Editoriale

Arriva il tempo in cui “i piombi sono stanchi” e occorre ricomporre il testo – per dirla ancora con Francesco Gentile. Così la nuova serie de L’Ircocervo. Ci sono cose già concluse che non tornano più indietro. Ma molti sentieri sono solo interrotti. Holzwege (la suggestione è di Heidegger). La loro continuità parte proprio da posizioni appena lasciate.
Innanzitutto, il simbolo eterno dell’Ircocervo. Non è una figura astrusa, come nelle citazioni polemiche di Croce a Del Vecchio, per denunciare l’ambiguità dei piani su cui scivola la filosofia del diritto tra il giuridico e l’etico in un rapporto mai totalmente chiarito. Tutt’altro. Sì, Hircus e Cervus. Unum et idem. Lo cita Aristotele nel De Interpretatione, e prima ancora Platone nel Sophista, ad indicare il significato di qualcosa di cui, tuttavia, è impossibile stabilire l’essenza. Ecco, allora, la sfida. Il sapere non si accontenta di spiegare semplicemente le superfici; affonda radici in profondità. Il pensiero, prima di arrivare alla prassi, guarda ai concetti per non perdersi nella banalità dei fatti appena notati. Era la pietra d’angolo della rivista nel passato, e lo è ora per tentare di nuovo ciò che è spiritualmente tipico della verità: passare dal concreto al concetto, e poi dal concetto al concreto. Senza fine.
Le direttrici sono le grandi visioni. Non si è esaurito il pensiero classico. Anzi, è l’unica vera risorsa, in opposizione alle geometrie e ai tecnicismi della scienza giuridica convenzionale. Il potere si maschera dietro vani algoritmi in cerca di risultati assoluti; eppure, gli fanno da spalla la relatività di molte decisioni e il campo solo parziale della soggettività. Lo vedi nella trasformazione di calcoli che muovono da alcuni criteri al posto di altri (l’algoritmo elabora dati o valori soltanto possibili), tornando presto sui propri passi. E, nel caso di un uso improprio della statistica, si insinua fatalmente l’idea che l’ordinamento giuridico sia la mera forma meccanica dell’esperienza sociale.
Ma non è così. Non sono scontate le regole al tempo della globalizzazione; non sono algoritmiche o meccaniche neppure le semplici interpretazioni dei codici, o l’ermeneutica che sorregge la comprensione comune della realtà sociale; non è convenzionale lo ius-dicere del processo, semmai è aequitas, regola che è insieme norma e Natur der Sache, fino alla verità di parti disposte a mediare attraverso arbitrati, transazioni, conciliazioni, negozi di accertamento; non è more geometrico la risposta giuridica al conflitto che anima i problemi politico-sociali del mondo contemporaneo. E, soprattutto, non è quantificabile l’uomo, centro indisponibile di beni indisponibili del rapporto giuridico.
L’impresa non è da poco. C’è, però, un punto fondamentale del pensiero gentiliano che fa da bussola nella rosa dei venti di tanti mutamenti della vita civile dello Stato. Emerge dalla prassi. La necessità, infatti, di rivisitare i codici, per adeguarli sempre più ai valori costituzionali, non è soltanto una prerogativa formale del sistema; nasce, invece, dalla revisione dell’intero paradigma con cui s’interpreta il rapporto tra pubblico e privato. Accade, ad esempio, con il principio di sussidiarietà. Le amministrazioni pubbliche non sono gli unici agenti dell’interesse pubblico. Tutti i cittadini, singoli e associati, possono mobilitarsi per lo svolgimento di attività di interesse generale. A favorirlo è la Repubblica (art. 118 Cost.). Una vera rivoluzione. La sussidiarietà scardina la “grande divisione” tra chi si occupa dell’interesse pubblico (gli amministratori) e chi, invece, di quello solo privato (gli amministrati). Sembrava impossibile passare dal pubblico al privato, o viceversa; era la stessa impossibilità, seconda la nota is-ought question, di derivare il dover essere dall’essere. I privati si chiamavano, appunto, “privati”, quasi non fossero cittadini, e non vi fosse solo un bene dello Stato. La sussidiarietà ribalta questa posizione. La “ragion di Stato” indietreggia. Con la nuova libertà dei cittadini, la sovranità, a fondamento della Repubblica (art. 1 Cost.), ha infine un senso più compiuto, e con essa la democrazia. Si sente l’esortazione di Platone nel quinto libro di Repubblica: “Non esiste un male maggiore dello Stato di quello che lo divide e lo fa, di uno, molteplice, e non c’è un bene maggiore di quello che lega lo Stato e lo fa uno”.
La rivista concorre con i propri mezzi a questa nuova autonomia nel Publicum. In Politica aut/et statistica (2003) Gentile osserva: “Se è vero che l’intellettuale non costituisce la comunità, e che sarebbe presuntuoso solo a pensarlo, è anche vero che ne propizia la costituzione, e che sarebbe vile che non lo facesse”. Si confrontano, dunque, con la realtà attuale la consapevolezza di tanti interrogativi che prima non c’erano, e lo stretto legame con la ragione pubblica. Non cambia, tuttavia, la Ansicht, sempre orientata alla dialettica di posizioni diverse, piuttosto che alla difesa dogmatica di pregiudizi ideologici.


Il fascicolo che pubblichiamo inaugura la nuova serie de L’Ircocervo.
È l’occasione per ringraziare Andrea Favaro che ha diretto la rivista negli ultimi anni. La novità non è la mèta. È il cammino. Mutano, infatti, le situazioni, e nuove situazioni aspirano a nuovi spazi. D’altronde, lo sa bene L’Ircocervo che è stata la prima rivista in Italia a curare un’edizione interamente telematica di studi filosofico-giuridici, e che ha fatto della straordinarietà dei linguaggi la sua prima intuizione. Il numero è dedicato interamente a Francesco Gentile nel decimo anniversario (novembre 2009/2019) della sua scomparsa, e, soprattutto, nel segno di tante idee che continuano a interrogarci. Non v’era Explicit migliore delle parole del compianto Domenico Corradini H. Broussard: Caro Francesco, ricordando.
Così, ancora, l’inizio de L’Ircocervo.

Agata C. Amato Mangiameli
Paolo Becchi
Gian Pietro Calabrò
Lucio Franzese
Antonio Incampo
Torquato G. Tasso