Enrico Opocher [1]
di Francesco Gentile

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“Ecco un libro che non ha ceduto al gusto accademico della ‘monografia’ obiettiva e generica, costruita in modo da valere per tutti i filosofi. Qui Fichte, prima di essere un sistema filosofico da studiare, sottilizzando o almanaccando, è un problema, anzi è il problema stesso di cui si tormenta l’autore, il quale, come la maggior parte dei giovani filosofi della nuova generazione italiana, infastidito dell’idealismo, inteso come sistema dell’immanenza assoluta, dà ascolto alle voci dell’irrazionalismo in quanto proclamino il valore dell’individualità che il turbine del razionalismo ha travolto, convinto anch’egli, come i più recenti assertori o interpreti dell’esistenzialismo, che la più vitale esigenza del pensiero contemporaneo sia ‘esigenza di intendere e quindi rivalutare l’individualità in tutta la sua concretezza’ (p. 13)”[2].

Così, nella seconda metà dell’anno 1944, sulla torinese “Rivista di filosofia”, Norberto Bobbio recensiva un libro della nuova generazione di filosofi del diritto, mettendone in evidenza con esplicito apprezzamento “la rinnovata aspirazione ad una ‘metafisica della vita’ di contro al recente prevalere di un relativismo antimetafisico” ma anche manifestando delle “pungenti perplessità” per “la professione così aperta di un nuovo irrazionalismo (..), proprio ora – scriveva – in cui la ragione viene cacciata dal regno dell’uomo in nome dei miti più disumani ed assurdi, l’istinto trionfa sulla ponderatezza, la ‘sana’ vitalità sulla ‘morbosa’ riflessione, l’uomo primitivo, tutto istintività e sensualità, sull’uomo civile, (..) proprio oggi in cui solo la ragione con quella forza di persuasione che da essa promana può vincere la retorica ingannevole e settaria dei prammatici che si appellano alle fedi cieche, al basso istinto, alle passioni inferiori degli uomini di cattiva volontà”[3]. Il libro recensito: G. A. Fichte e il problema dell’individualità. L’autore: Enrico Opocher[4].

Enrico Opocher entrò a far parte dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti nel 1956, presentato dal Presidente, Aldo Checchini, nella seduta dell’8 aprile, insieme con l’amico e collega Alberto Trabucchi. Aveva quarantadue anni. Da otto professore di Filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza di Padova, sulla cattedra che era stata di Adolfo Ravà e di Giuseppe Capograssi[5]. E agli atti dell’Istituto ha lasciato la testimonianza del suo modo, personalissimo e personalista[6], d’intendere filosoficamente l’esperienza, con dei contributi che ad una lettura sinottica si rivelano cardinali per ricostruirne l’intero itinerario speculativo.

Nel discorso, tenuto all’adunanza solenne del 25 giugno 1978 nella sala dello Scrutinio in Palazzo Ducale, dedicato a Benedetto Croce a venticinque anni dalla morte, Opocher fa i conti con il neo-idealismo, la cui “improvvisa e rivoluzionaria irruzione nella cultura italiana” ha rappresentato per tutti i giovani studiosi della sua generazione un “fatto grosso” e per lui in particolare ha costituito l’humus della formazione scientifica e spirituale.

“In un’epoca dominata da uno scientismo e da un tecnicismo chiusi ai grandi dialoghi del tradizionale umanesimo, questo fatto – scrive – può anche sembrare poco espressivo o addirittura assumere significati negativi. Ma, a parte la grandezza della filosofia idealistica (..), bisogna pur ricordare che il neoidealismo poté svolgere la sua fondamentale funzione nella nostra cultura, tra la fine dell’ottocento ed i primi quarant’anni del secolo successivo, per tre fondamentali motivi.

Anzitutto perché rappresenta la prima importante espressione culturale dell’Italia unita o, meglio, del processo di unificazione morale politica sociale seguita al risorgimento. E, come tale, adempie la funzione di trarre la cultura del nostro paese dalle secche di un’ormai sterile provincialismo, aprendo il dialogo con la filosofia europea ed, anzi, diventandone una delle forze più vive.

Poi, perché nasce nell’Italia meridionale, ultimo fiore di una millenaria cultura umanistica, proprio mentre nel settentrione il primo sviluppo industriale favorisce una ritardata diffusione dello scientismo positivista. E – aggiunge – non importa se questa millenaria cultura trova nel pensiero di Croce il buon senso, l’arguzia, la bonomia che caratterizza il temperamento napoletano, ed in Gentile, la coerenza spietata e la drammaticità dell’antichissima terra di Sicilia che ci darà quasi contemporaneamente anche l’arte di Pirandello. Ciò che conta è che, attraverso Croce e Gentile, riemergono con la forza di una stagione romantica ritardata non solo, com’è ovvio, Vico ma addirittura il genio metafisico della Magna Grecia.

Infine, perché attraverso il neoidealismo la cultura italiana compie il suo massimo sforzo (massimo ma non certo riuscito come lo dimostrerà proprio il rapporto tra Gentile ed il fascismo) per riassorbire nell’alveo del pensiero i fermenti romantici (attivismo, irrazionalismo, intuizionismo) che si apprestavano ad assecondare le tensioni sociali dell’età liberale in quel suo processo involutivo che precipiterà la vecchia Europa e la sua cultura nel baratro di due guerre mondiali. E c’è anche da dire – conclude – che proprio per tutte queste ragioni il neoidealismo esprime, in Italia, un processo sociale che, in attesa di coinvolgere il nuovo proletariato industriale rovesciandosi nel marxismo, secondo la logica che da Hegel aveva già portato a Marx, ha un valore nettamente unificante: quello di assecondare l’accesso alla cultura della piccola borghesia. Nel che sta un’altra profonda ragione dell’esito ‘fascista’ del neoidealismo, se è vero come è vero che il fascismo fu soprattutto un fenomeno piccolo borghese”[7].

