LA TUTELA PENALE DELLA «DIGNITÀ UMANA»: TRA ESIGENZE DI GIUSTIZIA E DI PROTEZIONE DEL BENE GIURIDICO[1]
di Giovanni Caruso
A tal riguardo, credo che la ricerca senza posa avente ad oggetto, dapprima, la condotta materiale e sensoriale, poi l’evento naturalistico, e infine il pregiudizio concretamente vissuto ed esperito nella realtà dei fenomeni dalla persona offesa dal reato, costituisca la conseguenza dogmatico-interpretativa più rilevante del diritto penale dello scopo e della prevenzione generale: tale atteggiamento appare, da un canto, la coerente traduzione dell’utilitarismo illuministico nell’àmbito del diritto penale, come asseverazione funzionalistica dello strumento penale come arsenale protettivo dei beni giuridici in vista della realizzazione del complessivo controllo sociale; da un altro canto, denota il modo settario ed equivoco con cui il penalista si pone al cospetto del problema interpretativo. Quale bene va protetto contro l’aggressività conflittuale dell’uomo sive natura? Questa, in effetti, è la domanda «originaria» e «onnicomprensiva» – dalla quale, cioè, si potrebbero far scaturire e dipanare tutti i temi della dogmatica -, che si pone il teorico del controllo sociale.
Come riconosciuto anche da un autorevole estimatore della Weltanschauung dei lumi, la dottrina dell’utilitarismo giuridico-illuministico si è espressa, nel settore specifico del diritto puntitivo, in tre principi assiologici diversi, rispettivamente concernenti la concezione del reato, del processo e della pena. Sotto il primo riguardo, “riferita al reato ovvero ai problemi di giustificazione della legislazione, essa comporta che il diritto penale non ha il compito di imporre o di rafforzare la (o una determinata) morale, ma solo di impedire la commissione di azioni dannose per i terzi”, sì che il “principio utilitaristico […] esige altresì come necessario che essi – (comportamenti, n.d.r.) – offendano concretamente beni giuridici altrui, la cui tutela è la sola giustificazione delle leggi penali siccome tecniche di prevenzione delle loro lesioni”[86]. Sotto il secondo riguardo, nel processo il giudizio non dovrà vertere sulla “moralità, o sul carattere o su altri aspetti sostanziali della personalità del reo, ma solo sui fatti penalmente proibiti”, e il cittadino si potrà giudicare “solo per quello che ha fatto e non anche, come nel giudizio morale, per quello che è”: i reati, di conseguenza, devono consistere in “fatti empirici tassativamente denotati secondo il principio di stretta legalità, sicché siano verificabili (e confutabili) le tesi giudiziarie che ne affermano o ne negano la sussistenza”[87]. Anche sotto il terzo riguardo, affiora la cifra utilitaristica di giustificazione della sanzione penale: “Lo stato, come non ha il diritto di costringere i cittadini a non essere malvagi ma solo d’impedire che essi si nuocciano tra loro, non ha neppure il diritto di alterare – rieducare, redimere, recuperare, risocializzare o simili – la personalità dei rei. E il cittadino, se ha il dovere giuridico di non commettere fatti delittuosi, ha il diritto di essere interiormente malvagio e di rimanere quello che è”[88].
Credo che questo sia il grave pregiudizio del diritto penale dello scopo, il quale si muove in un orizzonte teorico chiaramente delimitato, i cui confini sono segnati dal postulato funzionalistico dell’esercizio del magistero punitivo come arsenale normativo-coercitivo volto a scongiurare il conflitto interindividuale endemicamente latente nella società, e concretamente operante come apparato sanzionatorio a protezione di beni giuridici dell’individuo. Il distendersi della teorica funzionalistica sul concetto di bene giuridico non deve trascurarsi: la tutela preventiva del bene, attraverso la minaccia del male sensibile contro gli autori dei comportamenti inosservanti, costituisce la traduzione operativamente più concreta del controllo sociale del general-prevenzionismo, sì che la stessa concezione «liberale» del bene giuridico[89], pur dopo il «presunto» superamento della concezione dello stesso come diritto soggettivo[90], non fa che perpetuare l’istanza neutralizzatrice dell’intemperanza dell’uomo anomico sive natura, perseverando l’estromissione dell’esigenza di realizzazione della giustizia dall’àmbito dell’esperienza punitiva.
Ma se chiara si profila l’influenza esercitata dalle teoriche dello scopo sulla funzione della diritto penale e della pena in particolare (non la realizzazione dello iustum, ma la salvaguardia dei beni), non mi sembra ne siano stati adeguatamente valutati gli effetti in ordine alla stessa categoria del bene giuridico in sé e per sé considerata. Le teorie che muovono dall’affermazione della strumentalità del diritto di punire al servizio della «protezione dei beni», determinano infatti conseguenze di assoluto rilievo anche a riguardo della conformazione strutturale dei medesimi: esse desumono la consistenza dell’«oggettività giuridica» avendo riguardo alle illecite capacità «intromissive» dell’individuo, sia laddove si tratti di proteggere la «fisica» disponibilità dei beni, sia laddove si tatti di prevenirne il tentativo «fisico» di conflittuale appropriazione. D’altra parte, proprio il peculiare modo di concepire l’ordinamento delle relazioni intersoggettive come sistema di controllo sociale a protezione di beni giuridici ha comportato, a mio modo di vedere, una perniciosa inversione prospettica e metodologica nel delimitare i contorni del «bene»: dapprima, si è cercato di determinare – quasi in vitro, nell’ambiente asettico e pre-positivo dello stato di natura, tipico della cifra teorica «liberale» (e che accompagna e accomuna, come un filo d’Arianna, non solo la prospettiva dell’utilitarismo illuministico, ma anche le presunte involuzioni della teorica del bene classificate da Luigi Ferrajoli come espressioni di sostanzialismo giuridico e formalismo etico[91]) – il bene da tutelare; quindi, se ne sono individuate le ragioni di concreta riferibilità soggettiva al titolare; infine, se ne sono costruite le specifiche modalità di tutela normativa.
