Sul problema internazionale penale *
di Gaetano Marini

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I

Ci si può chiedere se abbia senso interrogare oggi Kant ed Hegel per trarne strumenti più affilati di scavo attorno agli snodi attuali del problema penale. Non pensiamo genericamente all’inesauribile questione del problema della pena ma nello specifico al suo porsi e riproporsi in un ambito tematico quale il diritto internazionale penale, strutturalmente segnato dal dominio della complessità a causa delle inevitabili intersezioni di prospettive sovente incomunicanti che lo caratterizzano.

Questa potrebbe sembrare tuttavia una domanda provocatoria se si considera che la comunità dei giuristi da tempo percorre, con qualche sottolineatura ricorrente, la via del commiato da questi filosofi proprio sul terreno sintomatico della teoria della pena1; sintomatico per la istintiva propensione dei penalisti a costruire esegesi e dogmatica sulla personale ideologia della pena.

Così vi è chi non a caso, anche recentemente, nel mondo della prassi giudiziaria e sulla scia di opinioni ormai diffuse tra gli scienziati del diritto penale, formula un “ programma per la giustizia” propiziando l’abbandono definitivo delle concezioni kantiane ed hegeliane della pena come retribuzione (punitur quia peccatum est) in favore di un concetto esclusivistico di trattamento sanzionatorio come strumento di prevenzione generale ( punitur ne peccetur)2.

Ma ancora non a caso, vi è invece chi come Ricoeur , libero dai condizionamenti delle scuole penalistiche e con la radicale libertà del teoreta che penetra trasversalmente discipline altre, avverte l’esigenza di tornare a Kant ed Hegel per esplorare questo stesso terreno3. Anche se andando alla ricerca di elementi su cui riflettere per procedere oltre ed essenzialmente per problematizzare da punti di vista ulteriori lo scandalo della pena come sofferenza aggiunta alla violenza, ma potremmo dire con formula hegeliana, come nuova lesione4, che costituisce l’autentico enigma posto dall’esercizio del diritto di punire.

Ed ecco una prima risposta indiretta alle domande iniziali. Per questa via Ricoeur si interroga sulle possibili esplicazioni alternative all’affermarsi della potestà punitiva nel mondo contemporaneo, attingendo, da un ambito contiguo a quello internazionale penale, il contro-esempio della commissione “Verità e riconciliazione” dell’Africa del Sud. Nel quale prende corpo l’ipotesi che l’inusuale paradigma della giustizia restauratrice prevalga in uno specifico teatro operativo sui modelli tradizionali della giustizia puramente repressiva5.

Questi esiti stimolanti di una rilettura del problema penale, che prende le mosse da prospettive emblematiche del pensiero filosofico, rafforzano il dubbio implicito nelle brevi osservazioni appena svolte. Se cioè sia davvero cosi perentoria l’esigenza di un definitivo commiato da queste prospettive e se non sia anzi il caso di riattivarne il potenziale di senso, magari rifiutato solo per l’operare di schemi ideologici precostituiti circa il ruolo della pena.

Iniziando da Kant, ci si potrebbe chiedere se davvero la sua filosofia della pena non abbia più nulla da dire6.Basta rileggere alcuni passi della “Metafisica dei costumi”, molto noti e sovente svalutati come contenitori di formule vuote e scontate7, per rispondere a questo interrogativo individuando il nucleo di pensiero al quale si può attribuire senso anche e soprattutto nella nostra epoca incline alle violazioni dei diritti umani.

Ci riferiamo in particolare al passaggio in cui Kant applica al problema della pena la seconda formulazione dell’imperativo categorico per rifiutare ogni lettura utilitaristica dell’universo penale, ponendo un’equazione i cui termini essenziali possono essere riassunti così: la pena deve essere applicata a chi è colpevole di un delitto e non per un utile dell’individuo stesso o della società ma perché l’uomo non deve mai essere trattato come un puro mezzo8.

Si può liquidare così frettolosamente una concezione della pena come valore che, e perché, non va in cerca di giustificazioni ulteriori, ma nella quale è implicita l’apertura di un percorso speculativo che presuppone il riconoscimento della dignità dell’uomo come fine ed il conseguente rifiuto di ogni teoria che sacrifichi i diritti fondamentali sull’altare dell’interesse sociale? Forse la ragione del dissenso risiede nel fatto che in questo percorso non vi è evidentemente spazio per le concezioni preventive e defensionali della pena, nelle quali si annida il rischio della condanna esemplare ma ingiusta dell’incolpevole?

Certo Kant enfatizza inopinatamente questa scelta di campo giungendo persino ad affermare che la legge penale è un imperativo categorico, anche a costo di accettare il rischio della contraddizione9.

Parrebbe questa la ragione di un’incoerenza non solo definitoria rispetto alle premesse assunte, perché nel sistema kantiano, radicato sulla rigida separazione di morale e diritto, la legge dovrebbe essere classificata semmai al modo di un imperativo ipotetico. Ma quando si misura con la legge penale, che tutela beni universali di riferimento, Kant avverte inopinatamente l’esigenza di usare la terminologia forte e significativa dell’imperativo categorico, che nel sistema rimanda ad una dimensione penale come area densa di implicazioni tra essere e dover essere, fatto e idea. Appunto, tra diritto e morale.

