L’INFOSTRADA DELLE COMPRENSIONI
Lo studio del Talmud come modello ipertestuale
di Umberto Piperno
E’ interessante notare come a distanza di due secoli e mezzo tra Luzzatto e Krupnick vi sia una sostanziale convergenza rispetto agli elementi del discorso talmudico:
IN LUZZATTO |
IN KRUPNICK |
1. MEMRA’ SHEMUA’ PERUSH DIUQ AGADA’ |
1. PERUSH |
2. SHEELA’ Domanda |
2. SHEMATATA’ |
3. TESHUVA’ |
3. SHEELA’ |
4. SETIRA’ |
4. QUSHIA U PERUQ |
5. REAIA’ Prova inconfutabile |
5. SIIUA’ |
6. QUSHIIA’ |
6. REMIA’ simile |
7. VE TERUZ |
7. AZRACHA’ |
8. |
8. HILCHETA’ |
Notiamo come Krupnick scomponga la spiegazione in due parti : Il n.3 corrisponde totalmente ,mentre il tentativo di abbattere il castello di ipotesi la Sitra’ del n.4 di Luzzatto si ritrova al n. 6, REMIA’ .
Dopo la carrellata di modelli interpretativi della comunicazione giuridica resta da analizzare l’altra componente fondamentale del discorso talmudico, il discorso omiletico-narrativo chiamato Haggadà.
Questa parte viene ad essere l’altra faccia del discorso giuridico, nella stessa immagine haggadica il “volto divino” che sorride. Questa materia ha fornito la base delle elaborazione filosofiche e mistiche dell’ebraismo, nascondendo nel suo linguaggio “la verità e la divinità della realtà” nel suo discorso allusivo ad una realtà superiore.
Se gli studiosi delle accademie hanno spesso sottovalutato le haggadoth, relegandole in un’opera apposita che le raccogliesse, chiamata “ ‘Ein Ia’qov”, spesso consultata come letteratura secondaria, particolarmente nel nostro secolo, lo studio dell’ Haggadà ha contraddistinto l’interesse per gli studi ebraici, dai suoi enunciati filosofici fino alla sua aneddotica. Non è nostro intento nell’ambito di una produzione giuridica affrontare la letteratura haggadica, ricordando però come il Talmud stesso ne faccia derivare l’origine direttamente dal Sinai (T. P. Meghillà IV). Per questo le due parti si trovano continuamente integrate tanto da formare un unico discorso: arriva il momento in cui la legge orale e la parola divina, messe per iscritto in un linguaggio umano contribuiscono insieme, con le parole di Luzzatto, “ a rafforzare la conoscenza della divina saggezza”, per facilitare ha deciso di fornire le chiavi per una comprensione immediata e alla portata di qualsiasi studente. Il problema fondamentale e delicatissimo è di natura interpretativa: in quali casi possiamo accettare letteralmente le storie e le leggende dei saggi e quando invece possiamo comprenderle in senso allegorico come una metafora? Secondo un estremo perdiamo il senso letterale, nell’altro applicando l’interpretazione letterale cadiamo in conclusioni diverse dal dettato legislativo o in immagini divine che rasentano l’antropomorfismo. L’uso giuridico dell’ haggadà è quindi estremamente ridotto, senza tuttavia considerarne le sue parti semplici digressioni o riflessioni suggerite dalla vicinanza di tempi o di luoghi.
La mancanza assoluta di segni di interpunzione non permette di distinguere le due parti, anzi l’intenzione del redattore è di allargare la lettura critica del testo con una gamma possibile di interpretazioni, secondo il verso che dice: “il Signore ha affermato una cosa, io ne ho ascoltate due”; come un fuoco che sprizza da un martello in innumerevoli scintille. Per concludere, lo stesso termine" Midrash", parallelo ad Haggadà viene da un verbo "darash" che significa ricercare, indagare la verità della parola divina. Scrive ancora Rosen:
Gli ebrei, al contrario di ciò che si pensa comunemente, hanno anche loro un Nuovo Testamento che si chiama Talmud. In realtà si tratta di svariati nuovi testamenti che si schiudono l’uno dentro l’altro per poi tornare al testamento biblico originario, e spesso diventa estremamente difficile capire se è venuto prima il verso o il suo commento.
L’uomo viene così intrappolato nella rete e, in sintonia con quello spirito senza tempo che permea tutto il Talmud, lo si può immaginare ancor oggi lì che studia.
