Sul “giusto processo”
ovvero della giustizia e della verità nel processo*
di Elvio Ancona

Si affaccia qui il concetto di “verità probabile”, da intendersi come la verità dell’ipotesi ricostruttiva dell’avvenimento concreto in questione che, allo stato delle conoscenze, più probabilmente corrisponde alla realtà[76]. Tale verità deve peraltro poter essere individuata ed è a questo proposito che proprio l’esistenza di diversi possibili gradi di probabilità nel giudizio sul fatto pone il problema delle modalità della sua determinazione.

Tuttavia, se, come ritiene un importante orientamento giusanalitico[77], una concezione neutrale del significato della verità lascia sicuramente impregiudicata l’identificazione dei criteri epistemici, delle tecniche cognitive, delle procedure di conferma degli enunciati, non si può dire altrettanto di una concezione corrispondentista. In particolare, come, in campo penale, potrebbe ad essa risultare indifferente il sistema probatorio adottato? E’ del tutto evidente, infatti, che tra i metodi impiegati per conseguire l’accertamento della colpevolezza, andrà preferito quello che più si mostra in grado di pervenire ad un giudizio sull’ipotesi accusatoria rappresentativo di quanto realmente accaduto. «Il richiamo alla verità come corrispondenza, – scrive Ferrua – focalizzandosi sulla relazione dell’enunciato vero, non con altri enunciati, ma con ciò su cui esso verte, di cui esso è vero (nel processo, i fatti dell’imputazione), può concorrere ad orientare in questa direzione i criteri epistemici, evitando pericolosi sbandamenti: sia per il legislatore che deve, nella disciplina del procedimento probatorio, conciliare il valore della verità con altre esigenze, sia per il giudice all’interno delle regole legali»[78].

7. Il contraddittorio quale metodo di ricerca della verità – Che cosa pensare allora del contraddittorio quanto alla sua idoneità a favorire la ricerca di una verità intesa come corrispondenza con la realtà? Ebbene, non sono pochi a ritenere che, se la verità deve essere intesa come corrispondenza con la realtà, proprio il contraddittorio nella formazione della prova rappresenti non solo una imprescindibile garanzia della giustizia processuale ma anche il miglior metodo per conseguire il suo accertamento.

Non può certo stupire che nella dottrina di common law sia diffusa la convinzione secondo la quale – scrive Taruffo – «l’adversary system rappresenterebbe il metodo giudiziale più efficace per la scoperta della verità, in quanto si ritiene più probabile che questa scaturisca dal libero gioco delle parti individualmente interessate a porla in evidenza, che non dall’iniziativa di un giudice che sarebbe mosso soltanto dal dovere d’ufficio»[79]. La frase di Wigmore per cui la cross-examination «is beyond any doubt the greatest legal engine ever invented for the discovery of truth»[80] non è che una tra le innumerevoli testimonianze dell’apprezzamento incondizionato riscontrabile nella letteratura anglo-americana per tale istituto.

Meno scontato il nuovo orientamento determinatosi all’interno di una dottrina, quella italiana, immersa in una cultura giuridica di antica tradizione inquisitoria, per la quale una fedele ricostruzione dei fatti controversi sarebbe inevitabilmente ostacolata dalle procedure garantistiche del contraddittorio tra le parti. Di fronte a questa concezione si staglia, ad esempio, la tesi di Ferrua: «L’impegno, il punto da ribattere sarà allora questo: la ‘ricerca della verità’, avvertita dalla coscienza sociale come valore irrinunciabile, è agevolata e non ostacolata dal contraddittorio; non perché esso garantisca la genuinità della prova, ma perché è il miglior mezzo per verificarla, per scoprire se difetti. Non è l’idea chimerica e platonica di una verità fondata sul buon volere delle parti, sulla loro disinteressata azione (che non si può certo pretendere dall’imputato, almeno quando sia colpevole). E’ il principio, su cui si regge anche l’indagine scientifica, che un’ipotesi è convalidata solo se resiste ai più severi tentativi di confutazione; e confutare una testimonianza vuol dire controinterrogare il teste, non discutere se sia vero o falso quanto egli abbia altrove dichiarato»[81]. Giostra ne ha illustrato efficacemente le ragioni: «Se l’esperienza giuridica nella sua dimensione processuale è scientia probabilis… non sulla logica dimostrativa essa potrà fondarsi, bensì sul metodo dialettico, sulla contrapposizione delle opinioni»[82]. Come scriveva Giuliani, infatti, «non è possibile nessuna forma di conoscenza nel dominio del probabile, ignorando le opinioni altrui»[83], evitando di confrontarsi con le posizioni contrastanti[84]. Perciò, dato il carattere probabile della verità processuale, si è potuto concludere – con le parole di Pastore – che «la controversia è… via della verità»[85].

