LA TUTELA PENALE DELLA «DIGNITÀ UMANA»: TRA ESIGENZE DI GIUSTIZIA E DI PROTEZIONE DEL BENE GIURIDICO[1]
di Giovanni Caruso
Sennonché, questo non sembra essere stato il piano inclinato lungo il quale si sono inalveate le conclusioni più concretamente operative del diritto penale dello scopo: l’uomo è mero fascio di impulsi sensibili se autore dell’illecito, e – viceversa – diviene titolare di un’autonoma vita etica e spirituale se vittima del delitto. Non è chi non veda, in tale indebita divaricazione di significati dell’essere personale, il germe infetto della più invincibile antinomia: se, infatti, sul versante del soggetto attivo del reato, “il potere punitivo ha per destinatario l’uomo nell’‘elemento’ natura e non nell’‘elemento’ libertà”[47]; se, in altri termini, il fondamento «antropologico» della modernità penale è costituito dall’uomo sive natura, non si comprende come possa coerentemente asseverarsi che quello «stesso uomo», una volta riguardato come beneficiario della tutela penale, come vittima e non come carnefice, si rigeneri dalle ceneri della propria esistenza meramente ‘animale’, fisica e sensistica, per assurgere ad una vita libera, autonoma e spirituale. In realtà, il sistema, pena la sua intima contraddittorietà, non riesce a tollerare una simile plateale sconfessione, laddove a me sembra che le ragioni delle difficoltà della dottrina nel definire i beni «immateriali» della persona si radichino proprio in tale deficit culturale. Essa, impegnata nel delineare le nuove forme di tutela penale della personalità, dimostra di considerare la persona quasi alla tregua di un «Giano bifronte»: da un canto, il destinatario dei precetti penali è l’essere anomico – e privo di «autonomia» nel senso platonico dell’espressione[48] – che secoli di giusnaturalismo profano ci hanno lasciato in eredità; da un altro canto il medesimo muta fisionomia antropologica laddove riguardato, con un cambio di prospettiva sistematica del tutto banale, dal lato passivo del presupposto «conflitto» interindividuale.
Quindi, per un verso, il penalista – sempre chiuso nella traduzione scientifico-dogmatica del diritto penale della deterrenza e dello scopo[49] in pertinenti interpretazioni di norme ed istituti – si cura di proclamare l’irretrattabile conquista illuministica di una precettistica secolarizzata, posta solo a baluardo di beni sociali «concretamente afferrabili», omettendo, di conseguenza, di riflettere, con profonda ed autentica attitudine problematica, sul significato umano, quindi etico e giuridico insieme, dell’esperienza punitiva nel suo complesso; per un altro verso, sensibilizzato dall’insopprimibile necessità «umana», sempre etica e giuridica insieme, di sanzionare le gravi condotte aggressive delle essenziali componenti spirituali e morali dell’essere personale, con tonante clamore ed inflessibile determinazione ne propugna la strenua tutela penalistica[50].
Sì che, venendo alla seconda conseguenza dianzi evidenziata, si assiste all’insanabile divorzio tra l’esigenza di sottoporre a sanzione comportamenti lesivi di aspetti immateriali, e tuttavia autenticamente costitutivi, della persona, e l’incapacità di offrire solidi plessi di criteri connotativi degli specifici beni tutelati e delle loro modalità di lesione. Quest’ultima incapacità scaturisce, a mio giudizio, proprio dalla «titanica» inadeguatezza della dogmatica, imbevuta di tecnicismo giuridico ed esercitatasi alla palestra meramente esegetica del codice del 1930 – “termine […] ad quem dell’egemonia prevenzionistico-generale”[51] -, ad impegnarsi, in modo pregnante e profondo, nella ricerca degli elementi di «afferrabilità» concettuale del bene nella tutela immateriale della persona. L’origine dell’impasse interpretativa sui delitti di schiavitù si può collocare in tale peculiare contesto causativo.
3. L’indagine «fenomenologica» in rapporto ai delitti contro l’onore
La tormentata vicenda interpretativa in tema di ingiuria e diffamazione (non a torto qualificata, nell’àmbito delle controversie dottrinali prodottesi nel dibattito italiano del secolo scorso, come “scabroso Hintergrund”[52]) costituisce una testimonianza vigorosa di quanto il pregiudizio «oggettivistico» e «fisico-naturalistico» abbia pesato contro la comprensione della rilevanza dei beni immateriali nel diritto penale, e di quanta approssimazione dogmatica ispiri l’accusa d’«inafferrabilità» del bene tutelato[53]. Tale disputa si è tradotta, nel secolo scorso, nella contrapposizione tra la cd. concezione «fattuale» e la cd. concezione «normativa» dell’onore[54].
Nell’intentio legislatoris del 1930 ha certamente prevalso la concezione «fattuale» dell’onore, tendenzialmente riconducibile alla cifra teorica del «positivismo naturalistico», secondo cui sarebbero stati suscettibili di tutela penale solo i beni forniti di consistenza oggettiva estrinseca, percepibile dai sensi. Sì che, alle difficoltà di reperire concreti aspetti materiali e sensibili del bene giuridico «onore», la Relazione al Progetto definitivo del codice Rocco rispose divaricando il bene, e delineando, da un canto, il «sentimento» del proprio onore in interiore homine, e, da un latro canto, la «considerazione» estrinseca del medesimo nella collettività sociale. Di qui, le due oggettività giuridiche, rispettivamente l’«onore» e la «reputazione»: “L’onore che, in senso stretto, rappresenta un bene individuale, protetto dalla legge per consentire all’individuo l’esplicazione della propria personalità morale, racchiude in sé una duplice nozione. Inteso in senso soggettivo, esso si identifica con il sentimento che ciascuno ha della propria dignità morale, e designa quella somma di valori morali che l’individuo attribuisce a se stesso: è precisamente questo che comunemente viene denominato onore in senso stretto. Inteso, invece, in senso oggettivo, è la stima o l’opinione che gli altri hanno di noi; rappresenta cioè il patrimonio morale che deriva dalla altrui considerazione e che, con termine chiaramente comprensivo, si definisce reputazione. In tal guisa è agevole stabilire che il sentimento personale dell’onore viene leso con fatti immediatamente sensibili alla persona, indipendentemente dal loro riflesso sulla opinione altrui e cioè con offese pronunciate alla presenza del soggetto passivo; mentre la reputazione può essere lesa con divulgazione presso gli altri di offese che comunque la sminuiscano”[55].
