Il problema del metodo del diritto [1]
di Federico Costantini

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1.- Rilevanza del problema del metodo

2.- Tra legalismo (etico) e retorica (sofistica)

2.1.- Il legalismo

2.2.- La retorica sofistica

2.3.- Tertium (non) datur?

3.- Metodo, diritto & giustizia

3.1.- La giustizia come struttura fondamentale
della natura umana

3.2.- «Il diritto, in un certo senso, è metodo»

3.3.- «Il diritto, in un certo senso, è dialettico»

4.- Conclusione: dialettica e metodo giuridico

 

1.- Rilevanza del problema del metodo.
Tradizionalmente si distinguono due interrogativi intorno al diritto: il “quid jus?” concerne la sua realtà imprescindibile, o essenza; il “quid juris?” riguarda la soluzione delle controversie giuridiche.

Dobbiamo confessare che nella pratica quotidiana la prima questione tende ad essere trascurata. È molto difficile che il cliente chieda cosa sia il diritto: egli si rivolge al professionista per avere un diritto.

Da un punto di vista limitato a tale prospettiva, ciò potrebbe condurre a svalutare l’importanza della prima questione. Alcuni potrebbero sostenere che conoscere l’essenza del diritto sia perfettamente inutile per operare con esso, anzi, il vero diritto si potrebbe cogliere esclusivamente nella sua dimensione pratica, non in quella teorica, tanto meno in quella filosofica.

Non si può negare che il diritto sia ben legato alla realtà delle cose. Il problema è che di queste ultime non si può avere una visione meramente operativa. Sarebbe estremamente semplicistico.

Anzitutto, non si può trarre pienamente vantaggio da uno strumento che non si conosce. Non si può semplicemente usare un oggetto. È necessario comprenderne il funzionamento, rispondere alla domanda «come si usa?», la quale a sua volta non può prescindere dalla soluzione del quesito «cosa è?».

Notiamo in secondo luogo una contraddizione. Chi a parole svaluta il discorso filosofico, nei fatti filosofeggia: da una parte si delegittima un discorso sulla realtà del diritto, dall’altra si afferma nel diritto una determinata qualità (il suo “essere pratico”).

Vi è un’ulteriore ragione per sostenere che un giurista non dovrebbe ridurre il diritto alla sua dimensione operativa, al mero fare. Esiste un terzo interrogativo irriducibile al semplice «quid juris?», come conferma anche l’esperienza concreta. Pare ovvio infatti sottolineare che il cliente non chiede al giurista una qualunque soluzione al suo problema giuridico, bensì soltanto quella corretta. Diventa fondamentale comprendere perché una determinata risposta sia migliore di un’altra.

Il problema inerente alla correttezza della soluzione riguarda propriamente il metodo giuridico. Poiché, almeno per i tre motivi sopra descritti, non possiamo prescindere da un discorso intorno all’essenza del diritto, occorre ammettere che la metodologia riflette l’intrinseca connessione tra le due domande precedentemente delineate: la correttezza metodologica presuppone l’esatta soluzione al «quid jus?» filosofico ed implica, o per certi versi garantisce, una buona impostazione al «quid juris?» pratico relativo al caso concreto[2].

Detto brutalmente: se non si conosce la realtà del diritto non si può degnamente affrontare un problema giuridico, né sperare di risolverlo. Senza criterio di valutazione sulla correttezza delle risposte, il giurista non potrebbe che rimanere muto davanti all’interlocutore invece di rispondere a dovere, oppure sarebbe costretto a fornire un ventaglio di soluzioni talmente ampio da non offrire alcuna indicazione di condotta al cliente: fornirebbe una prestazione professionale insoddisfacente in entrambi i casi.

Vi è anche il rischio opposto, beninteso. Alla medesima conseguenza – la soluzione errata – condurrebbe altresì una risposta dedotta da una determinata visione del diritto assunta a priori per ragioni meramente ideali. Chi perde il contatto con la realtà, sbaglia.

Banalmente, per «vincere le cause» evidentemente è necessario studiare «come è il diritto» – le regole coinvolte nella controversia – ma anche «come si vincono le cause» – il metodo -. Per raggiungere tale consapevolezza è parimenti indispensabile conoscere «cosa significa vincere le cause» – l’essenza del diritto -.

