GIUSEPPE PRISCO
di Francesco Gentile
ma la tesi lockiana poteva avere anche un altro esito. Esercitandosi l’astrazione “pel paragone di molti individui, a fine di coglierne l’elemento in cui essi si rassomigliano, trascurando quello che ne costituisce la differenza, doveva tornare evidente che l’astrazione, a questo modo intesa, anziché spiegare la prima formazione dei concetti universali, ne presuppone l’esistenza nella mente”. Infatti, continua, “cose distinte, in tanto si percepiscono assomigliarsi tra loro, in quanto si scorgono partecipare di una stessa qualità (…). Dunque conviene che la mente nostra possegga già il concetto di questa forma o qualità, capace di essere partecipata loro, accocché per la partecipazione di essa le considerino siccome simili”. Ma qual è l’origine di questi concetti universali in rapporto ai quali si assimilano i singoli individui o dati? “Di certo – risponde Prisco – quei concetti devono essere anteriori ad ogni esperienza; val quanto dire, devono essere forme a priori”. Di qui lo spiritualismo puro, nelle sue varie versioni, tutte caratterizzate dal vizio radicale del “dispregio, più o meno dichiarato, dell’esperienza”: varie versioni in rapporto alla diversa collocazione dell’origine delle “forme a priori”. La versione del “sistema delle idee innate”, nella quale Prisco colloca Leibniz e lo stesso Rosmini per la “idea dell’ente possibile”. La versione del “formalismo”, che sostiene “che lo spirito umano trae dal proprio fondo le forme in virtù di cui pensa gli oggetti, senza saper trovare nel mondo reale un contenuto ad esse forme corrispondente”: in questa Prisco fa rientrare, ovviamente, il caposcuola Kant e, di riflesso o meglio per sviluppo, Fichte, Schelling ed Hegel, nella cui filosofia “la relazione tra il conoscente e il conosciuto è relazione di causa e di effetto (…). Da ciò è nata la sentenza hegelliana che un ente non può conoscere se stesso, se non facendosi per la propria attività realmente un altro”. Infine la versione dello “ontologismo”, “in cui dopo aver provato che le idee non sono né forme né modificazioni dello spirito umano, ma una realtà immutabile, necessaria, eterna ed assoluta, si stabilisce che esse sono soltanto in Dio, ed in Lui vengono contemplate dalla mente umana sin dal principio di sua creazione”: scoperto il riferimento a Gioberti.
E’ questo “Spiritualismo puro”, nelle sue varie e contrastanti versioni, l’autentico avversario, interlocutore, di Giuseppe Prisco, sia pure passando attraverso la critica del Positivismo che dello Spiritualismo puro e della sua svalutazione dell’esperienza è stato reazione immediata. D’altronde, commenta l’abate e filosofo napoletano, “una reazione scientifica era necessaria contro lo spiritualismo puro, sia perché contrario alla natura umana, sia per difetti relativi che i seguaci di ciascuna sua forma mettevano in chiaro in opposizione alle forme diverse dello stesso sistema, sia per meravigliosi progressi fatti dalle scienze fisiche in questi ultimi tempi”. Una reazione che “per la stanchezza intellettiva (…) e per il discredito venuto alle dottrine metafisiche dalle esorbitanze dello spiritualismo puro” si è vanificata nel positivismo, per il quale “le scienze sperimentali e calcolatrici vengono esclusivamente coltivate, e le matematiche diventano scienza suprema, come quelle che sono indispensabili a maneggiare la natura”. Ma è una reazione che Prisco intende vivificare, rivitalizzare e trarre dalle secche materialistiche. Così preciso e pressante l’impegno da farlo esplodere in un’affermazione paradossale: “Ma positivisti veri siamo noi, che esaminiamo i fatti della coscienza, accettiamo i fatti di ogni maniera e le relazioni di essi (…). Cerchiamo il modo con che si producono i fatti del senso, dell’intendimento, della volontà (…) l’unirsi del senso, dell’intendimento e della volontà (…), e non solo l’unione dei fatti sensibili tra loro e degli intellettuali tra loro e dei volitivi tra loro (…), sì dei sensitivi, degli intellettuali e dei volitivi mutuamente”. “Presumere – continua Prisco – che, trascurando l’investigazione di tutto ciò, possa darsi una Filosofia equivale a questo: può darsi la scienza del pensiero, non esamiknando fatti, leggi e cause del pensiero. Ma che gioverebbe mai avere meditato il pensiero, senza intendere gli oggetti del pensiero? (…) il quale sarebbe allora un’ombra vana, un pensare a nulla, un pensare senza pensare”. E conclude: “Conoscenza è unione di soggetto conoscitore e di oggetto conosciuto”. Definizione efficacissima dell’esperienza quale luogo e matrice di ogni successiva conoscenza, perché è nell’esperienza che elemti soggettivi ed elementi oggettivi s’intrecciano problematicamente. Ed è da questo intreccio problematico di soggetto e di oggetto che ogni forma di conoscenza muove, come processo di dipanamento e di inmdividuazione di ciò che è soggettivo, e dunque appartenente al soggetto che conosce nella sua individualità, e di ciò che è oggettivo, in quanto comune a tutti i soggetti conoscenti senza esserna esclusiva, e dunque vale di per sè universalmente.
