Pasquale Stanislao Mancini
di Francesco Gentile

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Quale sia, secondo Mancini, il posto della filosofia del diritto nell’ambito degli studi giuridici, e in senso più lato nell’ambito della Giurisprudenza, si può dire icasticamente, con parole sue, è quello della "madre di tutte le discipline giuridiche". Ma andiamo con ordine.
Nell’autunno del 1858, Pasquale Stanislao Mancini, professore di diritto internazionale nell’Università degli Studi di Torino, viene incaricato dalla Facoltà di Giurisprudenza di tenere il discorso inaugurale dell’anno accademico. Per sottolineare il significato, delicatissimo, dell’incarico, il già illustre giurista, e deputato alla Camera Subalpina, esordisce notando "il provvido volere che almeno un giorno in ogni lustro (le Facoltà dell’Ateneo torinese allora erano cinque e quindi ogni cinque anni a ciascuna spettava l’incarico della prolusione dell’anno accademico) una delle grandi classi dell’umano sapere cessasse di apparire divisa ne’ suoi molteplici e secondari scompartimenti e, ricomponendosi a sintetica unità le speciali discipline in esse comprese, un professore deputato dal voto de’ suoi colleghi venisse a farsi interprete dei loro pensieri e delle loro dotte investigazioni, a render conto della condizione in cui versavano quelle discipline, a ragionare del passato e dell’avvenire di un ramo complessivo di cognizioni e di studi".
Questa periodica presentazione, o aggiornamento, dello "stato generale" della ricerca in uno dei grandi rami del sapere non è solo un rito accademico e non ha solo una funzione scientifica. Per Mancini corrisponde ad una precisa ragione civile, o politica che dir si voglia.
"Il vantaggio di simili periodici convegni – afferma energico il giurista/politico Mancini nella sua prolusione De’ progressi del diritto nella società, nella legislazione e nella scienza durante l’ultimo secolo, in rapporto co’ principi e con gli ordini liberi – è di tutta evidenza: in essi la scienza sembra presentarsi davanti agli occhi del paese". "Pellegrina infaticabile", in tale frangente, prende "un istante di riposo" e chiede "una parola d’incoraggiamento", ma soprattutto "prima di continuare il suo eterno ed aspro cammino consulta in certa guisa la carta del suo itinerario, e ricerca la direzione in cui con minor periglio possa inoltrare il passo misurato e sicuro". Insomma, la scienza, l’uomo di scienza, è chiamato a fare un bilancio dell’opera compiuta e ad indicare gli obiettivi dell’opera da compiere, "davanti gli occhi del paese". Il che è un render conto politico di quanto fatto scientificamente, ma insieme anche un orientare scientificamente le operazioni future della pubblica amministrazione. Nel caso specifico, Mancini si propone di "indagare se, nella immensa trasformazione sociale e politica operatasi tra il 1750 e il 1850 l’elemento giuridico nella mente e nella vita dell’Umanità abbia progredito, se abbia ricevuto profondi mutamenti e quali sia di esse l’indole propria". Più esattamente si propone di indagare "se considerati in reciproco rapporto lo svolgimento del diritto e quello de’ principi e degli ordini liberi, cioè l’idea della giustizia e la forma politica della sua attuazione, l’una si appalesi dall’altra in alcuna guisa ritardata ed impedita ovvero invece aiutata e promossa". Ed in proposito il Mancini non nutre dubbi: il diritto o, come più sottilmente preferisce dire, l’elemento giuridico è progredito nella società, nella legislazione e nella scienza.
Già la sequenza, con la quale viene presentato il progredire dell’elemento giuridico nell’ultimo secolo, è significativa del modo in cui Mancini intende l’esperienza giuridica: se vogliamo, è indicativa della sua filosofia del diritto. "Subbiettivamente – scrive – il diritto (…) è una facoltà, è la libertà legittima di fare e di costringere: ed il multiforme movimento e l’armonia o la collisione di tante facoltà ne’ diversi individui, conviventi nel tempo e nello spazio, costituiscono appunto la vita e l’ordine sociale". Quindi, nell’espressione sociale si contempla e descrive "il diritto come libertà". "Nel significato oggettivo poi il diritto si considera come un complesso di prescrizioni e precetti del supremo potere sociale per regolare le azioni ed i rapporti de’ cittadini, e si ha lo Statuto, o la legislazione positiva". Quindi, nell’espressione legislativa si contempla e si descrive "il diritto come legge", oppure, ed è opportuno notare quest’assimilazione, o meglio questa parificazione, nel suo significato oggettivo, il diritto "si considera come un sistema di principi ideali, che la ragione deduce dalla cognizione di un ordine morale eterno e necessario al quale l’umanità è formata, nonché dalla contemplazione della natura dell’uomo e de’ suoi rapporti morali e sociali anteriori ad ogni legge positiva: e si ha la scienza". Quindi, nell’espressione scientifica si contempla e si descrive "il diritto come idea".
La sequenza della presentazione corrisponde, secondo Mancini, alla sequenza dell’evoluzione dell’elemento giuridico. "La prima espressione ad esistere – infatti – è la sociale, perché gli individui vissero, operarono e fecero uso della loro libertà prima di formarsi le leggi positive e le scienze. (…) Venne poi l’evoluzione legislativa, perché sotto l’impero de’ bisogni e della necessità gli umani consorzi s’impongono l’autorità di certe usanze, e poi di certe leggi, ancorché imperfette o barbare e lontane dal soddisfare a’ rigorosi dettami del giusto. (…) Ultima si manifesta l’evoluzione scientifica, nella quale la scienza viene ad assidersi fra le passioni de’ popoli e gli errori dei legislatori, a discoprire i difetti degli ordini esistenti, a pronunciarne imparziale e sovente severo giudizio, a comandare le riforme civili, ed a promuovere que’ miglioramenti e perfezionamenti i quali contrassegnano ed ordinariamente antecedono di molti lustri, e talora di secoli, il progresso che solamente più tardi s’introduce nella legislazione scritta".