Meno banalmente, se è umano riflettere sulla propria vita, chiunque svolga una professione legale prima o poi non può esimersi dall’interrogarsi sul significato e sul valore dell’esperienza giuridica. Ci sono alcune domande a cui il giurista non può sottrarsi. Può essere corretta una soluzione ingiusta? Può essere ingiusto il diritto? Cosa è la Giustizia?

2.- Tra legalismo (etico) e retorica (sofistica)
Possiamo distinguere due posizioni dogmatiche piuttosto comuni in ordine al problema del metodo: il legalismo e la retorica sofistica[3].

Tracciamo di seguito un breve schema esplicativo delle proposte teoriche e metodologiche, proponendo al contempo una sintesi delle relative obiezioni opponibili.

2.1.- Il legalismo
Definiamo il legalismo in questa sede – semplificando – come la versione rigorosa del principio di legalità: secondo tale visione, la legge non solo esaurisce il diritto, come propone il principio citato, ma anche ogni giudizio di valore. Per chi sostiene la legalità, «il diritto è la legge»: la forma qualifica la giuridicità di una regola, pertanto ciò che non ha la validità di legge, non è diritto. Il legalismo compie un passo ulteriore, giungendo al formalismo: la legge, in quanto tale, è giusta, o meglio, la legge è sempre giusta, è Legge[4]. Si può dire in sintesi: «la giustizia è la Legge».

Se può apparire comodo identificare Giustizia e Legge, la semplificazione legalistica potrebbe sembrare ancor più vantaggiosa per i suoi risvolti prettamente operativi: com’è noto, il positivismo risolve il «quid juris?» con il procedimento logico del sillogismo deduttivo[5].

In astratto, l’errore sarebbe impossibile: il ragionamento giuridico è concepito come un perfetto calcolo algebrico. In concreto, sarebbe sufficiente aprire i fascicoli processuali per confutare tale assunto, ma può essere utile svolgere due considerazioni teoriche. L’ordinamento giuridico, per poter essere geometricamente applicato[6], necessita anzitutto di una formalizzazione linguistica che è inconcepibile[7]. In secondo luogo, esso richiede l’ulteriore requisito della omnicomprensività, la quale non è che un’opzione ideologica[8]: la realtà dei fatti è che i mutevoli rapporti umani superano la fantasia di ogni legislatore.

Ma non è questo il punto d’interesse: se anche il metodo sillogistico fosse sempre praticabile, sarebbe comunque troppo alto il prezzo da pagare come contropartita.

Anzitutto, l’identificazione tra diritto e legge contraddice la stessa esperienza giuridica. La pur diffusa mentalità positivistica non tiene conto della struttura dell’ordinamento vigente, in cui non si può negare giuridicità a fenomeni niente affatto normativi come consuetudine[9], equità[10], autonomia privata.

In secondo luogo, il legalismo riduce al silenzio il dialogo tra giudice e parti. Se si aderisce all’opinione secondo cui l’operatività delle norme è demandata ad un rigido meccanismo algoritmico qual è il sillogismo, si deve coerentemente negare intelligenza giuridica in chi instaura la lite ed in chi la decide. I giudici diventano semplici esecutori, ingranaggi dell’applicazione normativa, la «bocca che pronuncia le parole della legge, esseri inanimati che non possono moderare né la forza né il rigore di essa»[11]. Pertanto, nel processo viene a mancare una vera controversia in punto di diritto: la discussione non può che rimanere saldamente vincolata ad un’unica voce, quella secca e tagliente della voluntas legis.

In terzo luogo, il fondamento razionale del diritto è sostituito da quello autoritativo. Se è vero diritto soltanto il comando del legislatore, per l’avvocato non esistono argomenti contro la sua imposizione, quindi la stessa attività forense viene confinata nell’angusto spazio della mera allegazione istruttoria.

Infine si delinea il difetto più grave di tale opinione. Assumere che la Legge sia sempre giusta significa avvalorarne i precetti a prescindere dal loro contenuto, rinunciando alla propria coscienza critica. Non è necessario ricordare le passate leggi razziali. Norme ingiuste, che ripugnano la coscienza umana, sussistono anche nel nostro tempo: davanti ad esse un uomo non può rimanere indifferente.

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