Legge e contratto oggi*
di Lucio Franzese

Indubbiamente sono le law firmer i soggetti attrezzati per redigere gli schemi negoziali meglio rispondenti alle esigenze del commercio internazionale, in modo da consentire una circolazione celere e al tempo stesso sicura di beni e servizi oltre le frontiere statali. Tuttavia essi esplicano, fondamentalmente, un’attività di traduzione tecnico-giuridica di quelle pratiche commerciali che sul mercato, grazie al contributo della generalità dei suoi avventori, si affermano per la loro efficacia operativa [21] . La rappresentazione del Galgano sembra invece fondare la contrattualità sul carattere potestativo del commercio internazionale, sull’imposizione esercitata dai grandi operatori economici, disconoscendo così il ruolo che, ai fini della rinascita della lex mercatoria, è svolto dai singoli imprenditori allorché essi provvedono a fissare le regole delle loro relazioni commerciali – anche riferendosi ai prospetti contrattuali predisposti dagli imprenditori leader nei singoli settori di mercato – e poi alle stesse si conformano nell’esecuzione dello scambio negoziale [22] .

Quando poi il Galgano propugna la validità dei contratti atipici sulla base della loro diffusione internazionale, in quanto il giudice chiamato a sindacarne la meritevolezza degli interessi perseguiti sarebbe “consapevole dell’isolamento economico nel quale altrimenti collocherebbe il proprio paese nel contesto dei mercati internazionali” [23] , suscita la fondata reazione di Pietro Perlingieri, il quale bolla la ricostruzione quale effetto di un “criticabile atteggiamento culturale che pone sullo stesso piano la diffusione all’estero di un nuovo tipo contrattuale con il giudizio di meritevolezza” [24] . Non tenendosi presente, osserva il teorico del diritto civile nella legalità costituzionale, che il mercato “oggi è non un insieme di sole regole economiche e per di più predisposte dai soli mercanti, ma uno statuto normativo complesso destinato a garantire il suo regolare funzionamento mediante una adeguata tutela tanto del produttore quanto del consumatore e nell’assoluto rispetto delle primarie, indifferibili esigenze dell’uomo” [25] .

 

2. Ciò non significa, si badi bene, giustificare l’intervento di una “artificialità normativa” come invece fa Natalino Irti, che nella disciplina convenzionalmente determinata vede “l’unico ed efficace strumento di che la politica e i singoli Stati possono servirsi per rispondere ai fenomeni globali” [26] . In tale prospettiva la regola giuridica viene in rilievo come una costruzione, priva di qualsiasi radicamento nelle cose su cui va ad incidere, imposta dalla volontà del soggetto pubblico [27] . Manifestazione insomma della sovranità e, quindi, del potere statale di sovrapporsi ai consociati, incapaci di perseguire l’ordinata convivenza. Invero osserva l’Irti, in un moto d’impazienza nei confronti di quanti si attardano ad evocare l’autonomia soggettiva, “il tramonto della sovranità statale farebbe – si passi l’ineleganza della parola – saltare il coperchio: esploderebbero tutte le passioni dei luoghi, e le potenze terrestri si troverebbero, l’una contro l’altra, in hobbesiana naturalità” [28] .

Ecco emergere l’equivoco di fondo, che sembra inficiare la posizione di chi vede nel diritto una entità meramente artificiale, espressione della volontà sovrana: l’identificazione dello stato di natura, ipotizzato da Hobbes e dagli altri geometri legali, con la natura umana. Con il primo termine ci si riferisce alla condizione in cui l’uomo è incapace di mettere ordine nei propri affari e, in particolare, di stipulare un contratto, un atto cioè cogente ed inderogabile per le parti contraenti, in quanto ciascuna di esse agisce secondo i propri impulsi ed istinti e non avverte l’impegnatività della parola data [29] . Quello dello stato di natura, tuttavia, è una mera ipotesi, una convenzione posta dal pensiero giuridico moderno in funzione di una concezione statalistica del diritto, per la quale non c’è ordine al di fuori dell’imposizione sovrana, di colui che riesce a sovrastare i consociati predeterminando in astratto le modalità del loro relazionarsi [30] .

Quando invece si fa questione di natura umana, e veniamo così al secondo elemento della indebita identificazione operata dall’Irti e, più in generale, dalla scienza giuridica e politica moderna, rileva l’essenza dell’uomo, il suo modo di essere che lo conduce ad autodisciplinarsi e a rispettare gli impegni in tal modo assunti. Con tale attitudine alla regolarità deve fare i conti il nomoteta, nel momento in cui interviene nel processo di ordinamento delle relazioni intersoggettive che si origina dall’autonomia dei soggetti medesimi. Si tratta infatti di far leva sulla capacità di autoregolazione individuale, al fine di orientarla verso il bene comune, inteso come il riconoscimento in comune del suum cuique, che si attua mediante il confronto dialettico tra le diverse istanze individuali.

