Enrico Opocher [1]
di Francesco Gentile
Spezzare le catene del razionalismo: questo appare al giovane studioso l’obiettivo a cui mirare.
Quando Bobbio manifestava le sue “pungenti perplessità” per “la professione così aperta di irrazionalismo” della nuova generazione di filosofi italiani, più che ad Opocher, doveva pensare ad una memoria dell’Istituto Giuridico torinese, autore Bruno Leoni, allievo di Gioele Solari, filosofo del diritto e titolare dell’insegnamento di Dottrina dello Stato a Pavia nel 1942: Per una teoria dell’irrazionale nel diritto[21]. Ma non c’è dubbio che l’impegno di Opocher a spezzare le catene del razionalismo potesse apparire come una manifestazione aperta di irrazionalismo. Ma in che cosa si sarebbe concretato questo impegno?
Va subito precisato come, a questo proposito, l’attenzione di Opocher andasse progressivamente polarizzandosi sugli sviluppi della filosofia giuridica e politica italiana, dalle “vecchie tradizionali scuole” che tanto onore le avevano fatto quando questi “studi erano insidiati dalla piatta istanza sociologica di un deteriore positivismo o dalle baldanzose negazioni dell’irrompente neohegelismo”, esplicito il riferimento a Del Vecchio, Ravà e Solari, alle posizioni di studiosi che, “pur provenendo dal positivismo e dal neohegelismo avevano saputo tener ferme ed approfondire le fondamentali istanze” della disciplina, come quelle di Alessando Levi, Widar Cesarini Sforza, Angelo Ermanno Cammarata e Felice Battaglia. Ma anche ai contributi “di quel notevolissimo gruppo di specialisti che andò, spesso con assoluta indipendenza di pensiero, formandosi in Italia tra le due guerre mondiali”, ossia di Giacomo Perticone, Norberto Bobbio, Renato Treves e, soprattutto, di Giuseppe Capograssi[22]. A colpire l’attenzione di Opocher tuttavia era un fatto che ai suoi occhi sembrava accomunare contributi dottrinali anche molto distanti: il fatto cioè della frattura verificatasi tra ciascuno di questi e le costruzioni sistematiche nel cui ambito erano stati concepiti. Tanto da indurlo a trarre la conclusione drastica che “l’importanza di simili contributi va sempre più rivelandosi come indissolubilmente connessa alla maggiore o minore agilità dimostrata dai vari filosofi del diritto di liberarsi dai sistemi chiusi per porsi direttamente a contatto con la profonda e, per certi aspetti, sconcertante problematica contemporanea”[23].
La prima manifestazione dell’anti-razionalismo di Opocher si concreta dunque nella denuncia della ideologicità di ogni razionalizzazione sistematica. “Io ritengo – scrive – che la funzione ideologica della filosofia e quindi anche della filosofia del diritto trovi il suo limite proprio nel rapporto sistematicità-problematicità, nel senso che solo nella sua fase sistematica, nel momento in cui la filosofia tenta di risolvere in una serie di schemi sistematicamente connessi l’ineffabile ricchezza dell’esperienza, la validità ideologica si sovrapponga alla verità oggettiva del filosofare. Un’ideologia è sempre chiusura della vita o, se si vuole, filosofia chiusa. E se è vero che la filosofia tende inevitabilmente al sistema, alla chiusura, ed è dunque sempre generatrice di ideologie, è anche vero che essa riesce ad essere se stessa e dunque a scavare oggettivamente nel mondo concreto dell’esperienza solo nei momenti di crisi e cioè quando l’esperienza travolge, appunto, ogni schema e costringe il pensiero riflesso a rinunciare ad ogni sistematicità, a adeguarsi alla concretezza problematica che essa esprime”[24]. E la cosa gli appare scoperta, da un lato, riflettendo sul fallimento di “una concezione della filosofia del diritto come mera e meccanica applicazione dei principi di questo o quel sistema filosofico alle schematiche costruzioni dei giuristi”[25], nella quale peraltro crede di riconoscere anche il motivo profondo, e giustificato, della diffidenza dei giuristi nei confronti dei filosofi del diritto[26], ma sarebbe più giusto dire, di certe pseudo-filosofie del diritto. E, dall’altro, scoprendo come la stessa scienza giuridica fosse andata sempre più conquistando “la consapevolezza della propria inerenza al movimento concreto dell’esperienza giuridica e quindi delle necessarie connessioni che alla filosofia del diritto la legano, attraverso una profonda riflessione sulla logica della propria metodologia”[27], esplicito il riferimento alla Metodologia del diritto di Francesco Carnelutti[28], e mediante il riconoscimento della “impossibilità di (..) prescindere dalla consapevolezza del valore che sorregge il mondo del diritto”, ossia la giustizia, esplicito il riferimento alla rivista “Justitia”, organo comune dei giuristi cattolici[29].