Ma questa consapevolezza non si ritrova solo nella pur autorevole dottrina richiamata. Essa pervade perfino la giurisprudenza della Corte Costituzionale ben da prima che venisse approvata la riforma dell’art. 111. Già nel corso degli anni ’70 e ‘80, in una serie di pronunce sui profili probatori dell’accertamento fiscale nella disciplina delle locazioni, la Corte aveva ripetutamente sostenuto che «la tutela giurisdizionale sul diritto controverso deve essere pienamente garantita dal regolare contraddittorio e dalla ammissione della prova contraria, che rappresentano mezzi essenziali per la ricerca della verità e per l’attuazione della giustizia»[86]. E anche durante la fase degli interventi “correttivi” sul nuovo codice di procedura penale non sono mancate affermazioni inequivoche sul punto. Il Giudice delle leggi, infatti, nella sopracitata sentenza n. 255 del 1992, non esita a riconoscere che «il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all’esigenza di ricerca della verità»[87]. Certo, sappiamo anche che nella stessa decisione la Corte aveva ritenuto che il “principio-guida dell’oralità” dovesse essere contemperato col “principio di non-dispersione dei mezzi di prova”, in modo da evitare la dissipazione di elementi probatori, acquisiti nel corso delle indagini preliminari, suscettibili di rivelarsi determinanti per l’accertamento dei fatti. Ancora più significativa in tal senso è la sentenza n. 111 del 1993, in cui si precisa che la dialettica del contraddittorio dibattimentale può venire accolta “in un ordinamento improntato al principio di legalità” solo in quanto finalizzata alla ricerca di una verità intesa proprio in termini corrispondentistici: «il metodo dialogico di formazione della prova – osservava la Corte – è stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto più possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verità formale, risultante dal mero confronto dialettico tra le parti, sulla verità reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo»[88]. In quest’ottica, dunque, le limitazioni introdotte dalla Corte alla piena applicazione del principio del contraddittorio, si giustificavano precisamente nella misura in cui tale applicazione, precludendo l’acquisizione di elementi probatori rilevanti, sembrava poter pregiudicare un’attendibile ricostruzione del fatto controverso.

Con la sanzione costituzionale del principio anche tali limitazioni sembrano essere venute meno. Paradigmatico è in questo senso un passo della sentenza n. 32 del 2002, in cui, facendo appunto riferimento al quarto comma dell’art. 111, si afferma che «da questo principio, con il quale il legislatore ha dato formale riconoscimento al contraddittorio quale metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio, deriva quale corollario il divieto di attribuire valore di prova alle dichiarazioni raccolte unilateralmente dagli organi investigativi (ed eventualmente anche dal difensore)»[89]. Proprio per la riconosciuta funzione cognitiva del contraddittorio, dunque, non può essere attribuito valore probatorio al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti. La Corte, pertanto, senza rinnegare il proprio precedente orientamento, ne precisa il senso: il contraddittorio non è appena uno strumento per la ricerca della verità nel processo, compatibile e contemperabile con altri strumenti e metodi, ma è “lo” strumento, “il” metodo, l’unico possibile. Le previste eccezioni[90] – questa volta è proprio il caso di dirlo – confermano la regola.

8. Conclusioni provvisorie – La conclusione raggiunta ci permette di tentare un bilancio provvisorio dell’indagine fin qui condotta. Il nesso inscindibile tra verità intesa come corrispondenza con la realtà e contraddittorio quale metodo della sua ricerca è stato – a questo punto del discorso – mostrato, ma non ancora dimostrato[91]. Ma ciò che è stato mostrato comporta comunque alcune importanti acquisizioni…

Innanzitutto abbiamo visto che, affinché il processo – ogni tipo di processo, e non solo quello penale – possa dirsi realmente “giusto”, è necessario che la decisione che lo conclude si fondi su un accertamento “veritiero” dei fatti controversi.

Abbiamo visto però anche come proprio la discussione sviluppatasi in Italia intorno alla formazione della prova nel processo penale dimostri non solo che di verità, in ambito giudiziario, si può ancora parlare ma che, almeno nel caso di tale processo, la verità ne costituisca addirittura il “fine primario e ineludibile”.

Abbiamo visto poi che il processo penale dimostra altresì l’attualità della concezione classica della verità come corrispondenza con la realtà e che la verità, in tale veste, funge da principio orientativo e discriminativo delle conoscenze provvisorie acquisite nel corso del processo.

E infine abbiamo visto che proprio perché la verità deve essere intesa come corrispondenza con la realtà, il suo accertamento richiede il metodo dialettico del contraddittorio nella formazione della prova.

Esiste infatti un’implicazione reciproca tra ricerca della verità dei fatti e principio del contraddittorio, un’implicazione per cui il contraddittorio, attraverso il controllo dialettico delle opposte versioni delle parti, permette di selezionare gli elementi probatori che presumibilmente conducono alla verità e tale verità, a sua volta, si manifesta più facilmente allorquando, tramite apposita confutazione, il campo d’indagine sia stato liberato da tutte le ricostruzioni che si sono rivelate insostenibili.

L’esito della ricerca della verità condotta in contraddittorio è il giudizio di fatto[92]. Ed è in esso che non a caso ritroviamo l’implicazione. Il giudizio di fatto non dice necessariamente la verità, ma, in quanto costituisce l’esito conseguente del contraddittorio, esprime la rappresentazione della realtà che più probabilmente corrisponde alla verità. Nell’assertorietà del giudizio che pone fine alla controversia se ne fissa così la soluzione, il termine, un termine tanto evidentemente provvisorio quanto ineludibilmente necessario se, nella pur incompiuta ricerca della verità, si è potuto tuttavia conseguire il miglior risultato possibile, perlomeno rispetto alle conoscenze possedute.

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