GIUSEPPE PRISCO
di Francesco Gentile
Terza grande opera di Giuseppe Prisco sono i Principi di filosofia del diritto sulle basi dell’Etica, apparsi nel 1872. Per questo suo lavoro Prisco usa un’espressione estremamente significativa: “diritto filosofico”, cioè studio filosofico del diritto. L’opera è divisa in due parti: quella dedicata al “diritto individuale”, che è “il complesso di quelle norme di giustizia secondo le quali isingoli individui umani possono operare per fini individuali conseguibili con azioni individuali” e quella dedicata al “diritto sociale”, che è poi “il complesso di quelle norme di giustizia, secondo le quali gli individui umani possono operare come membri di una comunità pel conseguimento del bene comune”. Dei Principi di filosofia del diritto Prisco sviluppò solo la parte relativa al “diritto individuale”, rinviando ad un lavoro successivo la trattazione del “diritto sociale”; “scoprire le supreme norme giuridiche di questo movimento sociale dell’umanità – scrive – a cominciare dalla norma semplicissima del coniugio sino al termine finale, cui ella aspira, è il contenuto razionale del diritto sociale dalla cui esatta determinazione può procedere la concordia fra gli uomini ed ogni umano progresso”. Ma questo nuovo lavoro non vedrà mai la luce e tra il 1872, data di edizione dei Principi, e il 1896, data del suo abbandono dell’attività scientifica, intercorre un numero di anni tale da far pensare a motivi diversi da quello della mancanza di tempo per spiegare il mancato compimento dell’opera. In realtà, con la definizione del soggetto del diritto sociale, Giuseppe Prisco si era messo su di un sentiero pericoloso. Aveva scritto: “Il subietto giuridico del diritto individuale è la fisica personalità individuale; quello del diritto sociale è la personalità sociale. Difatti, una mente che delibera intorno ai mezzi da scegliere per il conseguimento di un fine, una volontà che liberamente sceglie tra essi ed un potere che reca a compimento i giudizi dell’una ed i voleri dell’altra sono i caratteri essenziali di ogni vera persona, la quale perciò ha una manifestazione nella coscienza di sé medesima come intelligente ed operante. Ora la deliberazione, l’elezione e l’azione o è il fatto di una personalità fisicamente una o è il fatto di molte operanti a guisa di una sola. Nel primo caso hai la personalità individuale, nel secondo hai la personalità sociale, collettiva o morale che dir si voglia. La prima è il subietto del diritto individuale, la seconda il subietto del diritto sociale”. Di più, in una nota, Prisco è drastico nell’affermare: “La persona morale non è mica un’astrazione e una finzione giuridica; bensì una vera personalità e più ricca di vita della stessa fisica persona individuale”. E’ ben vero che precisa: “La persona collettiva e morale è sempre l’uomo, in una forma di vita superiore e sociale; essa quindi è così naturale, reale, viva come cosa naturale, reale e viva è la società umana”. Ma poteva ingenerare l’idea di una persona sociale, collettiva o morale separata e magari sovraordinata alla coscienza della persona individuale, il che non poteva non creare una serie di difficoltà teoretiche insolubili. Il silenzio in proposito seguito potrebbe quindi essere il segno della resipiscenza critica, derivante dalla consapevolezza, acquisita, dell’aporia in cui per quella strada ci si andava a cacciare. Ma di ciò, per ora, basta.
In sintesi: la sequenza e la partizione delle opere maggiori di Giuseppe Prisco, divise formalmente in paragrafi con numerazione progressiva, potrebbe dare l’impressione di un sistema, cioè di una costruzione dello spirito analoga o simile a quella idealistica di stampo hegeliano. Niente di tutto questo corrisponde al suo disegno, perché di un disegno in realtà si tratta, donde l’importanza dell’ordine, ma di un disegno pedagogico, conveniente al suo magistero filosofico. Quello a cui Prisco mira è un ‘educazione filosofica e i suoi scritti sono funzionali ad essa. in una “Avvertenza dell’Autore”, sulla quarta di copertina dei Principi di filosofia del diritto, si legge: “Due cose avremo massimamente in pensiero: la prima è che i giovani vengano addestrati ad un severo raziocinio, la seconda è che ad essi non manchi mai una piana ragione scientifica (l’aggettivo qui indica in genere il sapere e specificamente il sapere filosofico) che li riconfermi nelle verità più importanti e li ponga in istato di rintuzzare gli errori più comuni”. Ogni commento sarebbe superfluo. Si capisce così anche il ruolo che in tale disegno esercita il “ritorno a San Tommaso”, o meglio, solo in tale disegno si capisce il significato del “ritorno a San Tommaso” che Prisco. allievo del Sanseverino, propone. Non in termini archeologici o nostalgici. Anche se non mamca, in Prisco, un senso doloroso della condizione dell’uomo moderno nel quale “si osserva un combattimento di qualità contrarie, un cozzo furioso di desideri, un misto di turbinosa operosità e diu stanchezza, uno sforzo incessante ad aspirazioni sublimi contrastato da effetti mediocri, una lotta dolorosa tra la grandezza delle idee e la impotenza dei fatti”. Al quale si accompagna la memoria di un dato capitale: “Il divorzio tra la vita speculativa e la pratica, ch’è la malattia della scienza moderna, era ignoto alla savia antichità, ed in nessun luogo meglio, che in questa investigazione, viene in luce l’indole propria della filosofia socratica, ed il valore morale del celebre suo detto – conosci te stesso – scritto non senza ragione a caratteri d’oro sul tempio di Apollo, quasi fosse un pronunziato divino”. E nemmeno in termini reazionari. Anche se il recupero di San Tommaso viene affidata la “rinascita” del pensiero critico, di un pensiero capace di penetrare l’esperienza, cogliendone il principio unificante e vitale.
