Pasquale Stanislao Mancini
di Francesco Gentile
E così ci avviciniamo al nodo scottante, che non è certo quello del materialismo bensì dell’idealismo. Non si deve dimenticare la data: 1942. Senza scomodare Benedetto Croce o Giovanni Gentile (peraltro più Gentile che Croce), basterà il nome del "patron di casa" all’Istituto di Filosofia del diritto dell’Università della Sapienza in Roma, dove il giovane rampante Norberto Bobbio trova ospitalità per la sua brillante filippica, che si conclude con un esplicito richiamo "a quel rinascimento idealistico del nuovo secolo che nel nostro particolar campo di studi sarà iniziato, stimolato e, quel ch’è di più, criticamente fondato da Giorgio Del Vecchio". Come "soffietto" non è niente male. Ma c’è di più. Questo rinascimento idealistico, ma di un idealismo autenticamente filosofico e non didascalico come quello ottocentesco, veniva accolto dal futuro maestro della scuola analitica del diritto come benvenuto per due motivi specifici. Perché, grazie ad esso, "la filosofia del diritto, rinascendo, ebbe modo di comprendere quello che non le apparteneva e di rigettarlo, (…) la teoria generale del diritto, somma enciclopedica dei concetti generali di ogni ordinamento giuridico", da affidare ai giuristi e da farsi "con mentalità positiva e con rigore scientifico". Ma anche perché, grazie ad esso, la filosofia del diritto si poté "presentare come ricerca dell’unico problema che è suo, il problema della giustizia". Non è questa la sede per commenti, non si può tuttavia non constatare, seppur cursoriamente, come in tal modo venisse sancito il divorzio tra filosofia e giurisprudenza, tra giustizia ed istituzioni, secondo canoni idealistici, benché più crociani che gentiliani. Il fantasma dell’Ircocervo era nell’aria.
Qualcuno si chiederà che cosa centri tutto questo con Pasquale Stanislao Mancini. Ebbene Mancini viene testualmente indicato da Bobbio come "l’araldo" di quella filosofia giuridica che era "idealistica in (…) senso generico e improprio", ossia didascalico, mentre in realtà "fu invece, dal punto di vista speculativo, eclettica". E siamo così al punto. Al tradizionale eclettismo del Mancini.
La vocazione eclettica della filosofia giuridica di metà Ottocento si sarebbe manifestata nel "modo di ragionare per successive accumulazioni di parti eterogenee, in cui consiste propriamente la tecnica dell’eclettismo". La contiguità con l’Enciclopedia del diritto può spiegare in parte tale tecnica. Ma soprattutto sarebbe stato il risultato della concezione del giuridico che la informava. "Un contemperamento sensato delle correnti opposte che si combattevano sul terreno morale, la spiritualistica, tanto per intenderci, e l’utilitaristica, induceva la stessa natura del diritto che sembrava fluttuare tra l’ordine morale e la vita economica, e riassumere in sé la duplice esigenza dell’etica del bene assoluto e dell’etica dell’utile". Così il problema è posto, davvero, con chiarezza. Ma proprio la chiarezza di tale posizione, ad un’attenzione autenticamente problematica cioè non pregiudicata da categorie a-priori, fossero anche quelle idealistiche, fa apparire del tutto insoddisfacente, perché inadeguata a rappresentare la cosa, una definizione qual è quella di eclettismo: questa sì scolastica, meramente didascalica, da professore di filosofia, seppur del diritto. L’immagine crociana del "guazzabuglio" occhieggia sullo sfondo.
"Una volta consolidata con Kant e con Fichte l’ormai tradizionale separazione tra morale e diritto – conclude il giovane Bobbio – il diritto aveva, sì, conquistato la sua autonomia, ma non aveva ancora trovato la sua consistenza, e di questa incertezza intorno alla propria natura etico-economica, il diritto soffrirà a lungo, sì che gli echi della discussione saranno ancora vivi sino ai giorni nostri, quando si riproporrà la questione dell’autonomia del diritto tra l’etica e l’economia con la stessa non risolta oscillazione tra l’un termine e l’altro e nella continua minaccia di assorbimento in questo o in quello". Affermazione, senza dubbio, esatta perché coerente con la premessa, scontata, indiscutibile perché indiscussa,
dogmatica: la premessa della separazione tra morale e diritto, si noti la "separazione", che il giovane commentatore sembra condividere con gli autori commentati. Ora da questo punto di vista indubbia è l’esemplarità di Pasquale Stanislao Mancini, il quale, da giurista, sperimentava quotidianamente la consistenza del diritto, dovendosi misurare con i problemi posti dalle liti portate al vaglio del suo giudizio, e soprattutto sentendosi chiamato a darvi concreta ed effettiva soluzione, suum cuique tribuens. E non era certo tormentato dalle oscillazioni del diritto tra economia ed etica, e tanto meno era turbato dal timore di un suo assorbimento in questa o in quella, poiché, impegnato com’era da giurista, nella traduzione del conflitto d’interesse, per lo più di natura economica, in controversia intersoggettiva, motivo etico per eccellenza, sperimentava concretamente l’intrecciarsi dei tre ordinamenti, l’etico, l’economico e il giuridico, nell’esperienza di ogni giorno. Sicché il vero problema era quello di distinguere nella continuità dell’esperienza. Si noti: di distinguere non di separare. Problema eminentemente filosofico, che supera la prospettiva meramente strumentale dell’operazione, nel caso dell’operazione giuridica, per investire l’essenza stessa del diritto, la sua ragion d’essere nella globalità dell’essere umano.