Ma così si delinea anche quella che sarebbe divenuta la prospettiva filosofica propria di Enrico Opocher tutta focalizzata, problematicamente, sulla “antinomicità dell’esperienza”, considerata dalla “via d’ingresso” dell’esperienza giuridica. A “giustizia e legalità”, ad “autonomia ed eteronomia”, ad “individualità e socialità, a “libertà ed eguaglianza”, considerate come determinazioni della “antinomia tra ideale ed il reale, che segna essenzialmente la fondamentale caratteristica della struttura della vita individuale e quindi dell’esperienza in ogni sua forma”, sono dedicate le pagine più significative del libro su Il valore dell’esperienza giuridica con cui Opocher consegue la cattedra universitaria nel 1948. Le istanze critiche emerse dagli studi fichtiani, intrapresi sotto la guida di Adolfo Ravà, avevano trovano risposta nella problematizzazione dell’esperienza giuridica e politica, propiziata dall’incontro con Giuseppe Capograssi. Di lui Opocher dirà “ciò che è stato detto di Newmann e cioè che ‘chi conosce soltanto i suoi scritti conosce il meno di lui’. Ed anche ciò che del suo pensiero puntualmente rivive nelle sue opere, presuppone un sottofondo ‘emozionale’ ben difficilmente oggettivabile sul piano storico per l’alta poesia e l’afflato religioso che lo pervadono”[30].
Nei difficili anni della guerra, Capograssi apparve ad Opocher come “il filosofo del tramonto della società borghese”[31]. Testimone, “preoccupato, ma severamente obiettivo” della crisi dello Stato di diritto e della connessa ideologia giuridica borghese, con i miti dell’autosufficienza e della neutralità del diritto, per rappresentare i quali Opocher userà la formula originale ed efficacissima di “laicismo giuridico”[32]. “Quasi completamente appoggiato allo stato o, meglio, alle mutevoli e troppo spesso irresponsabili volontà che, attraverso il mito dello stato, si esprimono dominatrici della vita sociale, quel diritto che altra volta era stato scultoreamente definito come ars boni et aequi si è andato sempre più riducendo ad uno strumento per fini estranei al proprio contenuto, se non addirittura ad un mero strumento di governo. La sua dipendenza diretta o indiretta dalla volontà statuale, ossia la sua forma positiva, pur necessaria a garantirne la certezza, è diventata l’unico titolo della sua validità, l’unico criterio della sua giuridicità e per questa via esso è divenuto l’indispensabile strumento per realizzare, perpetuare e giustificare la volontà dominante, per piegare e dirigere l’azione verso qualsiasi avventura, per assicurare validità oggettiva allo stesso arbitrio” [33]. Si rivelano così al filosofo le ragioni profonde dell’esito totalitario di una concezione dell’ordinamento giuridico come mero strumento di controllo sociale. “Bisogna veramente riconoscere che il diritto del nostro tempo è un diritto senza verità, che l’attuale crisi dell’esperienza giuridica è, nella sua essenza più profonda, una crisi della verità del diritto o, meglio, di quell’intima consapevolezza del proprio valore, senza di cui l’esperienza giuridica diviene cieca, non è più se stessa”[34], e si lascia travolgere dal totalitarismo.
Ma la capograssiana “filosofia dell’esperienza giuridica”, di cui a giusto titolo rivendica d’essere il più diretto continuatore, dopo Flavio Lopez de Oñate e insieme con Pietro Piovani e Antonio Villani[35], trattiene Opocher dallo scetticismo, irrazionalistico o pragmatico che sia, a cui la frustrazione della crisi e il dramma della catastrofe potevano indurre e in realtà hanno indotto tanti giovani giuristi, e gli rivela luminosamente il compito fondamentale che spetta ai “chierici” del diritto dopo il tradimento[36], quello di “restaurare la verità del diritto nella vita sociale”[37]. Un compito che per i giuristi si prospetta come diretto ad “imbrigliare e neutralizzare, nelle forme logiche della legalità, le tumultuose forze che la nuova storia esprime” e per i filosofi ad “opporre (..) le istanze universali della giustizia alle contingenti suggestioni dei fini politici”[38], poiché della verità del diritto legalità e giustizia costituiscono, comunque vengano intese, i due fondamentali, anche se talvolta antinomici, aspetti. Con gran parte dei suoi studi ulteriori, il filosofo corrisponderà a questa chiamata sino all’ultimo suo libro, Analisi dell’idea della giustizia[39], dedicato “alla venerata memoria dei miei Maestri Adolfo Ravà e Giuseppe Capograssi”.
