Enrico Opocher [1]
di Francesco Gentile
Vent’anni dopo e, ripeto, quali anni! Il 17 giugno del 1984, Opocher tiene in Palazzo Ducale il discorso dell’adunanza solenne su “La storiografia della resistenza italiana ed i suoi problemi” e traccia un bilancio critico delle interpretazioni che nel corso di un quaratennio sono state date di quella che si può considerare come la matrice della vita repubblicana in Italia, articolato in tre punti.
Riconosciuto come “vi sia un rapporto strettissimo tra la storia della Resistenza e quella dell’antifascismo” – afferma innanzitutto Opocher – dobbiamo guardarci bene dal confondere la storia della Resistenza con la storia dell’antifascismo e dei suoi partiti. Vi è, infatti, nella Resistenza una radice assolutamente autonoma ed inconfondibile ed una simile confusione, molto chiaramente avvertibile nella più recente storiografia, ha un carattere fortemente deviante”[52]. Il problema della genesi della Resistenza, per il filosofo, non può risolversi in termini meramente ideologici ma deve passare attraverso il riconoscimento della verità dei fatti e “la Resistenza – scrive – è stata alle sue origini un fatto assolutamente spontaneo”[53], di sbandati del regio esercito, di giovani desiderosi di sottrarsi al reclutamento o ai campi di concentramento, di militari alleati che volevano sfuggire alla cattura, di perseguitati, politici o razziali, di parroci di campagna, tutti sorretti dalla “volontà di non rimanere solo spettatori di una lotta crudele che aveva come posta la libertà” e dal convincimento che “la fine della guerra fosse vicina”[54]. In secondo luogo, continua Opocher, è necessario rivedere la storiografia della Resistenza a proposito del problema della composizione sociale delle formazioni militari. Ed anche in questo caso, resistendo a rappresentazioni ideologicamente colorate, egli afferma la necessità di riconoscere il fatto dell’estrazione prevalentemente contadina del movimento, per non darne un’interpretazione distorta e deformante. “Che la vasta adesione dei giovani contadini alla Resistenza segni un’importante svolta nella situazione d’inerzia politica e sociale che caratterizza l’atteggiamento contadino sotto il fascismo (…) è certamente vero. Ma che vi siano state motivazioni sociali ed, anzi, di lotta di classe nel fenomeno considerato non ci sembra proprio sostenibile”. Che quanti parteciparono al movimento fossero consapevoli “del nesso intercedente tra l’ordine imposto dai regimi totalitari, le avventure militari per conquistare un posto al sole e fondare un anacronistico impero e lo scoppio della seconda guerra mondiale” e sapessero “di dovere proprio a questa connessione gli anni di umiliazione e di pericoli trascorsi sotto le armi in lontani paesi stranieri, lontani dalla propria terra e dalla proprie famiglie”, è innegabile. “Ma questo – conclude Opocher – non significa affatto ‘lotta di classe’”[55]. Quanto al terzo punto il filosofo esprime le sue riserve sull’interpretazione della Resistenza come “rivoluzione mancata”, riflettendo sul fatto che di unitario nel movimento “v’era solo il ‘negativo’ e cioè la volontà disperata di cambiare e di distruggere tutto ciò che aveva portato alla guerra”[56]. Mentre si dichiara in accordo con la storiografia più recente che riconosce nella Resistenza una delle radici della Costituzione repubblicana e, quindi, dell’edificazione del nuovo stato italiano, tuttavia deprecando che “la retorica della polemica politica attenui il fatto che la Costituzione repubblicana nasce direttamente dalla volontà di tutto il popolo italiano indipendentemente dalla sua partecipazione alla Resistenza” e sottolineando come, “sia pur paradossalmente attraverso l’aspra contrapposizione di una guerra civile, la Resistenza rappresenti nella storia d’Italia il veicolo attraverso il quale si compie finalmente l’unità politica degli italiani”[57]. Ed è significativo che il filosofo appoggi la sua argomentazione proprio sulle “sporadiche pubblicazioni che avevano accompagnato la Resistenza e ai primi ‘consuntivi’ che l’avevano seguita” ma soprattutto sulle “toccanti Lettere dei condannati a morte che – scrive – costituiscono indubbiamente le pagine più alte della letteratura della Resistenza”[58].
A distanza di tanti anni e di tanti drammi, collettivi e personali, la descrizione che Opocher fa degli avvenimenti tragici di cui è stato testimone ed attore richiama suggestivamente quello che egli, in uno scritto [59] commovente sul concetto manzoniano di “povera gente”, ha detto della descrizione della fame, della guerra e della peste fatta dal grande romanziere. “È priva di dimensioni ‘ideologiche’ perché la risoluzione del conflitto tra oppressi ed oppressori e, in definitiva, tra ‘povera gente’ e ‘signori’, è affidata alla Provvidenza, alla Provvidenza che opera sì attraverso gli uomini, ma senza travolgerne la libertà e, quindi, senza chiudere il processo antinomico della storia”[60].
I due discorsi tenuti all’Istituto Veneto, che per la complessità dell’architettura e l’ampiezza degli argomenti ben potrebbero dirsi in nuce due trattati, uno teoretico ed uno storiografico, rappresentano esemplarmente il modo in cui Opocher ha inteso si dovesse esercitare il compito del filosofo del diritto di fronte ai tumulti della crisi, culturale, politica, economica, giuridica, della società in cui vive. Ricercando al di là del contingente l’essenziale, al di là dell’opinabile il vero, al di là del legittimo il giusto. “Al di là” nel senso di “attraverso”; metá tà physiká. Con un’originalità che sarebbe riduttivo definire contro corrente o eccentrica o fuori moda, essendo un po’ tutto questo ma assai di più, e soprattutto che non si lascia ridurre a nessuna delle categorie polverose della classificazione scolastica del pensiero[61].