Proprio questo è il problema oggetto della corrispondenza tra Pasquale Stanislao Mancini e Terenzio Mamiani della Rovere che, col titolo Intorno alla filosofia del diritto e singolarmente intorno alle origini del diritto di punire. Lettere di (…), venne pubblicata, nel 1841 a Napoli, dal professor Francesco Trinchera, come "bella prolusione" alla traduzione italiana del Corso di diritto naturale di Enrico Ahrens. In questa corrispondenza, che anche Bobbio indica, insieme con il Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato al fatto del gesuita Luigi Taparelli e alla Filosofia del diritto di Antonio Rosmini, tra le opere di filosofia giuridica più interessanti e rappresentative del momento storico, si contrappongono due disegni.
"Rimane fermo che la giustizia umana sia parte della divina, e tenda con lei ad un fine medesimo con la stessa legittimità e santità di mezzi. Questo mio disegno – è perentorio il Mamiani – d’una morale eterna, che la ragione umana ritrae sillogizzando dal concetto del bene assoluto, porge eziandio le fondamenta di un diritto eterno ideale, quale fu cercato da molti filosofi e di cui il giure naturale e il giure civile riescono altrettante specie determinate". Da parte sua, Mancini, riconosciuta preliminarmente e fondamentalmente "la necessità di coordinar la scienza del Diritto con la Morale filosofia come col suo più saldo elemento", respinge la tesi che non debbano "distinguersi (…) la Morale ed il Diritto, perché tendono ad un solo scopo, la maggior partecipazione del Bene Assoluto". In particolare, respinge la tesi che il diritto non sia "che una specificazione (ma meglio si sarebbe detto una deduzione) estesa della teoria morale suprema£", perché da essa deriverebbe come conseguenza necessaria che il principio morale "tutte domina le scienze civili", sicché "non avvi che una legge, la Morale o Divina, e la società deve vegliare all’effettuazione di essa". Tutto questo Mancini respinge mettendo in luce, dialetticamente, sia pure per soli cenni, come lo stesso Mamiani nella sua argomentazione, fortemente condizionata da una impostazione di tipo monistico, debba riconoscere un qualche spazio a ciò che non è deducibile dalla morale, dove dice che "la sostanza del Diritto Eterno e Divino debba venire equamente ed utilmente assestata a’ bisogni della società" e sottolinea utilmente. Nonché dove, per mettere le "astratte teoriche morali in contatto colla società umana, (…) è stato mestieri andar contemperando benanche le leggi dell’istinto individuale nell’ordine relativo" e sottolinea istinto.
Al disegno rigidamente monistico del Mamiani, Mancini, contrappone, o meglio giustappone, un disegno pluralistico, anzi dualistico, per il quale la ragion d’essere del diritto sarebbe "differentissima" da quella della morale, "non per gli accidenti (…) ma per la sostanza e pel principio". E conclude: "Quello del Bene Assoluto, o della pura e astratta Giustizia, è la ragion d’essere della Morale. Ma non può trovarsi la ragion d’essere del Diritto che nell’unione de’ due principi, della Morale Giustizia e dell’Utilità". Il discorso esigerebbe degli approfondimenti che tuttavia ci porterebbero troppo fuori dei limiti e lontani dal soggetto di questa riflessione. Non possiamo, tuttavia, non notare un apparentemente futile motivo lessicale, che ci consentirà di tornare sull’eclettismo, cosiddetto, della filosofia del diritto di metà Ottocento, per concludere sul posto, quale configurato da Mancini, della filosofia del diritto nell’ambito degli studi giuridici, che allora si stavano riorganizzando.
Non è possibile non notare come il Mancini, dopo aver affermato che la "ragion d’essere" del diritto è differentissima da quella della morale, "per la sostanza e pel principio", nell’indicare puntualmente questa differenza superlativa si limiti al "principio", ché anzi diventano due "i principi" del diritto, giustizia morale e utilità, rispetto al solo principio della giustizia per la morale. E come di "sostanza" non si parli più. Che non si tratti di una semplice dimenticanza o disavvertenza appare subito chiaro, per il fatto che la giustizia viene indicata come principio tanto della morale, da sola, quanto del diritto, insieme con l’utilità, sicché sarebbe davvero difficile poi dire che tra l’uno e l’altro termine vi sia una differenza reale, o di sostanza. E, difatti, Mancini non lo dice e continua a ripetere, anzi, di non aver mai dimenticato "la (…) proposizione di doversi riguardare la Morale come un elemento del Diritto". Resta da stabilire che cosa significhi che la differenza sta nei "principi". E qui la lettura, paradossalmente più quella del testo di Mamiani che non quella del testo di Mancini, è illuminante.