In altre parole, ci sembra di poter trarre la conseguenza che questa dimensione, tanto ambigua quanto feconda, diventa luogo privilegiato di verifica per riconoscere, con l’autorità dell’imperativo categorico, che l’uomo è fine e non mezzo, soggetto e non cosa .

Ma non basta. Seguendo questo itinerario logico si può comprendere anche se non condividere l’assolutezza con cui Kant, per mettere una pietra tombale su ogni teoria relativa della pena, non esita ad affermare che la sola pena giusta in caso di omicidio è sempre e solo la pena di morte: “Anche quando la società civile si dissolvesse con il consenso di tutti i suoi membri… l’ultimo assassino che si trovasse in prigione dovrebbe venire giustiziato10. Una posizione che il filosofo difende, pour cause, prendendosela polemicamente con Beccaria il quale, sull’opposto versante utilitaristico, rifiuta la pena di morte negandone qualsiasi compatibilità con l’originario patto sociale11.

Concludendo dunque sul punto, potremmo dire, forse non tanto paradossalmente, che la via kantiana al riconoscimento della soggettività nel penale è tracciata, anche in negativo, grazie ad un argomento che appare dissonante rispetto alla sensibilità contemporanea ed ai valori espressi nella nostra costituzione, perché rimanda alla legge del taglione come criterio esclusivo di misura della pena con il suo terribile corollario della pena capitale.

Ci sembra cioè che, grazie alle aporie interne al sistema e nonostante gli esiti incondivisibili dell’itinerario kantiano, questo riconoscimento equivalga a porre un criterio regolativo di tutela dei diritti umani e quindi un punto fermo che difficilmente oggi potrebbe essere ignorato.

Resta da dire invece brevemente che la via tracciata da Kant è percorsa fino in fondo da Hegel. Ma non ci riferiamo all’applicazione in ambito penale del solito schema triadico della dialettica hegeliana, nel quale il diritto è la tesi; il delitto, che nega il diritto, è l’antitesi; la pena retributiva, come negazione della negazione, è la sintesi12.

Ciò che appare tuttora suscettibile di proiezioni paradigmatiche nella dimensione operativa del diritto penale, nonostante le diffuse critiche, è il concetto di pena come “diritto posto nel delinquente”13, in cui si esprime il paradosso hegeliano del diritto alla pena. Un paradosso che rimarrebbe irresolubile ed incomprensibile se fosse inteso alla lettera come puro diritto del delinquente alla espiazione14. Mentre appare il punto di arrivo della via kantiana al riconoscimento della soggettività nel penale se viene letto come diritto per nulla paradossale di chi delinque ad essere considerato soggetto libero e responsabile.

Le riflessioni che seguiranno presuppongono l’utilizzo di queste suggestive formule hegeliane, con una precisazione le cui ragioni di fondo dovrebbero emergere progressivamente. E, cioè, che coglierne la vitalità in una lettura di alcuni aspetti significativi della dimensione internazionale penale non equivale a condividere l’orizzonte teoretico nel quale esse sono iscritte.

II

Quando internazionalisti e penalisti si accostano al diritto internazionale penale ovvero al diritto penale internazionale come problema, beninteso, di diritto interno o di diritto internazionale, secondo la specifica prospettiva assunta, lo fanno ancora oggi con cautela utilizzando un lessico che tradisce un certo disagio di fondo se non l’eco di qualche pregiudizio risalente.

Chi tematizza la combinazione di penale ed internazionale senza riporre gli occhiali del giurista di settore finisce per parlare in modo abbastanza eloquente di antinomie strutturali , di un ibrido ovvero, con terminologia ancora più ricercata, di una sorta di ossimoro. Vale a dire, di una contraddizione che, nella figura retorica, diventa solo apparente ma si radica nel contrasto originario dei modelli di riferimento.

L’emersione degli interrogativi implicati da queste prime indicazioni esige evidentemente un attento lavorio di scavo alle radici del problema ma non ci si può davvero illudere di potere dare risposte definitive che non parrebbero ipotizzabili, come si vede, neppure dal punto di vista strettamente terminologico su materiali che presuppongono un intreccio quasi ingovernabile di saperi 15.

Questa consapevolezza non può d’altra parte impedire di prendere posizione ed anzi sollecita a prospettare una linea tematica di ricerca che prende le mosse dall’uso non casuale di una ambigua costruzione retorica per evidenziare la fecondità degli interrogativi sottostanti. Per chiarire, ecco la tesi che dovrà essere sottoposta a verifica, come il contrasto o, se si vuole, l’antinomia di penale ed internazionale appaia insanabile e renda incomunicanti questi universi giuridici artificialmente separati solo se si accetta in modo acritico una teoria della sovranità che viene da lontano. Perché in questa concezione del mondo che rimanda a Marsilio, Hobbes, Bodin, “le souverain c’est celui qu’ on ne contraint pas 16 », il sovrano è colui che non può essere obbligato, non riconosce alcuna autorità superiore, nulla deve ad altri e non dipende altro che dalla sua spada 17. Dunque, in ambito interno, e cioè nel territorio delimitato dalla gittata dei suoi cannoni, non può rinunziare all’esercizio della potestà punitiva che rappresenta l’aspetto più emblematico della sua stessa sovranità mentre, verso l’esterno, si trova in perenne contrasto con le analoghe pretese di chi egualmente è sovrano.

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