Eppure si afferma, da parte dell’Irti, che la “risposta alla globalità rimane nell’inter-statualità: non già nella rinuncia, ma nell’esercizio della sovranità” [31] , di un potere cioè che si esercita mediante la sovrapposizione alle determinazioni individuali. Si esprime il convincimento che il diritto intrattiene rapporti strutturali con la forza, risolvendosi in un ‘far fare’ nei confronti dei destinatari dei suoi comandi. Dunque, la categoria giuridica è intesa in modo da rendere essenziale, per la sua definizione, la sopraffazione delle singole individualità, assunte come inidonee a relazionarsi senza la minaccia di una sanzione da parte di colui che è in grado di farla valere. “L’accordo delle parti, che non sia un fatto solitario, affidato all’arbitrio del volere e disvolere individuale postula, e non può non postulare, una norma, dalla quale ripete la propria stabilità e la propria tutelabilità nel giudizio del terzo” [32] . Altro che corrispondenza ad indifferibili esigenze poste dall’umanità! Per il fautore del positivismo normativistico l’uomo deve essere trasceso mediante l’eteronoma regolamentazione dei suoi rapporti, in modo da neutralizzare quel “solipsismo” [33] che, determinando a tanti centri di potere quanti sono gli agenti negoziali, giustifica l’istituzione di un potere capace di imporsi a tutti.

È da ricordare, peraltro, che qualche anno fa Natalino Irti aveva suscitato tante attese nella comunità scientifica con la pubblicazione de L’età della decodificazione [34] , dove è posto l’accento sulla centralità delle leggi speciali nell’esperienza giuridica. “La fuga dal codice civile – scriveva testualmente – riguarda fondamentali istituti ed interi complessi di apparati (così, la disciplina del divorzio e lo statuto dei lavoratori); e si intensifica e si allarga a mano a mano che gruppi sociali o cerchie di soggetti strappano, dopo aspri e tormentati negoziati con i poteri pubblici, leggi particolari e tavole di privilegi” [35] . Quando però si è accorto che la sua teorizzazione poteva ingenerare l’idea della comparsa sulla scena giuridica di leggi, le quali rampollano dalla convivenza umana, giacché alla loro definizione partecipano quanti dovranno poi rispettarle, il giurista abruzzese ha operato una virata. Ha restituito la “responsabilità dell’unità” al codice civile [36] – tempio sacro della sovranità statale nei rapporti privati [37] – che sarebbe messo in discussione da leggi che intendono rispondere “alle domande incalzanti della realtà” [38] e che si caratterizzano “per una aggiunta o uno svolgimento corrispondenti all’individualità del fatto” [39] . Ciò verrebbe ad urtare con la virtualità giuridica costruita dalle moderne geometrie legali, secondo cui una legge è tale, non perché consustanziale ai rapporti di cui rappresenta il profilo normativo, ma in quanto proveniente dal soggetto legittimato a produrla ed essendone, quindi, la manifestazione di volontà.

A riguardo della regolazione dei fenomeni sopranazionali, nonostante la capacità ordinamentale palesata dalla nuova lex mercatoria prodotta dagli stessi ambienti economici [40] , l’Irti sostiene la necessità di pervenire ad accordi tra gli Stati, quali manifestazioni della loro potestà normativa [41] . “Il valore costruttivo dell’artificialità – afferma egli infatti – risalta proprio nel confronto con la latitudine planetaria dei problemi (economici, biotecnici, ecologici, ecc.): mentre le leggi della terra si crucciano in amara impotenza, il diritto artificiale è capace di seguirli stringerli regolarli” [42] . Tale ottica, osserva in particolare il giusprivatista, consente di rivelare che il diritto europeo è soltanto una “formula riassuntiva ed ellittica, che scambia per unità la crescente omogeneità dei diritti statali” [43] , che pattiziamente concordano delle regole per gli assetti negoziali non controllabili dal singolo Stato.

Sulla stessa lunghezza d’onda si situano quanti prefigurano un “edificio giuridico” quale risultato della “volontà di addivenire, in via convenzionale, ad un terreno comune a tutti”, in particolare mediante la promulgazione di un codice europeo dei contratti, che presuppone l’idea del contratto come mera veste giuridica dell’operazione economica [44] .

Per quanto concerne le riserve circa l’esistenza di un autentico diritto europeo, un diritto cioè comune ai vari popoli europei [45] , si può obiettare quanto Sabino Cassese ha evidenziato a proposito delle relazioni interstatali instaurate nell’ambito degli organismi sovranazionali; secondo il giuspubblicista, infatti, “c’è una differenza tra la fase genetica e quella dello sviluppo: quegli stessi rapporti che si stabiliscono in virtù di autolimitazione degli Stati, si sviluppano, poi, per forza propria e finiscono per imporsi agli Stati” [46] . Tant’è che, sin dal suo esordio, la Corte di giustizia di Lussemburgo ha dichiarato essere l’ordinamento europeo un ordinamento di nuovo genere, un ordinamento post sovrano, non rimesso cioè al potere dispositivo dei Padroni dei Trattati che, nel firmare le Carte europee, avrebbero rinunciato alla loro sovranità, al punto che esse prevalgono sulla legislazione difforme prodotta dagli Stati membri [47] . Per contro, prospettare un codice europeo dei contratti espressione della sovranità di un costruendo Stato Europa, significherebbe rinnovare quell’ostracismo nei confronti dell’autonomia soggettiva, testimoniato dalla vicenda delle codificazioni nazionali, in cui si è incarnata la discrasia tra potestà normativa e realtà sociale [48] .

 

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