Pasquale Stanislao Mancini
di Francesco Gentile

Si tratta, per certi aspetti, di una esortazione allo studio rivolta agli iscritti alla Scuola. "Senza studi legali incompiuti si rimangono e sterili di profitto tutti gli altri". E in exergo è posto l’aforisma: "Le leggi sono alimento e vita degli umani consorzi; guai dove esse o non sono o sono cattive; guai dove essendo non hanno imperio; guai dove, avendo imperio, non sono apprese". Per altro verso, si tratta della presentazione di quanto verrà fatto nel corso dell’anno di studi. "Venendo al metodo delle nostre lezioni – vi si legge – esse non saranno del tutto analitiche, né sintetiche, saranno miste e razionali secondo dimanda la bisogna, secondo che meglio occorre per trovare ed applicare il vero o legge fatto secondo Vico: esse comprenderanno le norme più alte e sublimi del Diritto, e le più basse e le infime de’ procedimenti giuridici; esse saranno a dir tutto teoretiche e pratiche in determinati e certi confini. Attingeremo dalla filosofia, dalla politica e dalla religione senza usurparne il campo, senza aspirare a farla quanto ad esse da maestri e da dottori. Discorreremo gli elementi di Diritto pubblico e privato (…); parleremo della macchina sociale e de’ governi (…); diremo il Diritto amministrativo, ma per insegnare a distinguere le persone morali dalle reali, le proprietà delle une dalle proprietà delle altre, le garantie (…), l’indole e la estensione dei poter, (…) i procedimenti e le formole (…); esporremo succintamente le leggi dell’utile e parleremo delle ricchezze nella loro produzione (…), circolazione (…), distribuzione (…), uso e consumazione; toccheremo le grandi quistioni economiche (…).Spiegheremo più diffusamente il diritto positivo e il diritto di Roma (…), adoperando con acutezza e perseveranza l’ermeneutica e la esegesi, giovandoci con moderazione e criterio dell’autorità e della giurisprudenza". Ma soprattutto si tratta del "manifesto" della scuola, in cui viene, seppur impressionisticamente, presentata l’attitudine con la quale gli insegnanti si apprestano a "studiar loro medesimi ed insegnare ad altrui la stupenda ed immensa scienza del Diritto". E che si tratti di un’attitudine autenticamente filosofica, nel senso classico del termine, risulta evidente alla lettura.
Il manifesto comincia con la presentazione delle scuole dominanti: 1. La scuola "empirica o pratica" che pretende "di svolgere il Diritto presente per tutte le vie, con tutt’i mezzi, ma com’è e nella sola sua parola"; 2. La scuola "istorica" che pretende di spiegare il presente come la semplice "modificazione o riproduzione di quel che fu"; 3. La scuola "filosofica" che pretende, "gravemente,dovere e potere sollevarsi (…) essa sola al di sopra del fatto per leggere nell’anima umana, nella legge primitiva ed universale di questo essere misterioso e sublime, amore e compiacenza del suo eterno fattore e però studiasi di ricercar nella comune natura, la legge comune e universale (…) e propone con ineluttabile argomento (…) di toglierla a norma comune e di coordinare ad essa tutte le legislazioni"; 4. La scuola "del progresso", industriosa e moderata, che "imprende a moderare l’impeto della filosofica, e dimostrare che in natura nulla procede per salti, che l’umanità è in continuo svolgimento materiale intellettuale morale, che le leggi ne devono accompagnare o precedere l’andamento (…) ma gradualmente e a poco a poco, non assolutamente ma relativamente e per approssimazione".
Vengono poi criticamente individuate due posizioni fondamentali: la "storica", che comprenderebbe delle scuole suddette la "storica" appunto e per certi aspetti quella "empirica" e quella "del progresso": posizione caratterizzata da un meccanicismo naturalistico o materialistico che dir si voglia; e la "filosofica" che comprenderebbe delle sopraddette la scuola "filosofica" appunto e per certi aspetti parte di quella "empirica" e di quella "del progresso": posizione caratterizzata da un soggettivismo intellettualistico o idealistico che dir si voglia.
