Legge e contratto oggi*
di Lucio Franzese
Postulando il privato come atomo sociale, inetto ad intrattenere rapporti che non siano nell’arbitraria disponibilità del soggetto agente, come fa la geometria legale, si perviene fatalmente a ravvisare nel soggetto pubblico una forza ordinatrice eteronoma ed artificiale [70] . Lo Stato moderno, lo Stato cioè concepito dalla scienza giuridica moderna, infatti, esercita il controllo sociale sovrapponendo la propria volontà a quella degli individui, intesi come refrattari ad ogni regola che non sia loro coattivamente imposta dal soggetto pubblico sorto dal contratto sociale; in forza del quale il singolo si identifica nella volontà dell’uomo o assemblea di uomini che assume la sovranità, la posizione cioè di chi è al di sopra di tutti gli altri [71] .
In tale ottica, si rivela essenziale l’azione della pubblica amministrazione, per la sua spiccata invasività della sfera individuale. Facendo leva sulla nozione di interesse pubblico, quale manifestazione della volontà sovrana, la pubblica amministrazione agisce infatti a mezzo di atti che, per definizione, sono unilaterali, autoritativi ed esecutori [72] . Ma anche l’atto contrattuale risulta omogeneo al disegno geometrico del pensiero giuridico moderno, qualora venga ridotto a mero simulacro mercè l’attribuzione di prerogative all’amministrazione [73] , in tal modo oggettivandone il potere, irrinunciabile ed inesauribile secondo l’icastica definizione di Mario Nigro [74] . Tant’è che, come è stato coerentemente osservato, “se si ha potere pubblico non può aversi vero accordo nel senso del diritto, e se vi è accordo non può aversi potere irrinunciabile ed inesauribile” [75] .
L’autentico accoglimento della contrattualità nella vita amministrativa mette in moto un meccanismo per il quale, come è stato evidenziato, “si consumano o si vanificano allo stesso tempo sia la vecchia autorità del potere politico sia l’altrettanto vecchio arbitrio del soggetto privato” [76] . Invero il contratto, per la sua strutturale bilateralità ed impegnatività, richiede negli stipulanti l’attitudine ad accordarsi per il raggiungimento di fini comuni, e la capacità di rispettare gli impegni assunti, anche in caso di mutamento della propria volontà. Ciò comporta, in ultima analisi, la problematizzazione dell’incapacità del singolo ad autoregolarsi e, specularmene, della necessità del carattere potestativo dell’azione pubblica [77] che, come si è detto, costituiscono i due poli, rispettivamente di partenza e di arrivo, del ragionamento ipotetico-deduttivo e con finalità operativa sviluppato dalla geometria legale.
Con l’apparire del contratto sulla scena amministrativa, le istituzioni della comunità politica sono state chiamate, come testimonia il coevo accoglimento nel nostro Paese del principio di sussidiarietà, a favorire l’incontro negoziale tra cittadini e pubblica amministrazione e a controllare che lo scambio di prestazioni, da essi prefigurato, non sia pregiudizievole per la vita associata [78] . Ciò non significa, si badi bene, subordinare il contenuto dell’intesa negoziale o la sua stessa esistenza alla potestà del soggetto pubblico che, in quanto parte di un impegno paritario e reciproco, non può unilateralmente incidere sull’assetto concordato né, tantomeno, svincolarsi dallo stesso, invocando il mutamento dell’interesse pubblico. L’approccio negoziato alla gestione amministrativa, con la previsione di reciproche attribuzioni patrimoniali tra pubblica amministrazione procedente e cittadini interessati in vista dell’organizzazione e disciplina di una attività loro comune, esclude la configurabilità di poteri unilaterali delle parti, le quali potranno far valere soltanto i rimedi previsti per i vizi genetici e funzionali del sinallagma [79] .
Il fondamento del ricorso al contratto da parte della pubblica amministrazione e, quindi, la simmetricità di quest’ultima nei confronti del cittadino coamministrante sembrano rinvenibili in uno dei principi cardine delle riforme dei nostri anni: la distinzione tra attività politica o di indirizzo e attività amministrativa o di gestione [80] . La prima attiene all’opera di orientamento della comunità verso quei fini che consentono ai suoi appartenenti di sviluppare la propria personalità: la funzione politica concerne, infatti, il riconoscimento di quanto è necessario per la res publica e, quindi, per la vita integralmente realizzata dei consociati. La funzione amministrativa, invece, riguarda l’attività di attuazione delle direttive impartite dalla politica, la predisposizione cioè degli strumenti a ciò necessari. Per la sua implementazione, infatti, l’indirizzo politico deve essere confidato alla gestione amministrativa, sussistendo tra le due funzioni il rapporto tra fine a mezzo.
La distinzione concettuale appena richiamata esclude l’uso del contratto nel campo politico, a differenza di quello amministrativo dove l’atto negoziale, con cui si concorda il regolamento degli interessi in gioco, si palesa perfettamente compatibile con il carattere strumentale dell’attività.
