GIUSEPPE PRISCO
di Francesco Gentile
Del diritto naturale come filosofia del diritto sono chiavi interpretative la “idea di giustizia” e la “volontà imperante”.
“Ogni reale diritto si regge su due perni – scrive Prisco – sopra una relazione morale di ordine obbligatorio e sopra un fatto, che individua quella relazione”. Viene portrato un esempio. “Il padre (…) ha diritto di essere obbedito dal suo figlio: in questo diritto trovansi i due elementi accennati. Dall’idea di padre e di figlio sorge la relazione morale di ordine obbligatorio, che il figlio deve dipendere dal padre. Ma se il fatto della generazione non interviene a costituirvi padre, sussisterà quella relazione morale di ordine obbligatorio ma non basterà a costituire un vostro diritto”. Sicché quando s’intende sostenere un diritto, “uopo è sempre sorreggerlo sopra verità ideali e verità di fatto”. Ed è questo l’obiettivo della filosofia del diritto espressa da prisco, nell’ottica di uno spiritualismo “non puro”.
Se mancasse la conoscenza razionale del diritto, avverte Prisco, “vedrete apparire la formula dispotica del Bentham: il diritto è una creazione della legge civile (…), e per determinarne l’origine, la natura e il contenuto altra via non rimarrebbe se non quella di derivarlo dalla suprema autorità civile, mediante il quale il diritto stesso razionale ottiene il più ampio esplicamento. La legge è stata discussa, votata, promulgata; ciò basta, non è da cercare altra ragione che la giustifichi. La legge non varrà più come espressione di un’idea giuridica ma come la determinazione di una volontà imperante. La legalità esteriore sostituendosi cosi alla legittimità (…) l’autorità apparisce come una forzaa, che s’impone da sé ad altre forze minori e che tanto vale quanto i mezzi di repressione e di difesa la fanno valere”. La filosofia del diritto, se correttamente intesa, garantisce che ciò non avvenga, contribuendo, da un lato, ad innalzare “l’esegesi del diritto positivo dall’umile condizione della glossa (..) al grado di una cognizione scientifica”, dall’altro, ad integrare “l’amministrazione della giustizia”.
Si delinea, in relazione al primo obiettivo, una vera e propria teoria dell’ordinamento giuridico al di là e oltre la teoria della norma giuridica. Scrive infatti Prisco: “Il diritto positivo non deve essere una collezione disgregata di leggi, e quasi una massa inorganica, ma dev’essere un sol tutto organico, un sol sistema, con armonia e reciproca influenza di tutte le sue parti. Questa unità, questa virtù organizzatrice, non può sorgere dalle verie leggi che devono venire informate; siccome il principio di vita non può risultare dalla collezione degli atomi che formano il corpo vivente. Quella virtù abile a dare interna colleganza alle singole leggi, uopo è che proceda da una scienza più alta, la quale, col duplice lume de’ risultamenti delle indagini filosofiche e di quelli delle indagini storiche, muova dai principi assoluti della giustizia e con maestrevole costruttura ne congegni l’applicazione in un solo sistema”. E questa, appunto, è la filosofia del diritto, “perché ella soltanto possiede il vital principio informatore di tutte le leggi”. Poco felice l’espressione “possiede”, riferita alla più radicalmente problematica delle modalità conoscitive, ma estremamente significativa l’affermazione della “radice filosofica”di ogni ragionamento giuridico. E sintomatico il ricordo, in proposito, di Cicerone, per avere egli negato “il glorioso nome di giureconsulto a chi, presa esatta notizia delle singole disposizioni del diritto civile, non si cura di scoprire le intime relazioni ch’esse hanno sì tra loro, e sì con quel diritto che lo stesso Cicerone chiama il diritto de’ diritti, la legge delle leggi, vogliamo dire il diritto razionale”. Cioè la filosofia del diritto, secondo la classificazione di Prisco.
D’altra parte, la giurisprudenza, osserva l’abate napoletano, “considerata in se stessa, è meramente applicativa, e le sue formole sono necessarie alla custodia della libertà”. Ora non è pensabile che un codice, per quanto perfetto esso sia, possa abbracciare e prevedere tutti i casi possibile della vita. “Accade bene spesso che il giudice debba sentenziare sopra casi non preveduti dalla legge. Le disposizioni anteriori e le considerazioni vacate dall’analogia potranno indubbiamente essergli di sussidio (…). Ma se tutti questi aiuti gli verranno meno, nell’atto che la sua coscienza e la ragione devono parlare, l’unica sorgente, benché sussidiaria, alla quale egli potrà attingere le norme della sua decisione, è la Filosofia del diritto”. La concatenazione della frase potrebbe far suonare riduttiva la qualifica di “sussidiaria” data della filosofia, se tutto quanto sinora visto non facesse invece intendere come dalla problematizzazione filosofica tragga orientamento ed efficacia ogni aspetto e momento della giurisprudenza, tanto nell’interpretazione del disposto legislativo quanto nella valutazione del precedente giudiziario o nell’argomentazione per analogia. In altri termini, ogni decisione giuridica, in quanto espressione di una “volontà imperante”, potrà dirsi tale, cioè giuridica, a condizione d’essere sostenuta alla luce dell’intelligenza che solo la radicale problematicità della filosofia è in grado di propiziare.
A questo punto si potrebbe, forse si dovrebbe, passare, per una verifica sperimentale, all’analisi puntuale dei singoli istituti e delle sentenze che Prisco fa accuratamente nelle trecento pagine dei suoi Principi di filosofia del diritto. Ma per ora, interlocutoriamente, il discorso si ferma qui.