SU ALCUNE NUOVE TENDENZE DELLA FILOSOFIA GIURIDICA E POLITICA TEDESCA: L’ULTIMO CONTRIBUTO DI H. HOFMANN
di Ugo Pagallo

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E’ apparso recentemente in traduzione italiana, l’ultimo saggio di Hasso Hofmann, docente di diritto pubblico, Filosofia del diritto e dello stato presso la Humboldt-Universität di Berlino. Autore di numerose opere – tra cui ricordiamo Diritto – Politica – Costituzione (1986), Repräsentation (1998), Legittimità contro legalità (tr.it. 1999), etc. – il contributo del filosofo tedesco si profila come una Introduzione alla filosofia del diritto e della politica, che consente di fare il punto sia sull’odierno stato dell’arte che sulle attuali tendenze della Rechts- und Staatsphilosophie alemanna. Si tratta di una cursoria panoramica storiografica scandita essenzialmente per problemi, come testimonia l’indice del libro: una prima parte dedicata al rapporto tra "diritto" e nozione di "giusto" alla luce dei concetti (materiali e formali) fondamentali della filosofia del diritto, una parte seconda incentrata sul "diritto ingiusto dello Stato", e via dicendo. Nonostante alcune discutibili tesi storiografiche – da Platone a Tommaso, a John Locke – la ricostruzione del Hofmann appare particolarmente interessante poiché, in ragione di un approccio dialettico "negativo", l’Autore intende congedarsi dalle aporie del positivismo. Mentre, sul piano teoretico, la pars destruens dell’Einführung risulta più efficace di quanto spesso non accada per i profili propositivi del libro, tuttavia, non mancano suggerimenti nella Introduzione alla filosofia del diritto e della politica, per una più consona rappresentazione degli ordinamenti giuridici e politici contemporanei.Al riguardo, particolarmente illuminanti sono le osservazioni critiche che lo studioso tedesco muove all’indirizzo dell’opera di Rawls (op.cit., pp. 65 sgg., 216 sgg.), nonché, più in generale, le considerazioni che egli svolge a proposito del "cambiamento di prospettiva" occorso con "l’autoriflessione dell’individualismo moderno" (pp. 159 sgg.). Riprendendo uno spunto di Ortega y Gasset, ciò significa che la direzione dominante del tempo "inizia con il ‘dopo’ e non con il ‘prima’" (p. 161). Di modo che, questa la tesi del Hofmann, "dopo più di centocinquant’anni – e qui egli pensa soprattutto alle dottrine di Kant e di Hegel – viviamo la fine di questo futuro nello sgomento generale. Se in passato il futuro appariva come lo spazio prospettico dell’organizzazione di una volontà comune, sostenuta da un forte ‘sentimento del noi’ da parte degli spiriti illuminati, nella società dell’individualismo quasi compiuto l’orizzonte del futuro per la realizzazione di idee di trasformazione e di miglioramento dei rapporti esistenti si restringe a quello del singolo. Il resto è un’oscurità minacciosa, di fronte alla quale ci si aggrappa a ciò che si ha" (p. 163).Innanzi alla "fine di questo futuro" l’analisi dello studioso tedesco, come detto, volge ad una forma "negativa" di dialettica, stante la quale, riprendendo suggestioni di Radbruch e di Schopenhauer, di John Stuart Mill, "anche se non riusciamo a definire precisamente in cosa consista la giustizia, sappiamo in ogni caso che la condanna a morte comminata in seguito a una critica rivolta in privato al regime politico costituisce un’ingiustizia" (p. 83). Riformulando altrimenti la questione, si può anche dire che, innanzi agli innumerevoli tentativi di definire l’ubi consistam dell’idea di giustizia – tema caro a Kelsen e alle tesi formaliste e relativiste che espressamente si rifanno alla reine Rechtslehre -, torna utile insistere con Grozio che "il diritto (…) più in un senso negativo, che positivo, è quod iniustum non est" (De iure belli ac pacis, I, 1, III, cit. da Hofmann a p. 80).D’altra parte, rispetto alle indicazioni di ordine storiografico e teoretico che lo studioso tedesco richiama in questo modo a sostegno della propria argomentazione, non mancano, tuttavia, motivi di perplessità. Sul piano storiografico, ci limitiamo a segnalare tre esempi particolarmente significativi:1. Innanzitutto, presentando "i classici della dottrina del contratto sociale" – e qui Hofmann si rifà espressamente a Locke, Rousseau e Kant – essi, così afferma Hofmann, "non miravano a realizzare un accordo sui principi giuridici materiali" (p. 65), in quanto "queste dottrine, in particolare, fondavano il carattere vincolante generale degli atti legislativi, indipendentemente dall’assenso prestato da ciascuno alle leggi nel caso singolo" (p. 66), per cui "quanto può riportarsi a questo atto volontario comune non consente a nessuno, anche a chi ne subisce nel caso singolo le conseguenze, di chiamarla ingiustizia" (p. 67). Or bene, senza entrare nel dettaglio del pensiero di John Locke, basta pensare alla dottrina del filosofo inglese circa i diritti allo "stato di natura" e il "diritto di resistenza" nella società civile, per capire come la questione sia in realtà assai più complessa di quanto possa apparire dalla ricostruzione dell’Introduzione;2. Svolgendo il tema de "l’idea platonica della giustizia", Hofmann arriva a sostenere che "in origine la dottrina delle