IL SILENZIO AMMINISTRATIVO: SOVRANITÁ O SUSSIDIARIETÁ DELLE ISTITUZIONI?
A PROPOSITO DEL LIBRO DI TORQUATO G. TASSO
di Lucio Franzese

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SOMMARIO:

1. Silenzio sovrano
2. Silenzio sussidiario
3. Autonomia personale e sussidiarietà istituzionale, ovvero l’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive.

1. Da quando è stato formulato il monito che il silenzio della pubblica amministrazione è “un istituto di degenerazione”[1], tutta una serie di studi si è incaricata di evidenziare l’anomalia di tale condotta del soggetto pubblico che, pur essendo una mera inerzia, viene sostanzialmente configurata come una modalità dell’agire amministrativo.

Il volume di Torquato G. Tasso, Il silenzio della pubblica amministrazione – Il paradosso del silenzio come forma di comunicazione tra privato e pubblico, Esi, Napoli 2004, pp. 296, si inserisce in questo filone dottrinario, denunciando, in una prospettiva di teoria generale del diritto, la figura del silenzio amministrativo in quanto ostativa all’instaurazione di un rapporto dialettico, volto cioè al riconoscimento di quanto è comune e di quanto è diverso, tra pubblica amministrazione e cittadino.

A tal fine, l’Autore pone in luce meridiana la “natura enigmatica” (p. 26), la “strutturale insignificanza” (p. 104) del fenomeno, consistendo il silenzio in un fatto di per sé imperscrutabile, per cui sarebbe un artificio equipararlo ad un provvedimento amministrativo, come invece si sforzano di fare dottrina, giurisprudenza e legislazione che, nel tentativo di salvare il cittadino dall’ignavia della pubblica amministrazione, gli attribuiscono un significato, di volta in volta qualificandolo come silenzio rigetto, silenzio rifiuto o inadempimento, ovvero silenzio assenso.

In secondo luogo il libro rivela come paradossalmente il silenzio, da fenomeno patologico, in quanto pura inerzia del soggetto pubblico, sia divenuto, per effetto delle previsioni generali contenute negli articoli 19 e 20 della legge 241 del 1990 sul procedimento amministrativo, forma ordinaria del rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino. Neutralizzando così l’efficacia innovativa di quegli istituti previsti dalla stessa legge che, accogliendo il principio del giusto procedimento e quello della trasparenza, configurano l’attività amministrativa come risultato del confronto tra la posizione dell’amministrazione agente e quella dei cittadini coinvolti dall’esercizio del potere, in superamento dell’idea tradizionale dell’agire amministrativo quale attività propria ed esclusiva dell’organo pubblico.

L’aporia in cui sarebbe incorso il legislatore denoterebbe “quanto sia difficile modificare lo status quo dell’amministrazione” (p. 15), rivelandosi l’istituto del silenzio come il “cavallo di Troia con cui il pubblico reagisce alla inaccettata rivoluzione” (p. 208) prefigurata dalla legge sul procedimento.

Invero, osserva l’Autore, “il Pubblico potrà continuare, a mezzo del silenzio, a dar vita a fattispecie produttive degli stessi effetti sostanziali di un provvedimento, ma che, a differenza del provvedimento, non rispettano i principi generali previsti dalla legge stessa, quali l’obbligo di provvedere, di motivare i provvedimenti, di far partecipare il singolo al procedimento anche attraverso i principi-corollario della trasparenza e del diritto di accesso al procedimento amministrativo. Queste fattispecie non sono infatti frutto di un procedimento che garantisca il privato (e, con lui, la comunità) dell’avvenuta corretta – perché dialettica – individuazione del giusto equilibrio tra i vari interessi in conflitto, non sono motivate, cosa che renderebbe possibile un controllo immediato al singolo (e, con lui, alla comunità), e non permettono, infine, al privato di partecipare alla formazione del provvedimento stesso, condividendo col pubblico, almeno in parte, l’attività amministrativa e facendo valere, in tale sede, i propri interessi. Attraverso il silenzio e grazie al silenzio – conclude quindi l’Autore – il pubblico può continuare ad agire così come aveva sempre agito, con la massima discrezionalità e gratuità e, superando i limiti previsti dalle legge 241/1990, riemerge in modo ancor più prepotente in tutta la sua propria assolutezza. Il Pubblico può così continuare ad amministrare come aveva sempre fatto, ossia in termini di sovranità” (p. 260).

2. L’ultima citazione ci consente di ravvisare con nettezza i punti di accordo e quelli di disaccordo con la prospettiva di Torquato G. Tasso.