Il problema dell’agire politico è quello di formalizzare la ragione dello stare insieme nell’associazione societaria. Si tratta cioè di individuare il principio aggregante la comunità e di rappresentarlo ai consociati che, qualora si riconoscano in esso, ne richiedono ai proponenti l’incarnazione nell’orientamento della vita comunitaria [81] . Non vi è spazio per la logica contrattuale, postulante la ricerca delle reciproche convenienze dei contraenti che, in vista di ciò, si scambiano prestazioni e si impegnano a condotte future. L’attività politica si esplica dunque in un atto di mero accertamento, in quanto tale insuscettibile di essere negoziato, ma soltanto di essere articolato in un programma con riguardo ai singoli aspetti dello stare insieme nell’associazione societaria.
Quando si tratta di attuare il progetto politico, traducendo gli obiettivi predeterminati in concrete scelte operative, e veniamo così al compito dell’attività amministrativa, ben può ricorrersi alla figura contrattuale, cui va riconosciuto il pregio di coinvolgere i singoli nella soluzione delle questioni organizzative di loro interesse, mediante l’assunzione di obblighi nei confronti della pubblica amministrazione che a sua volta si impegna a determinate prestazioni nei loro riguardi. Per tal modo la persona partecipa attivamente e responsabilmente all’attività esecutiva dei fini ultimi, in quanto aggreganti la comunità, predisponendo gli strumenti atti a realizzarli nella questione che lo riguarda direttamente. Ciò significa che il singolo è posto in grado di esercitare la sua capacità di autoregolazione nella sfera civica, valutando l’impatto del proprio operato sulla vita del gruppo cui egli appartiene. La pubblica amministrazione, dal canto suo, si confronta con gli interessati, rimanendo indissolubilmente vincolata alla parola data, in quanto la sua prestazione è sinallagmatica a quella del coamministrante.
In definitiva, la contrattualità amministrativa non sembra giustificare alcuna specialità di regime a favore della pubblica amministrazione, la quale deve ritenersi assoggettata al diritto dei contratti, un diritto cioè comune a quanti si accordano per costituire modificare o estinguere un loro rapporto giuridico patrimoniale [82] . Non sembra consentita, in particolare, alcuna discrezionalità del contraente pubblico in ordine alla possibilità di recedere dall’impegno assunto. Tant’è che l’aver dotato di una posizione asimmetrica la pubblica amministrazione, la quale può unilateralmente sciogliersi per sopravvenuti motivi d’interesse pubblico, ha votato all’insuccesso la figura pattizia prevista della legge sul procedimento amministrativo [83] . Al cittadino non risulta, infatti, conveniente impegnarsi in trattative con la pubblica amministrazione e raggiungere un accordo, sapendo in partenza che essa potrà porlo nel nulla in nome dell’ineffabile interesse pubblico.
E’ alle istituzioni politiche che spetta di valutare la rispondenza dell’agire amministrativo, e quindi del contratto a tal proposito stipulato tra cittadino e pubblica amministrazione, agli obiettivi da esse predeterminati. Tanto è vero che il cambiamento dell’input politico pone in discussione il contratto stipulato per finalità non più ritenute proprie della polis. In questo caso, infatti, non è l’amministrazione a poter mutare volontà, bensì sono le esigenze della vita comunitaria a privare il contratto della sua stabilità, appunto perché essendo questo una modalità esplicativa dell’amministrare, di un’attività cioè strumentale nei confronti del bene comune, non è dotato di alcuna autoreferenzialità.
E’ chiaro che ci riferiamo alla fisiologia della relazione tra politica e amministrazione, ad un’azione cioè che è politica non in quanto si svolga all’insegna del potere ma perché è diretta a soddisfare le esigenze di benessere della vita associata, affidando all’amministrazione il compito di scegliere i mezzi efficaci e più efficienti tra quelli di cui la comunità dispone. Viceversa nel caso patologico di amministrativizzazione della politica, di riduzione cioè dell’indirizzo a mera gestione, si determinerebbe l’asservimento del contratto al potere sovrano: parità e stabilità contrattuale verrebbero infatti ad essere sacrificate alla volontà della parte pubblica, mentre quando l’amministrazione contratta viene in rilievo quel diritto comune la cui funzione peculiare è garantire agli stipulanti le stesse chance. Come al singolo non è consentito di sciogliersi, al cambiamento degli obiettivi che lo hanno determinato all’azione, così la pubblica amministrazione non può recedere o risolvere al mutamento del proprio volere, il quale sarebbe espressione di ragion di Stato e non d’intelligenza politica, secondo l’insegnamento di Francesco Gentile.
5. A cavallo tra il XX e il XXI secolo, abbiamo assistito ad un caso di contrattualizzazione dell’attività amministrativa particolarmente rilevante: il contratto si è affermato quale fonte del rapporto e della disciplina nel lavoro con la pubblica amministrazione [84] . Per rimediare alla giungla normativa e retributiva esistente in materia, ci si è affidati all’autodisciplina di datori e prestatori di lavoro, in quanto diretti interessati. Si è pertanto sostituito l’atto di autonomia alla legge e ai provvedimenti amministrativi, implicanti una disciplina eteronoma, e così si è posto fine alla pratica e alla teoria del pubblico impiego, che per circa un secolo aveva dominato il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione configurandolo come un ordinamento speciale [85] .