Esiste un’unica soluzione giusta anche per i casi difficili?
Relazione presentata al Convegno “Dialéctica, tradición y derecho” Buenos Aires, 5-7 maggio 2003
di Elvio Ancona
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Tipologia dei casi difficili – Come viene ormai ampiamente riconosciuto dalla dottrina contemporanea e come conferma, con dovizia di esempi, l’esperienza forense, la prova più ardua in cui si cimenta il metodo giuridico è quella della soluzione dei “casi difficili”.
La dottrina ha distinto almeno cinque specie diverse di casi difficili [1] :
– vi sono casi che derivano dalla difficoltà di qualificare giuridicamente il fatto in questione, la premessa minore del sillogismo. E’ quanto accade nel diritto penale, quando esistono più ipotesi esplicative possibili del materiale probatorio raccolto;
– vi sono casi la cui soluzione è difficile poiché sussistono dubbi intorno al significato della disposizione normativa che si ritiene di dover applicare alla fattispecie in questione. Si tratta di quelle situazioni che derivano da “ambiguità, oscurità o vaghezza delle disposizioni normative”;
– vi sono casi in cui la soluzione è difficile perché non si trova nessuna disposizione normativa suscettibile di applicazione alla controversia in questione. Si tratta di quelle situazioni in cui la dottrina riscontra le cosiddette “lacune del diritto”;
– vi sono casi la cui soluzione è difficile poiché una pluralità di norme incompatibili (almeno due) sembrano riferibili alla medesima controversia. Si tratta di quelle situazioni in cui la dottrina riscontra le cosiddette “antinomie del diritto”;
– vi sono infine “i più difficili tra i casi difficili”, quei casi la cui soluzione è difficile perché viene messo in discussione lo stesso paradigma giuridico della comunità (o perché esistono più interpretazioni dello stesso o perché viene in contrasto con altri paradigmi).
In generale, possiamo dire con Pagallo che “affermiamo di essere in presenza di un “caso difficile” allorché la qualificazione giuridica dell’evento vitale considerato solleva, o ammette, (almeno) due rappresentazioni dello stesso che risultano tra loro in relazione antitetica” [2] .
Posizione del problema – Perché i casi difficili ci interessano, soprattutto quelli che abbiamo chiamato “i più difficili tra i casi difficili”?
La crisi degli ordinamenti giuridici contemporanei organizzati sulla base del principio di sovranità e l’affermarsi di nuovi poteri pubblici sovranazionali e internazionali riaprono il problema della natura della giustizia e del diritto, ovvero della possibilità dell’esistenza di una tradizione giuridica comune.
E’ un’opportunità che non sembra lecito lasciarsi sfuggire.
Per dirla con le parole di Félix Adolfo Lamas, si tratta di “averiguar si es certo que la pluralidad de tradiciones es irreductibile a la unidad. Problema semejante, en realidad, a la vieja cuestiòn acerca de si la pluralidad de “ordinamientos jurìdicos” es irreductible a la unidad o no; o, màs en general, y comprendendo ambos problemas, si en lo cultural y en lo linguistico hay o no algo comùn, pese a la diversidad de culturas y lenguas” [3] .
E’ in questo contesto che diventa importante la risposta alla domanda sulla possibile esistenza di un’unica soluzione giusta per i casi difficili.
Si tratta cioè di chiedersi se è ancora possibile fornire una soluzione giusta a controversie che non si può più pensare di risolvere sulla base del ricorso alla metodologia giuspositivista assiomatico-deduttiva, ovvero – per esprimerci con una formulazione più nota ed efficace – alla moderna “geometria legale” [4] .
La soluzione medievale – Questi interrogativi ci riportano ad alcuni temi fondamentali del pensiero medievale, dal momento che nessun pensiero è così profondamente impregnato di “esprit de controverse” come quello medievale [5] .
Per risolvere le controversie, gli scolastici medievali praticavano – non solo in ambito giuridico, ma in ogni campo del sapere, dalla medicina alla teologia, – una delle più tipiche espressioni del metodo dialettico: la disputa.
Ne costituisce uno splendido esempio la struttura argomentativa adottata nella Summa Theologica di Tommaso d’Aquino, nata proprio nell’ambito del confronto all’università di Parigi, intorno alla metà del XIII secolo, fra due tradizioni rivali e incommensurabili, l’aristotelica e l’agostiniana, ciascuna con la propria storia e i propri procedimenti di ricerca.