Il discorso ritorna così al punto da cui aveva preso le mosse, alla recensione di Bobbio, alle sue pungenti perplessità di razionalista per la professione di fede irrazionalistica che credeva di riconoscere nella “metafisica della vita” di Opocher. Per constatare un paradossale rovesciamento delle parti. Se consideriamo infatti come si è prospettata, nei sessant’anni passati d’allora, la filosofia del diritto in Italia, non possiamo non constatare come Bobbio si sia andato progressivamente affermando come il punto di riferimento per quanti tra i giuristi si sono collocati nell’orbita tracciata dal brocardo hobbesiano “Auctoritas non veritas facit legem”, sostenendo il valore puramente formale del diritto e l’assurdità[62] d’ogni teoria della giustizia, posto che “diverse formule di giustizia corrispondono a diverse situazioni di fatto”[63]. Di fronte all’esito nichilistico[64] dello storicismo filosofico, spiritualistico o materialistico che fosse, e del formalismo giuridico, positivistico o idealistico poco importa, a quanti non se la sentivano di lasciarsi fagocitare da quello che acutamente Paolo Grossi ha definito “assolutismo giuridico”[65] Opocher è apparso come un’alternativa realistica, indipendentemente dalle particolari opzioni ideologiche, e da lui si sono sentiti sostenuti nel convincimento che, per usare le parole di Capograssi, “la verità deve essere riconosciuta e che la verità (…) è la madre della giustizia”[66]. Con gli occhi dell’anima guardando dove gli occhi del corpo non riescono a penetrare. Quest’alternativa, ad un’attenzione non compromessa da pregiudizi ne offuscata dalle apparenze, si profila nitidamente, oggi, anche nella nuova storiografia, com’è, ad esempio, nella nota[67] del giovane Federico Casa, che di quei grandi potrebbe essere considerato come un “nipote”, accolta dall’Istituto Veneto nei suoi Atti lo scorso anno a pochi giorni dalla morte di Enrico Opocher, avvenuta il 3 marzo del 2004.
Taluno lamenterà l’assenza, in questa commemorazione, di ogni riferimento o ricordo personale. E non avrebbe torto. Ma c’è anche qualche ragione. L’allievo ha temuto d’essere travolto dai ricordi personali, se vi si fosse lasciato andare, e soprattutto ha temuto di non mantener fede al legato fondamentale del Maestro, quello di studiare per raccoglierne la lezione. La cosa apparirebbe immediatamente evidente a chi avesse presente il frontespizio delle tante Lezioni pubblicate dal professor Opocher, dove appare la formula, minimalista ma indicativa: “Raccolte ad uso degli studenti dall’Assistente”. Ecco così la parte generale di Filosofia del diritto[68], raccolta da Luigi Caiani, o quella di Storia delle dottrine politiche [69], raccolta da Dino Andreoli e Dino Fiorot. Ecco le lezioni sulla natura della giurisprudenza [70], raccolte da Caiani e da Renzo Piovesan, o sulle ideologie politiche della città greca dalla civiltà omerica alla rivoluzione illuministica del V Secolo[71], raccolte da Francesco Gentile e da Carlo Pincin. Ecco quelle sull’ideologia politica del Popolo d’Israele secondo la tradizione biblica[72], raccolte da Alberto Andreatta, o su la realtà giuridica e il problema della sua validità, raccolte da Franco Todescan[73], oppure quelle sul totalitarismo [74], raccolte da Bruno Barel e da Giorgio Raccis. Chiunque abbia fatto l’esperienza di raccogliere le lezioni del maestro, da assistente ad uso degli studenti, ha conosciuto l’Universitas Studiorum nella sua classicità di luogo privilegiato dove la ricerca e l’insegnamento sono fusi, poiché ivi si studia per comunicare e si comunica quello che si è studiato, in un intreccio misterioso che vede nell’apprendere il prodromo dell’insegnare e, reciprocamente, nell’insegnare il momento sublime dell’apprendere. Come non confondersi, per la commozione? Per questo era raccomandabile una certa discrezione.
Ma c’è anche una ragione più profonda e più intima. Da qualche settimana sono uscite le Memorie di Enrico Opocher, curate con pietas filiale e con finezza di studioso da Arrigo Opocher, professore di Economia politica nell’Università di Padova. È un libro tenero e insieme penetrante, fatto di appunti, di pensieri, in prosa e in versi, di lettere, familiari e accademiche, di ritratti, di ricordi e di presagi, tenuti insieme da uno straordinario filo: lo sguardo di chi li ha raccolti, lo sguardo del figlio, che guarda al Padre con gli occhi dei suoi figli, i nipoti, alla ricerca del Mistero nella continuità della vita. Al libro di Arrigo è bene si affidi chi voglia penetrare nelle stanze più riposte dell’anima di Enrico Opocher, alla ricerca del Mistero nella continuità della vita.
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[1] Discorso commemorativo tenuto presso l’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, nell’adunanza accademica di sabato 18 marzo 2005, in Venezia.
[2] NORBERTO BOBBIO, ENRICO OPOCHER, G.A. Fichte e il problema dell’individualità, Padova, Cedam, 1944, 209 p., (recensione), “Rivista di filosofia”, 1944, fasc. 3-4, p. 153.
[3] Ibidem.