Per l’economia di queste note dobbiamo sospendere l’analisi critica della sequenza, con consapevolezza, però, che in conclusione vi si dovrà tornare, poiché il problema da essa posto è in realtà il problema fondamentale della filosofia del diritto secondo Mancini, come d’altronde egli stesso esplicitamente lascia trasparire, quando afferma che "gli oracoli e le rivelazioni di questa filosofia riformatrice, sempre importune a’ dominatori delle nazioni, cominciano per essere da prima tenute sommamente pericolose o peggio ancora impossibili da applicarsi alle pratiche realtà: chimere, utopie, deliri di gente onesta. Ma in seguito s’insinuano sottilmente nelle menti de’ pochi capaci di comprenderle ed ammirarle: e poscia quando gli elementi sociali manifestano più evidente il disordine a cui sono in preda ed il bisogno della luce ordinatrice della scienza, allora l’opinione universale concorde si rivolge a sospirare i nuovi ordini, ed a poco a poco da timida ed incerta si eleva possente e temuta, ed a forza di perseveranza e di coraggio perviene a soggiogare que’ medesimi, i quali credono far atto d’imperio e dominar la società imponendo ad essa nuove leggi, nell’atto che in realtà obbediscono essi stessi senza saperlo ad un’occulta ed irresistibile forza e provvidenziale superiorità". La carne al fuoco è molta. Tra bisogni e istituzioni, tra libertà e leggi, tra scienza e potere, tra "filosofia riformatrice" e rivoluzione popolare, cos’altro è se non rivoluzione popolare la "opinione universale" che "a forza di perseveranza e di coraggio perviene a soggiogare" i legislatori? E soprattutto problematico il modo di cuocerla. Non è del tutto chiara, infatti, seppur suggestiva l’idea che i legislatori, nel porre le leggi, obbediscano "ad un’occulta ed irresistibile forza e provvidenziale superiorità". Né il ruolo che in tale processo esercitano, rispettivamente, la "opinione universale" soggiogante il legislatore, la "filosofia riformatrice" che illumina e i "bisogni sociali" o libertà o diritti soggettivi che premono. Ma sul problema torneremo.
In merito all’evoluzione sociale, secondo Mancini, nell’ultimo secolo il progresso si è manifestato come passaggio da una condizione di vita caratterizzata da "penuria del denaro" e da "capriccio di guerre insensate e ambiziose" ad una caratterizzata dalle "industrie", dai "commerci", da "l’acquisto e culto della ricchezza".
In merito all’evoluzione legislativa nell’ultimo secolo il progresso si è manifestato come passaggio da un ordinamento basato sul Diritto romano, a malapena temperato dal "movimento intellettuale della Grecia" e dal Cristianesimo, vitalizzato dall’opera dei Glossatori e della Scuola di Bologna ma diluito dall’opera dei giuristi del Cinquecento, dal Diritto canonico e dal Diritto feudale. Insomma, si è passati da un ordinamento farraginoso e disorganico per il quale ogni Stato conteneva più centinaia di legislazioni locali tra loro differenti, le une accanto alle altre, tutte in vigore e osservanza, e non di rado generanti (…) incertezze e collisione ne’ diritti delle persone e delle cose ad esse spettanti", ed un ordinamento basato sulla codificazione. Scrive Mancini: "Malgrado i pericolosi insegnamenti della scuola storica, sorta in Alemagna a combattere l’opera della codificazione (…), l’Europa ha veduto in ogni sua regione promulgarsi nuovi Codici, più o meno felice transazione e alleanza fra l’elemento storico ed il filosofico, fra le tradizioni del passato e le verità eterne rivelate nelle necessità dall’umana natura". Un’evoluzione, in un primo tempo, timida e incompleta. Mancini ricorda, compiacendosi, come il Piemonte fosse stato il primo paese europeo a dotarsi "fin dal 1723 di un Codice per molti rispetti superiore a’ tempi nelle Regie Costituzioni", ma si rammarica che "al legislatore era mancato l’ardimento di abolire le legislazioni generali e locali che preesistevano, e di far cessare la confusione e l’anarchia legale; aveva solo a tutte quelle legislazioni sovrapposto il suo codice come legge prevalente nelle materie da esso regolate; ed anzi quasi che le leggi non fossero troppe, aveva benanche innalzate ad autorità legislativa le decisioni de’ Magistrati", scoperto il riferimento al Codex definitionum forensium et rerum in Sacro Sabaudiae Senato tractatarum ad ordinem titulorum codici iustinianei, quantum fieri potuit, ad usum forensem accomodatus et in novem libros distributus, opera secentesca di Antoine Favre de Péroges. Ma un’evoluzione ovunque incalzante, com’è accaduto in Piemonte per opera del "magnanimo Re Carlo Alberto, il cui regno fu una continua riforma legislativa dello Stato nel senso di un temperato ma costante progresso, coronata infine dal nobile ed eroico tentativo di conquistare ad una patria gloriosa e sventurata la nazionale indipendenza". Tanto che ora, conclude Mancini, "la codificazione non incontra più ostacoli che nella sola vecchia Inghilterra, oramai divisa dall’orbe …".

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