idee risponde dunque alla domanda relativa all’oggetto della geometria" (p. 91), così come "lo Stato ideale di Platone – paradigma di tutte le utopie statali – viene pensato, nella pedagogia politica della Repubblica, come un grande individuo formato da parti" (p. 92). In entrambi i casi, a ben vedere, la filosofia platonica è mutilata dell’interna articolazione dialettica, in quanto, se da un lato la genesi geometrizzante della teoresi platonica è più che discutibile – e qui ci limitiamo a ricordare l’antesignano studio di Marino Gentile sulla dottrina delle idee-numeri nonché i più recenti contributi della cosiddetta Scuola di Tubinga -, dall’altro, si accoglie acriticamente la critica proto-hobbesiana che Aristotele muove al Maestro nella Politica (sulla tensione costitutiva sottesa alla figura del filosofo-re rimandiamo a quanto abbiamo svolto in Alle fonti del diritto, Torino 2002, pp. 211 sgg.);3. Da ultimo, but not least, è altrettanto indicativo il modo in cui è presentato il pensiero di Tommaso e la disinvoltura con cui l’alta riflessione dell’Aquinate è messa in rapporto alle conquiste spagnole del Nuovo mondo: "Seguendo Aristotele, – spiega così Hofmann – Tommaso ritiene che vi siano uomini destinati per natura alla schiavitù. Certo la schiavitù viene legittimata solamente dal diritto naturale secondario, cioè derivato, non da quello valido ovunque e incondizionatamente – ma pur sempre dal diritto naturale. Questa dottrina, una volta fatta propria dalla teologia scolastica, ebbe conseguenze terribili. Fu un confratello dell’Aquinate, Matías de Paz, a interpretare i decreti del papa Alessandro VI Borgia del 1493 sulle Indie occidentali, decreti che giustificavano la colonizzazione spagnola dell’America (e contemporaneamente delimitavano gli ambiti della colonizzazione spagnola e portoghese), nel modo seguente: gli indiani potevano essere ridotti in schiavitù, etc." (p. 103, dove, a questo punto, si perde per strada il contributo proprio di Tommaso in una notte schiavista, in cui tutti gli indios diventano bigi).Naturalmente, come spesso capita, molte delle imprecisioni o incongruenze cui va incontro la ricostruzione del Hofmann, dipendono dalle idiosincrasie dell’autore o, più semplicemente, dalla impossibilità di controllare le fonti originarie a proposito di un materiale così vasto come quello trattato, e che va da Platone (se non dai pre-socratici) a, diciamo, le tesi più alla moda di Walzer o di Rawls. Non di meno, i suddetti limiti incontrano un controcanto indicativo nella parte conclusiva del volume, che, riprendendo gli spunti di dialettica "negativa" cui si è fatto cenno in precedenza, riprendono i più recenti contributi di filosofia giuridica e politica sul concetto di giustizia. Allorché, in altri termini, risulta chiaro a Hofmann che assistiamo alla fine di un ciclo storico imperniato sulla figura dello stato moderno e sul principio di sovranità (pp. 181 sgg.), lo studioso tedesco sembra svolgere lo sguardo verso esperienze passate – "è come se (…) risorgesse il principio cetuale del consenso" (pag. 183) -, oppure, nel passare in rassegna le tendenze in atto nella riflessione contemporanea – il principio di giustizia come problema di ripartizione dei beni sociali, i criteri sostanziali di distribuzione, il diritto all’infelicità, e via dicendo (pp. 214 sgg.) -, l’impressione è che Hofmann approdi ad una indecisione paralizzante. "Nella nostra panoramica sui possibili principi di una fondazione delle norme – afferma infatti lo studioso berlinese – abbiamo già incontrato una conseguenza moderna della critica dell’atomismo etico, cioè il ‘proceduralismo della teoria intersoggettiva’ (A. Honneth) proprio della teoria del discorso (…). Un’altra possibilità è quella di rinunciare fin dall’inizio a ogni pretesa e a ogni teoria universalistica e di comprendere in funzione riflessiva il contesto comunicativo di un concreto mondo umano a partire dalla sua tradizione concependolo come fondamento costitutivo per l’eticità e l’autocomprensione etica dell’uomo" (pp. 198-199, con espresso richiamo, in quest’ultimo caso, ai comunitaristi come Sandel e MacIntyre, Walzer e Taylor). Di fronte a questa (astratta) "possibilità", non è un caso che Hofmann non indichi quale delle due alternative gli sembri la più appropriata per venire a capo dei problemi rimasti irrisolti (o sorti) con il positivismo giuridico e la sua crisi; oppure, cosa da non escludere per quanto detto, con buona pace delle tensioni in corso per via della seconda guerra del Golfo, se per caso il filosofo tedesco ha in mente l’Aufhebung tra le correnti oggi più in voga nella riflessione etica nordamericana e il pensiero giuridico e politico tedesco. Nonostante queste indubbie lacune d’ordine teoretico, tuttavia, l’Einführung del Hofmann risulta particolarmente interessante per il quadro d’assieme che offre al lettore digiuno delle materie trattate. Sebbene non si staglino (ancora) chiaramente i principi politici e giuridici del nuovo paradigma che va prendendo corpo all’alba del XXI secolo, vanno (almeno) delineandosi alcuni dei principali ambiti di riflessione della dottrina che ha preso atto dell’irreversibile crisi del positivismo.