Enrico Opocher nella patavina Universitas Juristarum
di Francesco Gentile
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Enrico Opocher s’iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Padova nell’anno accademico 1931-32 e d’allora vi rimase legato istituzionalmente, come studente prima, come assistente volontario, straordinario e di ruolo poi, quindi come professore incaricato, straordinario, ordinario e fuori ruolo, per 59 anni, a cui andrebbero peraltro aggiunti i 13 anni dell’emeritato. Un caso più unico che raro nell’accademia italiana. La semplice cronaca di alcuni brevi segmenti di questa lunga storia costituirà il mio piccolo contributo al ricordo tanto ricco di spunti e di riflessioni.
Nel 1931 la patavina Universitas Iuristarum aveva come preside il grande Vincenzo Manzini che insegnava diritto e procedura penale; Marco Fanno insegnava economia politica, Donato Donati diritto costituzionale, Adolfo Ravà filosofia del diritto e diritto civile, Francesco Carnelutti diritto processuale civile, Giannino Ferrari dalle Spade diritto romano, Alberto Asquini diritto commerciale, Giovanni Salemi diritto amministrativo, Gaetano Pietra statistica, Anton Maria Bettanini diritto internazionale; tra i borsisti di internato, come si diceva allora, Enrico Guicciardi e Alberto Trabucchi.
Il giovanissimo Opocher s’era iscritto a Giurisprudenza per accondiscendere al desiderio paterno ma si sarebbe subito avvicinato agli studi di filosofia del diritto che corrispondevano alla sua originaria, personale, aspirazione e Adolfo Ravà sarebbe diventato, per sempre, il suo maestro. Da un lettera del 14 agosto 1934[1] si possono misurare la simpatia e la stima, ma soprattutto, la familiarità affettuosa che già intercorrevano tra il maturo docente e lo studente del terz’anno. “Caro Opocher – scrive Ravà – ho piacere che Lei si sia messo con interesse al lavoro; mi pare però alquanto prematuro che Lei voglia fin d’ora tracciare le linee fondamentali della sua esposizione. Ciò che ha pensato non può che valere in via provvisoria, e non è certo il caso di scrivere fin d’ora un’introduzione. Giusto è invece che Lei studi lo stato della questione della proprietà al tempo in cui Fichte inominciò a lavorare. Ma mi pare basti che Lei studi direttamente gli autori più vicini (da Rousseau in poi): per i precedenti può vedere le esposizioni che si trovano nelle parti speciali dei trattati di Filosofia del diritto (Ahrens, Lasson, Kohler, ecc.) salvo controllare i testi ove tali esposizioni non le sembrino sufficienti. Quanto allo sviluppo del pensiero stesso di Fichte, bisogna naturalmente veder tutto e non è da credere, come Lei accenna, che il suo Stato commerciale chiuso ne rappresenti il pensiero definitivo. Negli ultimi 13 anni della sua vita Fichte non può non aver continuato a riflettere sui problemi della proprietà, e bisogna specialmente esaminare i suoi corsi di lezioni degli anni 1810 e seguenti. Spero che queste indicazioni le siano sufficienti per ora. Potremo poi discutere a voce”.
Le poche righe di una lettera familiare offrono icasticamente lo spaccato di una università “vera”, con veri maestri e veri scolari, che non può non attrarci stanti le misere condizioni della “nostra” università. Quando il giovanissimo Opocher ne divenne allievo, Ravà era nel pieno della maturità. “Uno degli ultimi completi rappresentanti di quella severa cultura di ispirazione tedesca che, specie nel campo della filosofia ed in quello del diritto, aveva aperto in Italia le vie di un decisivo progresso”[2]. Con le sue due opere maggiori, dedicate a Il diritto come norma tecnica e a Lo Stato come organismo etico[3], rappresentava icasticamente “una specie di ponte di passaggio sulla linea di sviluppo che in Italia come in Germania stava allora portando la filosofia del diritto e dello stato dal neokantismo al neoidealismo”[4]. In realtà, il motivo più fecondo della sua concezione del diritto e dello stato stava altrove e più precisamente nel fatto che, seppur legata com’era al normativismo e allo statalismo, essa costituiva un “geniale” tentativo di aprire il mondo del diritto e dello stato ad una concreta orientazione etica, in scoperta polemica, “da un lato contro la vanificazione del diritto e l’assolutizzazione dello Stato intraprese allora in nome di un’artificiosa concretezza etica dal neoidealismo, dall’altro contro il formalismo e la concezione individualistica della società prevalenti nel neokantismo”[5]. In virtù di che cosa questa originale, e scomoda, posizione era sostenibile? La risposta è semplice: in virtù della sua “passione” per Fichte. Ebbene, a saggiare l’efficacia di questo tentativo sarebbe stato il giovane Opocher, con le sue ricerche e i suoi “pensieri” su Fichte.
Nel luglio del 1935, Opocher si laurea con lode in Giurisprudenza, discutendo con Ravà la tesi, appunto, su La proprietà nella filosofia del diritto di G. A.. Fichte.