La specificità dell’impresa tomista è stata efficacemente precisata proprio in rapporto a queste due tradizioni: «Quando la scoperta di tanto materiale di provenienza aristotelica, che era stato fino a quel momento non disponibile, insieme alle interpretazioni che ne davano arabi ed ebrei, e il recupero della teologia agostiniana fornirono il quadro in cui cercare di comprendere la relazione fra queste due tradizioni, fu nell’organizzazione formale dei dibattiti e dei dissensi riportati come quaestiones disputatae e quaestiones quodlibetales e nell’elaborazione delle distinctiones teologiche e secolari che queste implicavano, che la ricerca trovò infine i mezzi per diventare al tempo stesso comprensiva e sistematica. Il passato aveva fornito un insieme di auctoritates sacre e secolari. Queste ultime potevano essere rifiutate quando vi era una ragione sufficiente per farlo. La ricerca, quindi, doveva procedere contrapponendo a un’autorità un’altra autorità, sia rispetto alle tesi sia rispetto agli argomenti.
Molti dei contemporanei e degli immediati successori di Tommaso risposero o ricusando un’ampia parte della loro eredità intellettuale, negli interessi della coerenza sistematica, oppure rivolgendosi alla ricerca frammentaria di aree particolari ed elaborando soluzioni a problemi particolari sulla base di qualche insieme di prospettive nettamente delimitato… Nessuno comprese appieno l’idiosincrasia del progetto di Tommaso, quella di sviluppare l’opera di costruzione dialettica in modo sistematico, in modo da integrare l’intera precedente storia dell’indagine, nella misura in cui egli ne era consapevole, nella sua. Il suo contrapporre auctoritas ad auctoritas era studiato per mostrare ciò che in ciascuna di esse poteva sostenere la prova dialettica da qualsiasi punto di vista sviluppato fino a quel momento, allo scopo di individuare sia i limiti di ciascun punto di vista sia ciò che in ognuno di essi non poteva essere contestato neppure dalla più rigorosa di queste verifiche» [6] .
Le quaestiones e gli articoli della summa – Che concezione aveva, dunque, Tommaso del metodo dialettico?
Per introdurci alla risposta non possiamo non notare che, come da tempo sottolinea unanime tutta la manualistica sull’argomento [7] , l’opera più rappresentativa della speculazione tomistica, la Summa theologiae, è composta non di capitoli ma di questioni e articoli. Escludendo il Supplementum, compilato postumo, se ne contano rispettivamente 512 e 2669. Se poi teniamo conto delle Quaestiones disputatae propriamente dette, delle Quaestiones quodlibetales, delle quaestiones contenute nei commenti al Liber Sententiarum e ai trattati di Boezio, di quelle disseminate negli Opuscola, potremo percepire facilmente la preponderanza di questo genere letterario negli scritti dell’Aquinate. Ma in ciò, più che ravvisare l’originalità del Nostro, dobbiamo vedere il suo conformarsi all’uso del tempo.
Questioni e articoli costituivano infatti una delle espressioni più tipiche del metodo scolastico medievale. Definitasi a partire dalla metà del XII secolo, la loro struttura rifletteva la pratica del coevo insegnamento accademico, in particolare delle dispute che si tenevano nelle facoltà delle arti, di teologia, diritto e medicina e che, quando Tommaso insegnava all’università di Parigi, erano certo meno frequenti ma non meno importanti delle lectiones.
Per avere un’idea del loro svolgimento possiamo considerare lo schema tipico di un articolo della Summa tomistica. Come scrive M.D. Chenu, infatti, l’articolo è la trasposizione letteraria più elementare del processo di elaborazione necessario per la formulazione, la discussione e la soluzione del problema che comporta la disputa [8] .
L’articolo rappresenta dunque la disputa nel suo sviluppo essenziale, riprodotto per iscritto a scopo didattico.
Le parti dell’articolo – Conviene pertanto, al fine di individuare le basi teoriche della sua struttura argomentativa, considerarne brevemente le principali parti.
La quaestio (problema) – Il primo elemento che occorre prendere in considerazione è la posizione del problema, che assume invariabilmente la forma di una domanda introdotta dall’avverbio utrum. Utrum è la tipica espressione che qualifica l’interrogazione disgiuntiva (“è vero che è così?”) ed in quanto tale, mentre risulta corrispondente al póteron di Aristotele, si differenzia dagli altri tipi di domanda individuati dallo Stagirita nei Topici [9] e negli Analitici secondi [10] .
Ammettendo infatti due possibili risposte (sic aut non), non può essere assimilata né alla proposizione interrogativa semplice (“non è forse vero che è così?”) che obbliga ad una sola risposta, né alla domanda sull’essenza (“che cos’è?” e “perché?”) che si apre a infinite risposte.