Appare del tutto condivisibile la tesi sostenuta, laddove si sottolinea il delinearsi di un nuovo rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione, improntato alla parità delle parti, nel senso che entrambi sono posti, dal legislatore del procedimento, sullo stesso piano nello svolgimento dell’attività amministrativa. Il cittadino non appare più come il mero destinatario dell’agire unilaterale, autoritativo ed esecutorio del soggetto pubblico, come è accaduto a partire dalle leggi di unificazione amministrativa dello Stato italiano. E’ considerato soggetto coamministrante, secondo la pregnante formula benvenutiana, potendo contribuire alla soluzione dei problemi gestionali della comunità di appartenenza, allorché la questione trattata incida direttamente sulla sua sfera giuridica.

Il libro ha dunque il merito di cogliere l’autentica potenzialità del processo riformatore in atto nel sistema amministrativo. Le riserve nei confronti della posizione del Tasso riguardano, invece, la rappresentazione che egli dà del silenzio della pubblica amministrazione. In particolare del silenzio assenso, di cui all’art. 20 della legge sul procedimento, e del silenzio, previsto dall’articolo precedente, che l’amministrazione può tenere sulla denunzia di inizio attività presentata dall’interessato, quali figure suscettibili di distorcere fino ad impedire l’oggettivazione dell’attività amministrativa, che pur il legislatore si era prefisso di realizzare, facendo leva sul contraddittorio tra amministrazione procedente e cittadini coinvolti dalle decisioni che essa va ad assumere. In entrambe le ipotesi, secondo l’Autore, l’amministrazione sarebbe sciolta da ogni vincolo, potendo agire al di fuori di ogni garanzia procedurale, nel senso che essa ricorrerebbe al silenzio, di volta in volta, per avvantaggiare o svantaggiare i cittadini, a seconda che essi siano amici oppure nemici del titolare del potere.

A prescindere dalle applicazioni patologiche, a noi sembra che le figure denunziate rappresentino una discontinuità, rispetto all’ordinamento amministrativo forgiato dal pensiero illuministico e giacobino, e assolutamente imperante fino alla promulgazione della disciplina del procedimento, comportando un passo in avanti sulla strada del riconoscimento della capacità del singolo ad affrontare in prima persona i problemi amministrativi posti dal vivere in società; un incremento, quindi, rispetto agli istituti riconducibili al concetto di coamministrazione. Non si può, infatti, non “ravvisare, all’interno della legge n. 241, una gradualità progressiva tra la partecipazione procedimentale, gli accordi tra amministrazione e privati, l’autocertificazione, il silenzio assenso e la denuncia di inizio di attività, figure nelle quali tutte si esercita la libertà attiva del cittadino”.[2] Queste ultime, in particolare, legittimano il fenomeno dell’autoamministrazione, in quanto consentono al singolo di predisporre da sé il regolamento dei propri interessi, spettando alle istituzioni il compito di valutarne la rispondenza alle effettive esigenze organizzative del consorzio civile. In caso negativo, invero, l’amministrazione romperà il silenzio per disporre il divieto di prosecuzione dell’attività intrapresa dal singolo a seguito della denuncia dell’inizio della stessa, ovvero l’annullamento dell’atto di assenso illegittimamente formatosi nei confronti della richiesta dell’interessato, oltre all’applicazione della sanzione penale da parte dell’autorità giudiziaria qualora gli autoamministrati siano ricorsi a delle dichiarazioni mendaci.

Non sembra quindi condivisibile l’affermazione che, attraverso il silenzio, la pubblica amministrazione possa continuare ad agire come entità sovrana nei confronti dei cittadini i quali, perciò, si ridurrebbero a meri amministrati. In entrambe le ipotesi stigmatizzate, in realtà, essa non irreggimenta dei soggetti considerati incapaci di regolarsi, come nella prospettiva propria del pensiero giuridico e politico moderno che, per giustificare l’assolutezza delle istituzioni, presuppone una società civile quale regno dell’anomia. La pubblica amministrazione, infatti, consente l’esercizio dell’autonomia soggettiva, ossia della capacità del singolo di regolare da sé la propria condotta. Invero, mediante la previsione sia del silenzio della pubblica amministrazione in ordine alla documentata richiesta individuale di poter esercitare un’attività per la quale è previsto un atto di assenso dell’autorità, sia del silenzio sulla denunzia di inizio di attività che il singolo ha intrapreso ritenendo di essere in possesso dei requisiti necessari, il legislatore sembra configurare le istituzioni come sussidiarie nei confronti dell’operato autonomo dei soggetti, per cui l’azione degli organismi amministrativi si esplica solo se e quando l’autoregolamento individuale contrasti o sia insufficiente alla cura degli interessi gestionali dell’associazione societaria.

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