Dalla lunga citazione emerge chiaramente come, nelle intenzioni del legislatore del 1930, fosse prevalsa la concezione «sensibile» e «fattuale» dell’onore. Come correttamente osserva Musco, secondo detta cifra teorica, l’onore si sarebbe qualificato quale entità “composta di due elementi: da un lato, il sentimento o la consapevolezza che si possiede della propria dignità e, dall’altro lato, la valutazione, la stima, l’opinione che circonda l’uomo nell’ambiente in cui opera ed agisce”[56]. Sì che il bene si sarebbe diviso in due categorie distinte: l’onore «oggettivo» o «interno», rappresentato dal «sentimento» che ciascuno ha di se stesso, e l’onore «soggettivo» o «esterno», ossia la «reputazione», consistente nella stima della quale i consociati beneficano il soggetto. In base a tale dicotomia si sarebbe appunto costruito il sistema: da un lato, il delitto di ingiuria, avrebbe sanzionato i contegni aggressivi dell’onore inteso quale sentimento individuale; da un altro lato, la diffamazione avrebbe protetto contro gli atti aggressivi della stima sociale goduta dal beneficiario della tutela penale.
La suddetta distinzione tra «onore» e «reputazione» è risalente nel tempo, appartenendo alla tradizione giuridica italiana. Va ricordato, infatti, come Francesco Carrara fosse uno strenuo sostenitore della concezione in parola, ed avesse sostenuto la necessità di separare il concetto di «onore», addirittura, in tre distinti concetti: “1) il sentimento della propria dignità; 2) la stima o buona opinione che gli altri hanno di noi; 3) la potenza, inerente ad una buona reputazione, di procurare certi naturali vantaggi”[57]. In effetti, la concezione «fattuale» condizionò non solo talune legislazioni[58], ma anche la dottrina italiana[59].
Non è certo questa la sede per esaminare funditus il tema. Nell’economia di questo lavoro, tuttavia, è utile riassumere i nuclei teorici di sostegno alle critiche sollevate contro l’impostazione «fattuale» e naturalistica dell’onore, le quali, lette in filigrana oltre la considerazione delle singole componenti casistiche[60], a me sembra ruotino tutte attorno agli inconvenienti sistematici della considerazione naturalistica del bene tutelato.
Un primo ordine di critiche dirigeva i propri assunti contro la «collocazione sentimentale» del bene giuridico nel delitto di ingiuria, in uno alla conseguenza di ritenere esistente il bene solo laddove esso fosse presente e concretamente «sentito» dall’offeso, mettendo in evidenza come l’impostazione «fattuale», ove rigorosamente sviluppata fino alle ultime e coerenti conseguenze interpretative, avrebbe comportato l’esclusione della tutela penalistica proprio a favore dei soggetti più bisognosi e meritevoli di protezione, ossia i soggetti non in grado di «percepire» il vulnus al sentimento del proprio onore, come ad esempio sarebbe avvenuto per gli infermi di mente, i dementi, i bambini in tenerissima età: quale la tutela penale dell’onore nei loro confronti? Sarebbe stato, in questi casi, necessario rinunciare alla disciplina sanzionatoria nei loro riguardi?[61]
Il secondo ordine di critiche si indirizzava contro la concezione «naturalsitico-effettuale» del concetto di reputazione, evidenziando i vuoti (ovvero l’insuperabile problematicità) di tutela che si sarebbero determinati a riguardo dei casi di reputazione già pregiudicata, ovvero delle ipotesi di mancanza di una reputazione effettiva, in conseguenza della labilità dei legami tra la persona e il suo ambiente sociale, ovvero, ancòra, dei casi di pluralità di reputazioni radicatesi nell’àmbito del medesimo contesto sociale[62]. A tal proposito, la concezione «fattuale» della reputazione avrebbe dovuto escludere il carattere diffamatorio alle affermazioni che, pur astrattamente oltraggiose, si fossero indirizzate contro soggetti dalla «reputazione fattuale» oramai definitivamente pregiudicata, come poteva avvenire, ad esempio, nei casi di espressione di giudizi infamanti espressi all’indirizzo di soggetti che fossero stati già condannati con sentenza penale[63]. Come noto, la necessità di rintuzzare questo duplice ordine di critiche indusse la dottrina formatasi sulla concezione «fattuale» dell’onore ad apportare due correttivi logico-giuridici.
Il primo, di tipo interpretativo, fece ricorso a temperamenti oggettivi dell’onore e della reputazione, mediante il richiamo alla nozione di «medietà»: i beni tutelati dal diritto penale sarebbero stati, in realtà, solo l’onore «medio» e l’ipotetica reputazione «media»[64], con ciò stesso sconfessando alla radice – indipendentemente dalle difficoltà di accertamento della «media» del sentimento nell’onore o della considerazione sociale nella reputazione – i postulati «naturalistici» delle posizioni di partenza, e conseguentemente snaturando del proprio ubi consistam la stessa concezione «fattuale».