Per definire questo modo d’intendere la filosofia Giuseppe prisco usa una formula che di primo acchito sembra limitativa, in quanto troppo legata alla polemica, ma che poi, a ben vedere, risulta più conveniente di quanto non appaia, per la carica di problematicità di cui è portatrice. La formula è quella dello “spiritualismo non puro”, “così detto perché colloca il primo obbietto dell’umano intelletto nell’intelligibile appreso nel sensibile, e fa che lo stesso intelletto si aderga allo spirituale per mezzo di concetti tolti in prestanza dagli obbietti sensibili”. Insomma, è il “sistema che spiega l’origine delle idee pel simultaneo concorso del senso e dell’intelletto”; differisce dal puro empirismo che, “confinando l’intelletto nella materiale osservazione del sensibili, accetta il fatto senza brigarsi di penetrarne l’essenza e risalire alle cagioni”; e differisce altresì dall’idealismo che “parte da idee e da principi meramente astratti e così fabbrica essenze, cagioni e fatti con sistematiche astrattezze”. Lo “spiritualismo non puro”, invece, “accetta il fatto di natura e, lasciando al senso l’apprensione del sensibile (…) dà all’intelletto la virtù di penetrare l’essenza e le leggi metafisiche dell’essere”. E’ a questo punto che il concetto tomistico di astrazione viene chiamato in causa e fatto valere come risolutore del problema dell’origine delle idee, per il quale bisogna rendere ragione di due coe: La prima è di trovare la ragione per la quale l’essenza delle cose materiali possa essere astratta dalle sue proprietà individuali (…). La seconda è di vedere il modo, come in virtù di questa astrazione si possa generare nell’intelletto l’immagine intelligibile dell’oggetto, ossia l’idea di esso”. Non seguiremo l’abate in questa dimostrazione teorica che per motivi d’ordine didattico egli dà nella sua “ideologia generale”, incorrendo inavvertitamente nella trappola dell’astrattezza idealistica precedentemente stigmatizzata, benché si debba riconoscere come anche in questo frangente la sua attitudine dialettica appaia vigile nelle argomentazioni puntuali. Ne seguiremo invece, per concludere, gli effetti nell’ambito della Filosofia del diritto.
“Compito della filosofia del diritto – scrive Giuseppe Prisco – è di muovere dal principio donde nascono gli umani diritti e mostrare, per una concatenata serie di deduzioni razionali, l’ordine che essi hanno così tra loro come col principio dal quale rampollano, e tale loro principio è l’umana natura considerata in tutte sue essenziali relazioni e nella integrità del suo naturale svolgimento”. Così definito il compito della filosofia del diritto, a prima vista sembrerebbe che quella proposta da Prisco non fosse una vera e propria “filosofia”, quanto piuttosto una “teoria generale” del diritto, considerato che la procedura ipotetico-deduttiva proposta non è conveniente ad uno studio filosofico, che implica la radicalità della problematizzazione e che non può dare per presupposto alcunché. Mentre lo sarebbe, del tutto conveniente, ad uno studio scientifico in senso stretto, che procede per ipotesi, deduzioni e verifiche sperimentali. Certo è che l’assunzione della natura, “considerata in tutte sue essenziali relazioni e nella integrità del suo naturale svolgimento” come ipotesi pone dei problemi. Che senso, infatti, può avere un’affermazione del genere: la natura è il principio ipotetico della teoria generale del diritto? Perché, se è natura (ovvero essenza), non può essere un’ipotesi e, se di ipotesi si tratta, quella di cui si tratta non può essere natura (o essenza). Il problema quindi si sposta sul significato dell’espressione “natura”, ed è appunto ciò che avverte lo stesso Prisco, il quale, sotto forma di discussione delle formule con le quali allora veniva designata la Filosofia del diritto, affronta l’aporia, apparente, della sua definizione e ne esplica l’autentico significato.
“Da molti, la filosofia del diritto è chiamata diritto razionale, in quanto diversa dal diritto positivo”. Viene citato in proposito il Lehrbuch des Vernunftrechts und der Staatswissenschaften di von Rotteck. “Altri la chiamano diritto di natura, ma – aggiunge Prisco – si è tanto abusato di codesta voce natura che, a poco a poco, anche persone più che mediocremente istruite ne hanno smarrito il vero significato”.
Della parola “natura” Giuseppe Prisco isola tre significati. L’inclinazione che nasce dal “principio interno al soggetto che opera”, come l’elasticità di una molla o le funzioni vitali ed istintive di animale. Ciò che un essere porta seco nascendo e che perciò si trova in ogni individuo, anche isolatamente preso. Ciò che si contrappone all’arte, nella stessa maniera per cui si contrappone un effetto nato da un “principio intrinseco” a quello che ha origine da un “principio estrinseco”. Donde gli abbagli che vengono presi a proposito della formula “diritto di natura”.