Il silenzio amministrativo
Tra rivoluzione e reazione delle istituzioni
di Torquato G. Tasso

Non si realizza il principio partecipativo, perchè non c’è un procedimento, una fase istruttoria, una fase preparatoria, una fase di confronto dialettico a cui possa partecipare il singolo, che ha solo presentato l’istanza. Non si realizza, inoltre, la trasparenza dell’azione amministrativa, perchè non c’è nulla che debba essere trasparente, anzi perchè non c’è nulla e quindi nulla che tale principio possa rendere accessibile e visibile. Non essendoci che il nulla, non si può certo dire che l’azione sia controllabile e valutabile, e acquista ancor di più un connotato di indeterminatezza. Non si realizza neanche il principio della imparzialità, perchè il pubblico sembra come rimanere celato nel buio del silenzio, non si manifesta e, soprattutto, non si confronta con il privato. Non c’è confronto tra i due e conseguentemente non c’è una posizione del Pubblico che si possa dire di imparziale uguaglianza nei confronti del privato.

Inoltre il silenzio-assenso è il frutto, provvedimentale, della violazione di quel principio generale previsto dalla legge 241/90, ossia dell’obbligo di provvedere, e di provvedere in modo espresso. L’assenso ex art. 20, si ha proprio perchè l’amministrazione non ha provveduto, non ha adempiuto al relativo obbligo ([38]).

Il silenzio, ancora, non è motivato. Inutile ricordare l’importanza della motivazione, della esplicazione delle ragioni giuridiche e dei presupposti di fatto che stanno alla base del provvedimento, onde poter avere un immediato riscontro del fatto che la pubblica amministrazione abbia davvero compiuto quella serie di valutazioni e ponderazioni che garantiscono l’individuazione del giusto assetto degli interessi in gioco; conseguentemente il silenzio non permette una valutazione della condotta della pubblica amministrazione, impedendo un altrettanto importante giudizio di responsabilità nei suoi confronti.

La figura del silenzio risulta essere, quindi, la negazione del nuovo tipo di provvedimento amministrativo, la negazione della comunicazione dialettica tra Privato e Pubblico e, così come delineata dall’art. 20 L. 241/90, inserita nel contesto della stessa, risulta essere un’evidente contraddizione del sistema. Come è stato autorevolmente affermato in dottrina ([39]), in coerenza con i principi generali sopra richiamati, ed in particolar modo quelli di buona amministrazione, di imparzialità e di trasparenza di cui all’art. 97 della Costituzione, si sarebbe dovuta escludere ogni valenza, sia essa di assenso che di diniego, al silenzio serbato dalla pubblica amministrazione.

Questo articolato, dunque, può davvero essere posto a fondamento del riconoscimento dell’autonomia del singolo? Innanzi tutto è, e continua ad essere, silenzio. Non vi è, da parte del singolo, lo svolgimento di una fase istruttoria che si sostituisca a quella della pubblica amministrazione. Non vi è lo svolgimento di una fase tipicamente gestionale ma un semplice ottenimento di un beneficio (ricordiamo che il silenzio è, in questo caso, assenso) come conseguenza dell’inattività della pubblica amministrazione Non vi è pieno riconoscimento della possibilità del singolo di regolamentare. Non vi è un’abdicazione del proprio potere di intervento da parte dello Stato a favore del cittadino. E questo ci viene confermato anche dal fatto che non si dovrebbe prevedere il potere di intervento della pubblica amministrazione finalizzato ad una successiva rimozione degli effetti (provvedimentali) del silenzio. Inoltre e ancora, non lo si può considerare riconoscimento dell’autonomia, perchè, se così fosse, non si comprenderebbe la necessità di una istanza del singolo a cui la pubblica amministrazione sarebbe tenuta, per i principi generali sopra visti, a rispondere. Per aversi autonomia nel silenzio, sarebbe necessario che vi fosse la possibilità del singolo di attivarsi autonomamente (un pò come accade nell’ipotesi di silenzio prevista dall’art. 19 L 241/90) ma, a differenza di questa, bisognerebbe che l’autonomia del singolo riguardasse ipotesi in cui la stessa amministrazione ha una sorta di discrezionalità, materie e settori nei quali il singolo, sostituendosi alla pubblica amministrazione potrebbe dare vita alla vera e autentica autoregolamentazione. Fin tanto che non vi sarà questo, non saremo di fronte ad un’ipotesi di autonomia.

Decreto Legge 14 marzo 2005 n. 35 convertito con L. 14 maggio 2005 n. 80
Come è stato anticipato all’inizio del presente contributo e successivamente ricordato, la legge 241/90 e, in particolare, il silenzio della pubblica amministrazione è stato anche di recente modificato dal legislatore con il Decreto Legge 14 marzo 2005 n. 35 convertito con L. 14 maggio 2005 n. 80. Le modifiche apportate, pur essendo rilevanti e meritando un’analisi più approfondita, non sono venute a innovare la struttura del silenzio amministrativo così come era stato delineato in precedenza dal legislatore ma, semmai, a precisare e puntualizzare alcuni aspetti, in precedenza lasciati all’interpretazione giurisprudenziale. Premesso e precisato che una più compiuta valutazione andrà rimandata all’emanazione dei necessari decreti attuativi, già da una prima lettura, semmai, si ricava la convinzione che il legislatore, ancora una volta, anziché procedere sulla strada delle riforme, tende ad una soluzione reazionaria mirante alla consolidazione del potere che le riforme sembravano volergli togliere.