Con scarni ed incisivi tratti Opocher disegna in modo inconfondibile un quadro, che è anche un bilancio, della storia morale, politica, sociale ed economica dell’Italia tra la fine dell’Ottocento e i primi quarant’anni del Novecento. Ma idealismo per lui non fu, come per i suoi coetanei, solo o per lo più il neo-idealismo, altrove identificato con la formula assai più appropriata di “neohegelismo”[8]. Per Opocher idealismo era qualcosa di “istintivo”[9], era prima di tutto “orientazione vivificatrice dell’intera personalità, che affrontava, permeava di sé e superava ogni ‘posizione’ speculativa”, così come aveva sperimentato all’ombra della “nobile vecchia quercia” di Adolfo Ravà che chiamava la propria personale interpretazione del primato kantiano della ragion pratica, appunto, “idealismo etico” [10].

Quando il giovanissimo Opocher ne divenne allievo, Ravà, che nella patavina Universitas Iuristarum insegnava insieme Filosofia del Diritto e Istituzioni di Diritto Privato, era nel pieno della maturità. “Uno degli ultimi completi rappresentanti di quella severa cultura di ispirazione tedesca che, specie nel campo della filosofia ed in quello del diritto, aveva aperto in Italia le vie di un decisivo progresso”[11]. Con le sue due opere maggiori, dedicate a Il diritto come norma tecnica e a Lo Stato come organismo etico[12], rappresentava icasticamente “una specie di ponte di passaggio sulla linea di sviluppo che in Italia come in Germania stava allora portando la filosofia del diritto e dello stato dal neokantismo al neoidealismo”[13]. In realtà, il motivo più fecondo della sua concezione del diritto e dello stato stava altrove e più precisamente nel fatto che, seppur legata com’era al normativismo e allo statalismo, essa costituiva un “geniale” tentativo di aprire il mondo del diritto e dello stato ad una concreta orientazione etica, in scoperta polemica, oggi diremmo bi-partisan, “da un lato contro la vanificazione del diritto e l’assolutizzazione dello Stato intraprese allora in nome di un’artificiosa concretezza etica dal neoidealismo, dall’altro contro il formalismo e la concezione individualistica della società prevalenti nel neokantismo”[14]. In virtù di che cosa questa originale, e scomoda, posizione era sostenibile? La risposta è semplice: in virtù della sua “passione” per Fichte. Ebbene, a saggiare l’efficacia di questo tentativo sarebbe stato il giovane Opocher, con le sue ricerche e i suoi “pensieri” su Fichte, dalla relazione su Immanentismo ed eticismo nella Wissenschaftslehre di Fichte, presentata al IX° Congresso Internazionale di Filosofia tenutosi a Parigi nel 1937[15], all’ampio saggio su Il superamento fichtiano dell’individualismo nell’interpretazione di G. Gurvitch del 1940[16], con cui nel ‘42 conseguì la libera docenza, al volume su G.A. Fichte e il problema dell’individualità del 1944[17].

Il lavoro di Opocher, che pone al centro del pensiero fichtiano il problema dell’individualità, è cardinale per la storiografia su Fichte, poiché fa cadere “l’interpretazione dualistica che dipinge un Fichte contraddittorio, soggettivista e individualista fino al 1800, spinoziano o, addirittura, hegeliano prima di Hegel ed antiindividualista dopo il 1800”[18], ma fa cadere anche “l’interpretazione unitaria che dipinge un Fichte più kantiano di Kant e costringe tutto lo sviluppo del pensiero fichtiano, per quanto riguarda la filosofia generale, negli schemi della prima Dottrina della Scienza criticamente intesa, e per quanto riguarda la filosofia del diritto e dello stato, negli schemi dei Lineamenti di diritto naturale antiindividualisticamente intesi”[19]. “Per comprendere Fichte – è la conclusione dal punto di vista storiografico – è necessario spezzare l’involucro del suo sistema e introdursi nel cuore stesso del suo pensiero fino a cogliere il problema per il quale questo pensiero si snoda: il problema dell’individualità”, riconoscendo come “la filosofia di Fichte, tanto nel suo aspetto generale, quanto nel suo aspetto filosofico-giuridico e filosofico-politico, sia antinomica” .

Ma il lavoro di Opocher è altresì cardinale, da un punto di vista teoretico, per la scoperta del fallimento a cui va incontro il tentativo fichtiano di risolvere il problema dell’individualità nell’ambito del razionalismo. “Il problema di Fichte è il problema della coscienza contemporanea. Le vie tentate dal pensiero fichtiano per risolverlo si sono incarnate, attraverso la mediazione di altri pensatori e di altre dottrine, da Hegel a Nietzsche, dall’individualismo allo statolatrismo, dal nazionalismo all’internazionalismo, nella storia contemporanea ed il loro fallimento teorico si è incarnato nel fallimento pratico implicito nella crisi della vita contemporanea. Il pensiero fichtiano –conclude Opocher – ci mostra, come racchiuse in una vivente unità, le profonde ragioni della crisi del nostro tempo – non si dimentichi la data: 1944 – ed il suo fallimento ci ammonisce come non sia possibile superare questa crisi senza spezzare le catene del razionalismo”[20].

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