Ma anche se si potesse passare tutto il proprio tempo a studiare, il vasto mondo del Talmud è comunque incompleto. Nella redazione talmudica infatti vi sono diverse parti mancanti, parecchi errori di trascrizione tramandati da una versione all’altra, numerose mistificazioni introdotte da scribi di generazioni successive. I pesi e le misure che hanno così tanta importanza per alcune dispute talmudiche sono diversi da quelli che utilizziamo oggi; il tempo è misurato dall’orologio delle stagioni di un clima che non ha niente a che vedere con quello in cui vivo. Vi sono discussioni dettagliate, vecchie di duemila anni, riguardanti pratiche del Tempio che svanirono per sempre tra le macerie della distruzione romana. Vi sono questioni insidiose di cui non si arriverà mai a capo a prescindere da quanto tempo vi si passi sopra, riguardanti che tipo di autorità e influenza avessero esercitato i rabbini talmudici sulla vita di una massa di ebrei privi di istruzione. C’è poi il mistero più grande di tutti, come possa cioè un documento che è stato inconfutabilmente creato dall’uomo, e che consiste sostanzialmente in dispute, liti e disaccordi illimitati, avere lo statuto di libro scritto o perlomeno ispirato da Dio.
La soluzione, forse, sta nel cercare di non abbandonare il passato facendo comunque in modo che ogni frammento conservi lo spirito del tutto proprio come fece Hillel quando riuscì a dare un consiglio duraturo e incandescente all’uomo desideroso di convertirsi pur dicendogli che si trattava dell’inizio e non della fine.
Nel trattato Menahot, a un certo punto, i rabbini immaginano quello che doveva essere capitato a Mosè quando è salito sul monte Sinai per ricevere la Torah. In questa versione (ce ne sono parecchie) Mosè ascende al cielo e vi trova Dio impegnato a decorare le lettere della Torah con ornamenti a forma di coroncine. Mosè Gli domanda che cosa stia facendo e Dio gli risponde che in futuro ci sarà un uomo di nome Aqiva, figlio di Giuseppe, che edificherà un’intera montagna di leggi ebraiche proprio su questi ornamenti ortografici. Incuriosito, Mosè chiede a Dio di mostrargli quest’uomo. Dio gli risponde di «andare indietro di diciotto file» e all’improvviso, come in un sogno, Mosè si trova in un’aula dove si sta tenendo una lezione e il maestro non è niente meno che il rabbino Aqiva. Dio ha consigliato a Mosè di andare al fondo dell’aula perché è lì che siedono gli allievi più giovani e meno istruiti.
Aqiva, il grande dotto del primo secolo, è intento a spiegare ai suoi discepoli la Torah ma Mosè non è assolutamente in grado di seguirlo, è troppo complicato per lui. Mosè si rattrista ma, improvvisamente, uno dei discepoli chiede ad Aqiva come fa ad essere così sicuro della verità di una certa affermazione e Aqiva risponde: «Fa parte di una legge che Mosè ha ricevuto da Dio sul monte Sinai.» Nell’udire questa risposta, Mosè si sente tutto soddisfatto, ma non può resistere alla tentazione di domandare a Dio com’è che, se esistono uomini intelligenti come Aqiva, ha deciso di dare proprio a lui il compito di portare la Torah agli uomini. A questo punto Dio si spazientisce e gli risponde, «Silenzio! E’ la mia volontà!»
Il povero Mosè dunque, l’uomo prescelto per ricevere la Torah, non è solamente il peggiore della classe, ma viene zittito da Dio come fosse uno studente disubbidiente. In un altro racconto del Talmud, Mosè passa quaranta giorni a studiare il Talmud con Dio ma non appena finiscono dimentica tutto all’istante. In questo Mosè è uguale a tutti noi che, come ci dice il Talmud, studiamo la Torah nel ventre materno ma finiamo per dimenticarla quando, appena prima di nascere, un angelo tocca le labbra: quel che conta in fondo è il processo di apprendimento, non quel che si impara.
Non capita solo alle figure del passato di sentirsi ignoranti rispetto alla conoscenza del futuro. I rabbini descrivono anche la situazione inversa, perseguitati come sono dallo spettro dell’ignoranza e del fallimento, e come potrebbe essere altrimenti? In fondo traducevano uno stile di vita in un altro. Il giudaismo del Tempio divenne il giudaismo rabbinico della Legge orale, la Legge orale a sua volta si trasformò in trascrizioni di discussioni e le trascrizioni vennero poi codificate in leggi vere e proprie. Tutto questo può essere considerato un immenso atto di traduzione che si dischiude nei secoli, e tutti sappiamo che ogni processo di traduzione implica sempre delle gravi perdite.
Così Paccagnella9) scrive nel suo libro "La comunicazione al computer" analizzando il linguaggio della comunicazione mediata :
" Qualsiasi interazione in rete, se possibile più ancora di altre situazioni, non può che svolgersi interamente all’interno del linguaggio. L’interazione in rete è costituita esclusivamente da atti comunicativi: esiste e viene riconosciuto solo colui che comunica. Per questo sono particolarmente importanti i processi di sviluppo di un linguaggio specifico, che tenga presenti i limiti e le possibilità offerte dal medium e che renda gli attori capaci di condividere senso e significato di ciò che fanno all’interno degli ambienti virtuali.