Basti pensare alla previsione che la legge di conversione, nel modificare l’originario decreto legge, introduce relativamente alla possibilità di sospensione del termine previsto perchè la amministrazione risponda all’istanza del privato, pena il maturare del silenzio assenso. Con questa previsione, si permette alla pubblica amministrazione di posticipare la risposta al cittadino lasciandolo nell’incertezza di quella che sarà la conclusione del procedimento e violando, ancor più, il principio che vuole che la pubblica amministrazione risponda in tempi celeri e determinati ([40]). Per non dire del fatto che anche il ricorso a tale tipo istituto è suscettibile ad essere evidentemente utilizzato, o meglio strumentalizzato, per fini del tutto avulsi dall’interesse pubblico che dovrebbe essere sempre ispirare l’agire amministrativo, un’ulteriore arma per quella che, come spiegheremo di seguito, si può definire la politica dei silenzi.

Basti, inoltre, pensare al fatto che il legislatore precisa, ulteriormente, la possibilità comunque riconosciuta alla pubblica amministrazione di intervenire, in sede di autotutela a modificare il provvedimento silenzioso maturato. Anche in questo caso, quindi, si rivendica il potere originario della amministrazione, sottolineando come, la presunta delega al singolo del potere di amministrare, in realtà, non comporta l’abdicazione di potere del Pubblico a favore del Privato ([41]).

Motivi della diversità delle conclusioni raggiunte dai due orientamenti dottrinali: importanza della individuazione del momento politico all’interno della fase amministrativa.

A questo punto presente contributo, diviene necessario cercare di comprendere i motivi che allontanano quelle che avevo prima definito le convergenze parallele delle due tesi.

A nostro modo di vedere, la differenza di posizione deve essere imputata al mancato riconoscimento dell’importanza anche politica della fase amministrativa che inizia ad emergere sempre più chiaramente proprio grazie alle riforme. Questa nuova rappresentazione delle categorie di Privato e Pubblico, che emergono in maniera nitida dalla riforma e che risponde ad esigenze di cambiamento da molti sentite come urgenti, determina un modo diverso anche di concepire l’azione amministrativa e il suo rapporto con il momento politico. L’amministrazione non è più solo mera esecuzione dell’indirizzo di governo ma, attraverso l’indicazione effettuata in sede amministrativa di quelli che sono i problemi di gestione e dei loro riflessi in sede politica, finisce per partecipare, almeno in parte, al momento individuativo del bene comune.

Pur continuando a sottolineare, con Francesco Gentile, l’importanza di tenere distinte le due sfere ([42]), non si deve dimenticare che tale distinzione non è mai una separazione così che si può dire che l’azione amministrativa ha in sé una componente politica. Come l’autorevole autore ci ricorda “da sempre il problema amministrativo, inteso come problema dell’organizzazione degli strumenti, deve misurarsi, nel senso di confrontarsi senza confondersi, con il problema politico, inteso quale problema dell’orientamento al bene comune” ([43]).

Oltre a quanto appena accennato, non si deve dimenticare che l’individuazione dell’equilibrio e contemperamento degli interessi in gioco in ambito amministrativo, che nel modo migliore realizzi la finalità indicata in sede politica, contiene una certa politicità, che esprime la necessità della costante ricerca e realizzazione dei fini della convivenza sociale. Tale componente politica, laddove, come in un’ottica geometrica, i conflitti in sede amministrativa vengono risolti in termini di sovranità, ossia di conflitto e di prevalenza del più forte, viene irrimediabilmente perduta, impedendo la piena realizzazione del bene comune. E’ quindi necessario, anche in tal sede, agire dialetticamente, in un confronto paritario, così come delineato dalla novella del 1990, per poter dare il giusto risalto a tale componente politica.

Soffermiamoci sul punto per meglio chiarire. Con la legge 241/90, l’attività amministrativa appare acquisire una connotazione, almeno in parte, di natura politica. Nel senso che acquista una potenzialità operativa che al tempo stesso si riflette in sede politica, risultando essere uno degli strumenti con cui si realizza e si ricerca il bene comune. Infatti, se è vero che l’amministrazione è funzionale alla politica, è anche vero che lo è sotto diversi aspetti. Innanzi tutto – in senso classico del termine – come azione tipicamente operativa ed esecutiva delle finalità comuni individuate dall’azione di governo. Inoltre, ed in queste ipotesi in un senso più profondo e politico, da un lato grazie al riflesso che hanno in sede politica i problemi di gestione che emergono e vengono affrontati quotidianamente nell’attività della amministrazione; dall’altro come ottimizzazione degli strumenti disponibili per il raggiungimento dei fini politici attraverso la realizzazione del più equilibrato contemperamento degli interessi confliggenti in sede operativa ([44]). Ed è proprio in questo senso che emerge in modo determinante l’importanza della svolta che la legge in esame vuole dare all’azione amministrativa e al modo di affrontare i problemi di gestione connessi alla convivenza di una comunità. Questo risvolto o, come lo abbiamo definito poc’anzi, questo riflesso politico che la stessa azione amministrativa ha in sede politica, non sussisteva nella tradizionale visione del rapporto Pubblico-Privato, consolidatasi prima della legge 241/90. La visione geometrica di questi enti, e la conseguente soluzione formalistica data ai problemi amministrativi, che identificava il bene comune con l’interesse dell’ente pubblico, faceva sì che l’amministrazione e i problemi in essa emergenti venivano sempre affrontati e risolti in termini di sovranità. L’interesse pubblico era quello dell’ente pubblico e, conseguentemente, tutti gli interessi, che con questo confliggevano, dovevano essere ad esso subordinati, perdendo così l’occasione di comprendere i risvolti politici che quel confronto di interessi garantiva ([45]).

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