Agli Atti dell’Istituto Veneto Enrico Opocher ha lasciato due saggi splendidi del suo modo d’intendere il compito del filosofo, ossia quello di “intelligere, e cioè di cogliere, oltre le contingenti passioni degli uomini, il significato dell’umana esperienza”[40]. Distanti l’uno dall’altro vent’anni, ma che anni!
Il 20 giugno 1965, nell’adunanza solenne, come di consueto convocata nella Sala dello Scrutinio in Palazzo Ducale, Opocher tiene il discorso conclusivo dell’anno accademico su “Il filosofo di fronte allo stato contemporaneo”. La diffusione nel mondo occidentale dell’empirismo anglosassone ha scatenato una specie di “caccia alle streghe”, consistente nella “singolare tesi che ogni presa di posizione sul piano dei valori e quindi non puramente formale, si risolva in un’ideologia e che ogni ideologia sia necessariamente irrazionale e soggettiva”[41]; Opocher non condivide la tesi, convinto della “impossibilità di ‘liberare’ totalmente dalle sue pretese impurità ideologiche la filosofia senza trasformarla in mera esercitazione filologica[42] e spegnere, così, ogni suo impegno nel mondo degli uomini”, ma non condivide neppure la tesi marxista che “per prendere posizione sui problemi dello stato contemporaneo il filosofo debba porsi al servizio di questa o quella ideologia politica e, insomma, assumere su di sé la responsabilità della lotta per il potere”[43]. Fedele all’abito del “pensare, non già secondo le passionali e contingenti opinioni ma, come già sosteneva Eraclito, secondo il ‘pensiero comune’[44], vale a dire nei termini universali della ‘ratio’ che condiziona ogni cosa e che anche attraverso le contraddizioni, le illusioni e gli errori degli uomini, domina la faticosa costruzione del loro mondo”[45], il filosofo, secondo Opocher, deve innanzitutto “contribuire con tutte le sue forze alla ‘demitizzazione’ dello Stato contemporaneo; operazione non facile, considerato che alla “mitizzazione della razionalità oggettiva” caratterizzante lo stato contemporaneo ha contribuito in maniera determinante la filosofia moderna, di Hobbes, di Locke, di Rousseau, di Hegel, e non senza rischi, poiché soggetta alla tentazione di contrapporre “alla superba pretesa dello Stato borghese l’ancor più superba pretesa dello Stato ‘senza classi’, cioè di uno stato che raggiungerebbe la perfetta razionalità eliminando, con la borghesia, l’irrazionalità della lotta per il potere”[46]. Ma è in relazione a questa, alla irrazionalità della lotta per il potere, che si prospetta quello che Opocher ritiene costituisca il più vero compito del filosofo di fronte allo stato. Ad Opocher il “potere politico, diversamente da quello paterno, appare assolutamente irrazionale. E ciò non tanto nel senso che sia irrazionale l’emergere del potere politico nell’ambito della società (giacché proprio in questo senso la sua esigenza è strettamente affine a quella assolutamente razionale del potere paterno) ma nel senso che, diversamente da quanto avviene nell’ambito della famiglia, è del tutto irrazionale che, malgrado l’assoluta estraneità della loro vita, alcuni individui possano, hic et nunc, condizionare la volontà e l’azione di altri individui”[47]. Di fronte a questo, il filosofo, senza lasciarsi travolgere dalla tentazione di “razionalizzare” il potere conquistandolo[48], deve impegnarsi nella “denuncia dell’esercizio abusivo del potere” da parte delle élites via via succedentesi nel controllo della vita sociale. Come un “franco tiratore”[49], dirà Opocher, con una formula di Lucien Goldmann, che gli era piaciuta per quel suo evocare l’estraneità ed ogni inquadramento ma che equivocamente rinviava anche alla Theorie des Partisanen di Carl Schmitt[50], quanto di più lontano e soprattutto di estraneo alla sua weltanschauung poteva esserci. Oggi questo compito si esplica nella denuncia degli abusi della tecnocrazia. “Le sempre più complesse esigenze tecniche e scientifiche che si accompagnano, nella società contemporanea, all’esercizio del potere, stanno portando, direttamente o indirettamente, i tecnici al vertice dello Stato, (..) Sta forse per venir meno – si chiede – la radicale irrazionalità del potere? (…) Le prospettive non sono affatto così consolanti – conclude Opocher nel 1965 – Il tecnocrate non è né infallibile, né privo di passioni. La sua ‘scienza’, e dunque la ‘razionalità’ che introdurrebbe nell’esercizio del suo potere, lascerebbe ancora indifeso l’individuo: distruggerebbe, puramente e semplicemente, la libertà. Ed in nome della scienza, la peggior tirannide possibile scenderebbe sul mondo. Il compito critico del filosofo, la sua lotta per la forza liberatrice della ragione, anziché vanificarsi, acquista dunque, di fronte a questa prospettiva, una validità anche maggiore ”[51].