Viene infine affermato in maniera perentoria che, nel corso degli studi, non si sarebbe tenuta né l’una né l’altra posizione, perché ritenute inidonee, tanto l’una che l’altra, alla comprensione e alla pratica del diritto. "Affinchè in embrione e nascosto non rimanga tutto il nostro pensiero – precisano i tre insegnanti della scuola – diciamo apertamente e con franchezza che scostandoci da Ugo e Savigny, da Kant e da Hegel, crediamo il Diritto positivo umano, passato presente e futuro, essere opera comune e spesso disordinata della libertà e della necessità, e non mai come opera esclusiva del necessario successivo e provvidenziale svolgimento dell’individuo e della società in tutti i suoi aggregati in tutte le sue manifestazioni e come un’idea della ragion pura o un certo indefinibile trascendentale". Non v’è dubbio che le indicazioni siano più rilevanti in negativo che in positivo, ma inequivocabilmente significano il rifiuto di un modo ideologico di studiare il diritto, strutturato in termini geometrici, ipotetico-deduttivi, a partire da un principio a-problematicamente assunto, fosse esso materialistico o idealistico non fa differenza. E illustrano la necessità di un’impostazione radicalmente problematica dello studio del diritto, quale solo una filosofia "non simulata", per usare le parole di Ulpiano (Dig. 1.1,1), è in grado di propiziare. "Non vogliamo – scrivono infatti gli insegnanti della scuola – ricercar nelle leggi lo spirito o la idea, ma com’è, e per quello che fu nella mente del legislatore, e non nell’ultimo risultamento delle deduzioni, della più alta e pura ragione, dell’ultimo e imperscrutabile trascendentalismo assoluto".
Un certo qual complesso d’inferiorità nei confronti dei grandi filosofi, da cui si sono prese le distanze, colora coi toni della timidezza e insieme del dileggio un’affermazione quanto mai precisa e significativa di ciò che costituisce l’oggetto primo e fondamentale dello studio e dell’insegnamento giuridico, e cioè lo spirito o idea che è nelle leggi, da ricercarsi e da intendersi com’è nell’esperienza e in particolare nell’esperienza della legislazione. Per questo, continua il manifesto, vogliamo, riprendendo la via percorsa, o come altri dicono ricostruendo il passato, saper l’opera e le leggi de’ nostri padri, delle generazioni e de’ popoli che furono, ma senza perderci in tutti gli archivi, senza accettar come preziose reliquie tutt’i frammenti (…). Accettiamo la codificazione, ma come un diritto di fatto che ha dell’assoluto e del relativo, per quanto è necessaria alla possibilità contingente (…). Accettiamo una legislazione di principi, ma senza cader nell’esagerazione di coloro che vorrebbero distruggere tutt’i commenti e le parafrasi, senza negare i benefizi della giurisprudenza. Veneriamo la giurisprudenza. ma come luce e come fiaccola, come amica sperimentata e benevola della propria ragione, e non come padrona e tiranna della ragione stessa e della volontà. E venendo al metodo (…), ci pare che vogliono essere adoperati continuamente l’empirico e il razionale, o sia quello che procede da fenomeni e fatti e quello che rintraccia ed espone le cause e le ragioni, secondo le regole della più rigorosa logica ed ermeneutica legale".
Qualcuno, maliziosamente, potrebbe notare che tra le tante discipline, di cui in questo programma si fa cenno, non compaia specificamente la Filosofia del diritto. Ma è la filosoficità del programma, qual è inteso e rappresentato, a costituire l’argomento più stringente a favore della presenza di uno specifico insegnamento di filosofia nel corso degli studi giuridici. Chè, infatti, la sola ragion d’esserci della Filosofia del diritto nell’ambito di questi studi sta nella filosoficità intrinseca della giurisprudenza, nel senso che è essenziale per un giurista che sia veramente tale, iuris-prudens, avere un’attitudine filosofica, intesa all’essere oltre all’apparire, in quanto nell’apparire intende l’essere. In tal senso la filosofia del diritto può dirsi, come disse Mancini, "la madre di tutte le discipline giuridiche". Altrimenti, o per chi altrimenti consideri la giurisprudenza, operativamente, come mera tecnica di controllo sociale, la filosofia del diritto non ha proprio alcuna ragion d’essere nell’ambito degli studi giuridici, e al massimo può essere considerata "come un lusso accademico". Resta da vedere, tuttavia, se a quegli studi convenga ancora il nome di "giurisprudenza".

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