieda e cioè secondo una valutazione del tutto discrezionale del Giudice.

Ridefiniamo questo principio con terminologia un pò più tecnica: l’esecuzione dell’ordine superiore non può essere invocata come causa oggettiva o soggettiva di esclusione della responsabilità penale ma solo come circostanza attenuante della pena.

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