IL “MOTTO COSTITUZIONALE EUROPEO”
di Ugo Pagallo
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Dopo l’afosa estate latina, è tutto pronto per il rush finale della istituenda Costituzione europea. Molto si è detto, letto e discusso in questi mesi e, nei prossimi numeri della rivista, non mancheremo di tornare più volte sul punto. Per ora, soffermiamo l’attenzione su quanto è previsto dalla fine (se non dal fine o telos) del progetto costituzionale. Più in particolar modo, il riferimento va alla parte IV dedicata alle "disposizioni generali e finali" e, soprattutto, al "nuovo articolo IV-0" (come suonava, con accento quasi wittgensteiniano, l’originaria numerazione dell’odierno art. IV-1). Senza entrare nel merito della distinzione (popolare, soprattutto, in ambienti lacaniani) tra simbolo, immaginazione e realtà, basti dire che sono cinque "i simboli dell’Unione": la bandiera dalle dodici stelle su sfondo blu, l’Inno alla Gioia di Beethoven, l’euro, il 9 maggio e, come vedremo, un motto.
La Convenzione istituita a Laeken, aveva ritenuto, come noto, che la migliore collocazione dell’articolo fosse da individuare nella prima parte della Costituzione. Tralasciando il problema delle forme, tuttavia, qui ne va del contenuto. Mentre infatti è facile immaginare gli imbarazzi giuspositivistici di chi, tra l’estetico e il normativo, trova, oltre alle dodici stelle su sfondo blu, alle emozioni dell’Inno alla Gioia o ai fasti del 9 maggio, la moneta: l’euro, tra i simboli dell’Unione -, un cenno a parte merita il motto: "unita nella diversità".
Ad una prima lettura random del testo, il 9 luglio 2003, su Internet, confesso di aver letto innanzitutto "unità nella diversità", formula che, tra "comune" e "diverso", "identità" e "differenza", riassume (o illustra) plasticamente, l’insegnamento della tradizione classica platonico-aristotelica. Come rilevato in Traición de la tradición (relazione da me tenuta nel maggio 2003 a Buenos Aires, in corso di pubblicazione per la "Revista internacional de Filosofía Práctica"), l’accento è così posto, dialetticamente, sulla proposizione "nella"; ossia, tra l’unità che accomuna e la molteplicità che diversifica; cioè, secondo quanto insegna Platone, occorre riconoscere la "giusta misura" tra il troppo e il troppo poco (anche rispetto al progetto costituzionale europeo).
Ad una più attenta lettura del testo, tuttavia, lo screen del computer rivelava un motto assai diverso: non più la dinamicità del sostantivo "unità": unity, unidad, Einheit, unitée, e via dicendo; ma: united, unión, unie o, come recita il documento tedesco, "in Viel falt geeint". Dal punto di vista strettamente giuridico, il concetto traduce il "patrimonio comune" dell’Unione e rinvia a quanto distingue le istituzioni comunitarie dai semplici accordi o trattati di diritto internazionale. Da un lato, l’idea di un’Europa "unita" sta a ricordare che ogni modifica su scala comunitaria, a differenza delle relazioni internazionali tra stati sovrani, richiede il rispetto dell’acquis. D’altro lato, dalla lettura del progetto costituzionale sorge però il sospetto che l’accento cada, in questo modo, più sul profilo statico implicito nella continuità di ogni tradizione, che sul profilo dinamico inerente ad ogni tradizioni che duri: ossia, l’aprirsi alla differenza secondo la giusta misura dell’identico nella diversità.
L’appunto non è rivolto, naturalmente, alla categoria dell’acquis in quanto tale (ché, anzi, in quanto patrimonio giuridico "consolidato" dell’Unione, l’acquis ha svolto un ruolo di primaria importanza nel processo d’integrazione europeo). Piuttosto, preme sottolineare il sottile distinguo tra sostantivo e participio, stante il quale è dato gettare luce su un’impasse fondamentale. Come il concetto di "unità" ricomprende in sé quanto è "unito"; ovvero, il profilo cumulativo e, per ciò, discretamente statico dell’acquis, allo stesso modo, qualificare l’Europa come "unita", e non come "unità", nella diversità, rivela, a ben vedere, la mancanza (o forse l’impossibilità storica) dell’autentica intelligenza politica che coglie l’apertura al nuovo della tradizione; oppure, un gioco al ribasso, di retroguardia, dove ci si limita a difendere le proprie posizioni (e con esse, spesso, i propri privilegi).
La questione, non a caso, ripropone con forza i dubbi che hanno accompagnato sin dall’inizio, i lavori della Convenzione. Nel progetto vi si può intravedere, ora, i profili di una costituzione "mista", nel senso indicato dall’europarlamentare N. MacCormick (v. Questioning Sovereignty, Oxford 1999, pp. 142 ss.); ora, il multilevel constitutionalism di I. Pernice (v. il saggio in "Common Market Law Review, 1999, specie p. 710); ora, una funzione "dichiarativa" o "riconoscitiva" à la Torchia (v. Una costituzione senza Stato, in "Diritto pubblico", 2001, p. 439); oppure, l’ennesima tappa dell’affermazione di un patrimonio giuridico comune. Come dichiara C. Pinelli, che riprende in proposito le tesi di A. Pizzorusso in Il patrimonio costituzionale europeo (Bologna 2002), "l’approvazione di una Costituzione europea ci appare come il momento della scrittura di una tradizionale costituzionale comune ai popoli europei, comprensiva dei risultati più duraturi dell’esperienza del diritto dell’Unione" (C. Pinelli, Il momento della scrittura. Contributo al dibattito sulla Costituzione europea, Bologna 2002, p. 195).
Questa prospettiva, confermata dal sintagma "unita…" e non "unità nella diversità", palesa tuttavia due nodi inestricabili. Per un verso, ammesso, e non concesso, che sia lecito parlare, in senso forte, di un "patrimonio costituzionale europeo", rimangono però i non piccoli problemi legati a materie costituzionalmente non irrilevanti come la sicurezza e la difesa comune – che la nuova costituzione, non a caso, sottrae alla giurisdizione della Corte di giustizia europea -, per non parlare poi dei temi della Kompetenz-Kompetenz, del perdurante deficit democratico dell’Unione, della problematica tutela dei diritti dell’uomo, etc. La stessa ammissione del Presidente della Convenzione, per il quale il progetto si profila ancora come trattato di diritto internazionale, sia pure volto ad istituire la Costituzione del nuovo jus commune europeo, sta a confermare quanto rimanga da fare, per definire l’"unità" dell’Europa "unita" e, con essa, lo stesso status (giuridico e politico) delle sue istituzioni.
D’altro lato, l’imminente ingresso nell’Unione dei nuovi stati membri non potrà che esaltare l’esigenza programmatica che, in quanto "unita", l’Europa rischia invece di smarrire. Mentre è difficile immaginare sin d’ora un patrimonio costituzionale che storicamente accomuni Gran Bretagna ed Italia, Spagna e Germania, Svezia e Portogallo, etc., il sospetto è che queste differenze possano essere fagocitate dal processo di omologazione imposto ai nuovi stati membri; oppure, in mancanza della prospettiva unitaria nella diversità, come giusta misura dell’ordine nella comunità, l’impressione è che le tendenze poste in essere dai processi della globalizzazione, tendano a sfuggire al reticolo istituzionale comunitario (magari, non è da escluderlo, nell’ossequio formale dell’acquis come simbolo di un patrimonio identitario, astratto e statico).