Insomma, Giuseppe Prisco scrive per rinnovare nei giovani allievi, chierici o laici che fossero, l’abito filosofico. Sicché i suoi testi sono carichi di argomenti dialettici, in continuo confronto con le tesi più correnti e radicate, a contatto con tutti i principali pensatori del secolo e, in genere, della cultura moderna, post-cartesiana.
All’inizio, abbiamo affermato che l’interlocutore polemico dell’abate e professore napoletano è il Positivismo, e non v’è dubbio che così sia. “Arricchito con le dovizie dei fatti e coi miracoli delle industrie, che formano l’onore dell’età presente (…), l’antico materialismo si è risvegliato e tenta un supremo assalto contro la fillosofia spiritualistica di ogni forma. La lotta è oggi viva e più terribile sarà domani, se l’unione più intima non regnerà fra i veri filosofi e gli sforzi di tutti non si volgeranno unanimi a combattere il nemico comune. Usciti dalla scuola sensualistica del passato secolo (…) predicano solo fatti e storia; (…) amano intitolarsi Positivisti. A parer di questi nuovi Titani che, niente più modesti degli antichi, mirano a dare la scalata al cielo, la ragione umana è l’esperienza aggrandita, le idee sono i rapporti astratti dai fatti, la filosofia la somma delle scienze naturali; la psicologia, la fisiologia e la cranioscopia formano una sola scienza; la morale un ramo dell’igiene; il sentimento religioso un caso patologico e un sintomo di demenza. Dio, lo spirito umano, la vita avvenire, il diritto, il dovere, la libertà (…) sogni metafisici. Materia e forza: ecco tutta la realtà”. “Non parlate ad essi né di principio né di fine. La natura è un cerchio (…) che non ha né entrata né uscita (…). Non vi ha né cominciamento né termine; perché tutto ricomincia incessantemente e la legge, che presiede al dramma della vita universale, bè il suo eterno divenire”.
Ai Positivisti, che usurpano a suo avviso il nome, Prisco chiede perché si fermino a metà strada nella loro azione distruttiva della filosofia. Con singolare preveggenza, che non è tuttavia se non capacità di radicalizzazione teoretica, scrive: “Perché Positivisti e non Nullisti, domando io? Andate innanzi, correte al termine, vincalza la vostra unica guida, la legge della natura. Se l’unica realtà è la materia soggetta ad una vicenda di continue trasformazioni, la vostra scienza non può sottrarsi a questa legge, e nata oggi dovrà perire domani. Non se ne può sottrarre ne anco la vostra esistenza, quel fenomeno passeggero dell’eterno lavorio della natura; e l’ultima parola delle vostre mendaci promesse sarà il grido disperato del più rigido panteista contemporaneo: Riguardiamo – egli dice – la nostra esistenza come un sogno che turba il dolce e felice riposo nel nulla”. La citazione è tratta da Parerga u. Paralipomena di Schopenhauer.
Ma il Positivismo non è l’unico, e forse neppure il principale, avversario, interlocutore, di Prisco, il quale anzi ne spiega il successo come reazione allo “spiritualismo puro”. Per intendere che cosa sia questo “spiritualismo puro” da cui per reazione discende il Positivismo bisogna, secondo Prisco, risalire a Locke ed in particolare alla sua concezione della “natura dell’astrarre”. “Da Locke in poi si intese per astrazione quella operazione dell’intelletto mediante la quale si rimuovono dagli oggetti percepiti dal senso, l’una dopo l’altra, le qualità sensibili, finché rimanga quella qualità nella quale essi convengono. Ora – continua con grande acutezza critica e chiarezza pedagogica – ammessa come inconcussa questa dottrina, due vie si paravano a seguire nella genesi della conoscenza intellettiva (…), il sensismo, cioè, e lo spiritualismo puro”.
Come si arriva al sensismo? “L’astrazione, finché lavora sopra i dati amministrati dai sensi e semplifica la percezioni sensitive, può trovare solo quella qualità in cui convengono tutti gli oggetti sensibili. Per tal guisa il contenuto dell’intelletto è quello del senso, benché percepito in diverso modo. Ma se v’è questa identità nell’obbietto del senso (…) e dell’intelletto con differenza solamente accidentale, quale è quella che nasce dal vario modo di percepire lo stesso obbietto, in sostanza senso e intelletto sono tutt’uno”. Concludendo, risulta coerente “rimuovere l’intelletto come facoltà distinta dal senso” e cercare di mostrare “come le funzioni che si attribuiscono all’intelletto sono una successiva trasformazione del senso”. “Ecco il sensismo di Condillac – esclama il nostra abate – come illusione ottica dell’astrazione lockiana”.