A tale fondamento teorico-generale, occorre reagire con un radicale mutamento di prospettiva, chiarendo che “alla base della protezione dei beni sociali […] non può non stare la realizzazione di un fine di giustizia, ché, altrimenti, non si comprenderebbe in base a quali criteri lo Stato potrebbe selezionare i beni e gli interessi sociali meritevoli […] di protezione giuridica e, in specie, di protezione penalistica […]”[92]. In questi precisi termini mette in chiaro il capovolgimento di posizioni Mauro Ronco, il quale prosegue affermando: “o si riesce a cancellare dall’ordinamento la pena, non con un semplice scambio delle etichette, che denomini misura ciò che oggi è definito pena, bensì mercé la radicale trasformazione dei contenuti, che tolga alla sanzione ogni profilo di sofferenza personale – ed allora si potrà fuoriuscire dall’idea retributiva -, ovvero non può non riconoscersi che la retribuzione, e non l’esigenza di protezione dei beni giuridici, costituisce il fondamento della sanzione penale”[93]. Lungo tale itinerario, non si tratta certo – come sovente superficialmente paventato[94] – di riesumare una concezione meramente «intimistica» del diritto penale dell’atteggiamento interiore, o del tipo d’autore[95], o di privilegiare la riduzione della sfera giuridica a quella della moralità, né, conseguentemente, di obliterare il principio di extrema ratio e di necessaria offensività nel diritto penale, legittimando, per ipotesi, giudizi giuridicamente rilevanti di riprovazione della nuda cogitatio. Si tratta, piuttosto, di assegnare alla tematica della tutela del bene il ruolo logico che ad essa compete nel complesso dell’esperienza punitiva, è cioè quello di modalità specifica di realizzazione della giustizia nel rapporto interpersonale e nella vita comunitaria: se non si può prescindere, quindi, dall’esistenza di un bene esterno del quale apprestare la tutela, allo stesso tempo il bene si deve salvaguardare solo contro le aggressioni riconducibili all’altrui contegno «ingiusto».
Al lume della riflessione an-ipotetica, quindi, si impone un mutamento radicale, il quale – prendendo le mosse dalla concezione del diritto quale congeniale e connaturato strumento di comunicazione e realizzazione della giustizia nelle relazioni personali intramondane (secondo la cifra teoretica classica del diritto e della giustizia come oikeiopragia che l’isomorfismo platonico tende a cogliere nella città e nell’uomo[96]) – collochi le tematiche inerenti all’esigenza di tutela del bene, del suo profilo di necessaria concretezza, e delle specifiche caratteristiche della sua lesione, nell’àmbito concettuale e funzionale che, propriamente, compete loro. Il quale, secondo la cifra teorica istituente un solido legame tra diritto penale e giustizia (entità non compiutamente e pienamente posseduta, ma tuttavia imprescindibile sostegno, e garanzia, di razionalità dell’esperienza penale)[97], non è quello relativo alla fondazione ultima ed essenziale dell’istituzione penale in sé, ma quello – teoricamente più limitato e logicamente ancillare, in ogni caso soltanto concorrente -, di «partecipare» – nel mondo esperibile dei fenomeni fisici, con riguardo ai beni esteriori ed «afferrabili» di volta in volta rilevanti -, all’attuazione della giustizia nella comunità, a sua volta realizzata – nel limitato àmbito del diritto punitivo – con l’esperienza dell’afflizione fisica e psicologica di un pati a càrico di uomini moralmente liberi e degni. Per comprendere tale mutamento radicale di orizzonti teorici, occorre però riconoscere che il diritto in genere, e il diritto penale in particolar modo, costituiscono, prima ancòra che una precettistica sanzionatoria a tutela dei beni, un modo autenticamente comunitario, e quindi umano, di comunicare la giustizia nell’orizzonte della vita intra-modana e dell’esperienza interpersonale; solo accettando l’essenzialità ed indispensabilità del discorso sul giusto e sull’ingiusto nell’universo giuridico, si può ammettere che il tema del «bene giuridico» e della sua tutela, pur – sia chiaro – non suscettibile di alcuna rimozione, vada postergato rispetto a quello rappresentato dalla ricerca della giustizia, come proporzione nella relazione interpersonale, ovvero, per dirla con l’Aquinate, della realis et personalis, hominis ad hominem proportio.
Per chiarire l’inversione dell’ordine di priorità logica tra i concetti di «bene tutelato» e «giustizia» mi può forse aiutare il ricorso al stile diegetico-mimetico del sommo filosofo Platone. Il quale, nell’Eutifrone, facendo ironizzare Socrate contro il proprio gretto interlocutore, si interroga sul concetto di «santità» come parte del «giusto», chiedendosi: “Il santo viene amato dagli déi in quanto è santo, oppure in quanto viene amato è santo?”[98] Sì che come, nel dialogo platonico, non è il gradimento divino che determina la santità, ma è viceversa quest’ultima la reale causa efficiente di quel gradimento, allo stesso modo non la semplice protezione del bene costituisce il fine ultimo e il fondamento giustificativo del diritto penale, ma, al contrario, solo la ricerca della «giusta proporzione» nel rapporto interpersonale rende conto del fondamento razionale dell’esperienza penale affittiva sul piano fisico e psicologico del reo, ciò operativamente realizzandosi, nell’esperienza comunitaria, mediante il riguardoso rispetto dei beni, materiali e immateriali, della persona.