SUL SIGNIFICATO DELLE PAROLE NELL’UNIVERSO DI DISCORSO GIURIDICO. NOTE INTORNO ALLA TRADUZIONE GIURIDICA.
di Paola Murer
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1. La traduzione giuridica fra globalizzazione e interculturalità.
1.1 Nell’ambito degli studi di linguistica si assiste a un sempre maggior interesse per le questioni relative alla traduzione dei testi giuridici che coinvolge non più soltanto i cultori del diritto comparato. In questo panorama interdisciplinare si colloca, ad esempio, il fascicolo monografico di Ars interpretandi pubblicato nell’anno 2000 e titolato Traduzione e diritto, che raccoglie contributi provenienti non soltanto dal mondo dei giuristi . In questo volume collettaneo Rodolfo Sacco sottolinea come "nei prossimo vent’anni i problemi della traduzione diverranno certamente il capitolo più promettente della comparazione giuridica, in grado di aprire vie d’importanza primordiale per l’epistemologia giuridica e la riforme della lingua giuridica" .
Al di là del tradizionale interesse dottrinale per i sistemi giuridici diversi da quello di appartenenza, a cui consegue la necessità di rendere nella propria lingua termini ed istituti appartenenti all’ordinamento giuridico straniero, si aggiungono almeno altre due motivazioni di ordine pratico che hanno contribuito allo sviluppo degli studi sulla traduzione giuridica. Per un verso, la sempre maggiore globalizzazione del mercato ha determinato la comparsa e la circolazione di documenti giuridici, primi fra tutti i contratti, che pongono in relazione soggetti economici appartenenti a paesi diversi, da qui il problema della lingua (o delle lingue) in cui redigere i testi ed i relativi problemi di traduzione . Per altro la sempre più massiccia presenza di stranieri immigrati nelle società industrializzate rende "abituale" la recezione all’interno del nostro ordinamento di norme giuridiche straniere, che attraverso il cosiddetto diritto internazionale privato, sono chiamate a regolamentare i loro rapporti. In proposito la legge 218/95, che ha portato alla riforma del diritto internazionale privato italiano, riafferma nell’ordinamento italiano il principio iura aliena novit curia . Pur non volendo soffermarsi specificatamente sul portato della riforma introdotta dalla richiamata legge del 1995, va rilevato che la stessa offre le basi per una coscienza giuridica interordinamentale. La coabitazione di norme appartenenti ad universi socio-culturali diversi è foriera di un’esperienza giuridica basata sulla internormatività purché la loro interpretazione ed applicazione, seguendo le indicazioni contenute nel nostro diritto internazionale privato, sia volta alla comprensione non solo letterale del testo ma anche della cultura giuridica in questo si colloca.
In questo senso, è possibile cogliere nello spirito della riforma del diritto internazionale italiano una tensione all’interculturalità, intesa, quest’ultima, come promozione del momento di relazione, di rapporto, fra culture giuridiche; culture ed ordinamenti diversi posti, a differenza del cosiddetto pluralismo classico, sullo stesso piano, ovvero con pari dignità scientifica. Come faremo cenni in seguito, la legge 218 del 1995 esclude la possibilità di teorizzare una egemonia cultural-giuridica, anteponendo il momento relazionale alla assunzione acritica del proprio modello nazionale come parametro per l’interpretazione ed l’applicazione delle disposizioni appartenenti ad ordinamenti diversi.
Si potrebbe affermare che tale prospettiva diviene foriera per un riconoscimento dell’essenza relazionale e comunicativa del diritto; non più come in un ambito segnato dal diritto interno, ove la relazione e la comunicazione avviene fra persone, ma in questo caso fra ordinamenti e, quindi, culture giuridiche dissimili.
1.2 In entrambi i casi sopra richiamati, sia pure con esiti diversi, la cosiddetta drammatizzazione dell’interpretazione del documento giuridico, di cui parla Emilio Betti , ovvero la previsione delle possibili conseguenze della sua applicazione concreta, potrà avvenire dopo (e sarà conseguenza della) comprensione del testo nella propria lingua.