Nell’agosto del 1937, divenuto assistente volontario di filosofia del diritto, presenta al IX° Congresso Internazionale di Filosofia (Congrès Decartes), una relazione su Immanentismo ed eticismo nella Wissenschaftslehre di Fichte”. Anche questo passo è seguito con premura e discrezione dal maestro che, alla vigilia della partenza per Parigi, incoraggia l’assistente: “Ho letto la Sua relazione per il congresso di Parigi, e ne sono contento. L’impostazione è felice, ed è anche esposta bene e chiaramente. La soluzione credo anche che sia giusta, almeno come orientamento; ma l’esposizione ne è un po’ confusa. In una redazione definitiva dovrebbe cercare un grado maggiore di chiarezza (..). Ho piacere comunque che Lei abbia preparato una relazione che interesserà. Specialmente interesserà il prof. Medicus, a cui scriverò che anche Lei va a Parigi, come lo scriverò a Brunschwicg”[6]. E, al ritorno, dimostra di apprezzarne il resoconto: “La ringrazio della Sua lettera e degli interessanti ragguagli, e mi congratulo per il Suo scontro filosofico con P. Boyer nonché per il filosofico banchetto in casa di Brunschwicg, a cui piace fare il pezzo grosso, ma che è una cara persona e mi è affezionato. Ho piacere anche che sia stato con Medicus. Questi mi ha mandato la sua comunicazione, bella e importante. Non l’ha sentita? E c’è stata discussione?”[7]. Sarebbe superfluo ricordare chi fossero il Padre Charles Boyer, Leon Brunschwicg e Fritz Medicus.
Nel 1942, con l’ampio saggio su Il superamento fichtiano dell’individualismo nell’interpretazione di G. Gurvitch [8], apparso nel ‘40 sulla “Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto” di Giorgio Del Vecchio, Opocher consegue la libera docenza in filosofia del diritto.
Il volume su G.A. Fichte e il problema dell’individualità del 1944[9], l’ottavo della Collana delle Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, corona la prima fase degli studi di Enrico Opocher portandolo alla cattedra nel 1948.
Nella seduta del 30 novembre 1948, il Consiglio di Facoltà, composto dai professori Aldo Checchini, Marco Fanno, Antonio Répaci, Gaetano Pietra, Carlo Esposito, Enrico Guicciardi, Rolando Quadri, Alberto Trabucchi e Pasquale Voci, su proposta del Preside Checchini, procede unanime alla chiamata di Opocher a ricoprire l’insegnamento di Filosofia del diritto, lasciato vacante da Norberto Bobbio, trasferitosi da mesi nella sede di Torino, utilizzando la cattedra in soprannumero di Ravà che, rientrato in ruolo dopo la triste vicenda dell’allontanamento dall’Università a causa delle leggi razziali, era stato chiamato a Roma. Anche di questo marchingegno burocratico si trova traccia in una affettuosa lettera di Ravà[10].
Nella motivazione della delibera, la Facoltà significativamente riprende un passo del giudizio della Commissione di concorso, che aveva riconosciuto in Opocher “uno studioso che sa mettersi con grande sincerità ed immediatezza nel centro dei problemi filosofici, che profondamente vive e che cerca di risolvere con autonomia di pensiero, sempre mostrando di conoscerne profondamente lo svolgimento storico ed i precedenti”[11]. Il giorno prima, il 29 novembre 1948, era stato chiamato a ricoprire la cattedra di Istituzioni di diritto privato Luigi Carraro.
Non rientra nell’economia di questo ricordo un’analisi degli studi fichtiani di Opocher, è tuttavia necessario farvi un rapido riferimento per intendere il taglio del suo rapporto con l’esperienza giuridica nella Facoltà patavina.
Ponendo al centro del pensiero fichtiano il problema concreto dell’individualità, Opocher porta un contributo fondamentale alla storiografia su Fichte, come peraltro risulta da tutti gli scritti successivi sull’argomento, ma soprattutto getta le basi teoretiche del suo, proprio, pensiero. Scrive: “Il problema di Fichte è il problema della coscienza contemporanea. Le vie tentate dal pensiero fichtiano per risolverlo si sono incarnate, attraverso la mediazione di altri pensatori e di altre dottrine, da Hegel a Nietzsche, dall’individualismo allo statolatrismo, dal nazionalismo all’internazionalismo, nella storia contemporanea ed il loro fallimento teorico si è incarnato nel fallimento pratico implicito nella crisi della vita contemporanea. Il pensiero fichtiano –conclude Opocher – ci mostra, come racchiuse in una vivente unità, le profonde ragioni della crisi del nostro tempo – non si dimentichi la data dello scritto: 1944 – ed il suo fallimento ci ammonisce come non sia possibile superare questa crisi senza spezzare le catene del razionalismo”[12]. Spezzare le catene del razionalismo diventa, d’allora, l’impegno costante e continuo dello studioso e del docente. Di questo il riflesso più diretto sugli studi di filosofia del diritto si concreta nel rifiuto di “una concezione della filosofia del diritto come mera e meccanica applicazione dei principi di questo o quel sistema filosofico alle schematiche costruzioni dei giuristi”[13], nella quale peraltro Opocher crede di riconoscere anche il motivo profondo, e giustificato, della diffidenza dei giuristi nei confronti dei filosofi del diritto[14]. E, d’altro lato, connota, in maniera inconfondibile, il suo rapporto con la scienza giuridica della quale valorizza “la consapevolezza della propria inerenza al movimento concreto dell’esperienza giuridica e quindi delle necessarie connessioni che alla filosofia del diritto la legano, attraverso una profonda riflessione sulla logica della propria metodologia”[15]. e mediante il riconoscimento della “impossibilità di (..) prescindere dalla consapevolezza del valore che sorregge il mondo del diritto”, ossia della giustizia. Quando scrive questo Opocher fa esplicito riferimento alla Metodologia del diritto di Francesco Carnelutti[16] e alla rivista “Justitia”, organo comune dei giuristi cattolici[17]. Ma sono evidenti le traccie profonde lasciate sul suo pensiero dall’incontro, breve ma intensissimo, con Giuseppe Capograssi, che a Padova aveva tenuto l’insegnamento di filosofia del diritto per due anni, 1938/40, dopo Ravà e prima di Bobbio.