Più in generale può affermarsi che l’attività giuridica richiede consapevolezza linguistica ; non può venire disgiunta delle questioni semantiche; infatti, il giurista compie operazioni sul linguaggio e con il linguaggio. Questa consapevolezza non è certamente estranea alla cultura giuridica, se già Francesco Carnelutti, in un epoca ancora non avvezza alla filosofia analitica, affermava che non si può sapere che cos’è il diritto senza sapere che cosa è il discorso .
1.3 La traduzione è una interpretazione del testo . L’attività interpretativa è stata intesa come attribuzione di significato ad un simbolo . L’attività di traduzione-interpretazione del testo si dispiega, quindi, dal significato da attribuire ai termini che compongono il discorso giuridico per giungere alla designazione dello stesso con dei termini (il più possibile giuridicamente appropriati) nella lingua d’arrivo. Più specificatamente Sacco sottolinea come "al momento di tradurre, l’operatore sarà in presenza di due realtà: da un canto il testo, con i suoi vocaboli e la sua sintassi; dall’altro canto il senso da assegnare al testo, ossia la norma giuridica"
Va rilevato che il significato delle parole è ricercabile nel (e derivabile da) l’ambito di quella che è stata definita la "cultura giuridica interna" , ovvero all’interno dell’universo del linguaggio (tecnico) utilizzato dagli operatori del diritto; questo linguaggio non coincide (sempre) con il linguaggio ordinario . Allo stesso modo in cui, come sottolineano i sociologi del diritto, la cultura giuridica interna non coincide con la cultura giuridica esterna, ovvero con la percezione dell’ordinamento che è propria ai non giuristi, alla maggioranza della popolazione.
1.4 All’interno del discorso giuridico il significato delle parole è quindi determinato da formanti giurisprudenziali (il significato attribuitogli dagli organi preposti alla applicazione delle norme giuridiche), e da formanti dottrinali (il significato attribuito alle stesse dagli studiosi del diritto) . Questa tesi, riconducibile ad uno strutturalismo forte, à la Saussure , è ampiamente accettata nell’ambito delle dottrine giuridiche che legano, infatti, strettamente le teorie interpretative all’analisi strutturale del testo, dalla quale "i giuristi possono ricavare conferma e più sicura coscienza che, per quanto le loro indagini storiche, analisi interpretative o costruzioni dogmatiche debbano non di raro far centro su una parola o su un ristretto insieme di parole, queste parole sono elementi di un sistema linguistico funzionale in un sistema sociale ed il separarle da tali sistemi può riuscire estremamente fuorviante" . Ne consegue che nell’ambito della traduzione giuridica l’idea di traduzione "letterale" può essere non solo non sufficiente ma addirittura fuorviante .
La traduzione giuridica non può prescindere dalla "cultura giuridica interna" propria all’ambito sociale della lingua di partenza e da quella della lingua di arrivo . La trasposizione del termine da una cultura giuridica all’altra, oltre che da una lingua all’altra, è assolutamente necessaria, soprattutto avuto riguardo al fatto che il linguaggio giuridico serve a far fare .
La risultante dell’interpretazione-applicazione del testo giuridico è cogente; travisare il testo (o singole sue parti) a seguito di una traduzione non corretta (rispetto ai parametri della cultura giuridica interna) può comportare delle conseguenza non volute e/o non previste dall’estensore . "La traduzione di una parola in un’altra è possibile e legittima nella misura in cui le due parole esprimono lo stesso concetto (o, ipotesi particolare, se il traduttore ha il potere di imporre loro lo stesso significato)" . Soprattutto nell’ambito della contrattualistica internazionale questo può provocare equivoci e spiacevoli sorprese per le parti impegnate nel rapporto economico.
Queste questioni di ordine tecnico si sovrappongono ai cosiddetti difetti del linguaggio, già ampliamenti analizzati dai giuristi, come l’ambiguità e la vaghezza delle parole riscontrabile anche nel linguaggio ordinario