Quattro domande su Diritto e Informatica
CONTRA
di Giovanni Tuzet

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Le quattro domande che seguono si riferiscono ai Prolegomeni d’informatica giuridica apparsi nel precedente numero di questa rivista, a firma di Ugo Pagallo. Quanto ci ha più stimolato in essi, sono i confronti fra le concezioni ‘piramidali’ e ‘reticolari’ dell’ordinamento giuridico-politico, e i rilievi teleologici sulla tecnica e sulle tecniche di informatizzazione del diritto. Le quattro domande sono una richiesta di ulteriori chiarificazioni e un auspicio di confronto.

A) Nel § 3 è ricordato il principio che a detta di molti governa implicitamente la tecnica. Chiamiamolo principio T: fare in modo che tutto ciò che è possibile fare tecnicamente, si faccia. A detta di molti, l’affermarsi della tecnica è marcato da T. Eppure, possiamo riflettere, c’è un numero infinito di possibilità tecniche che non vengono realizzate perché non interessanti o non utili. Tecnicamente, sarebbe realizzabile un armadio sulla cui cima ci sono delle piume che oscillano al tempo della musica diffusa con l’apertura delle ante – ma nessuno si preoccupa di realizzare cose del genere. Dunque, è falso che la tecnica proceda con una logica propria – non è il caso che T – ed è vero che rimane subordinata, ancora oggi, a scelte di valori e di scopi?Lo si può dire così: se è il caso che T, per ogni x, se x è tecnicamente realizzabile, x viene realizzato. Ora, una proposizione del genere, se presa alla lettera, è facilmente falsificabile. Basta trovare un esempio di realizzazione possibile ma non attuata. L’armadio con le piume è una di queste. Piuttosto, in modo più ampio, con T si vuole dire che molte realizzazioni tecniche non dipendono da fini deliberatamente posti o accolti dai fruitori dei mezzi, ma da finalità intrinseche alla tecnica o che comunque sfuggono ai fruitori? Questa non sarebbe, antropologicamente, una novità essenziale: già Pascal, per fare un esempio illustre, lamentava la riluttanza degli uomini a deliberare sui fini, per concentrarsi esclusivamente sui mezzi – "C’est une chose déplorable de voir tous les hommes ne délibérer que des moyens, et point de la fin" (Pensées, 124 ed. Chevalier). Piuttosto, quale diviene la posta in gioco nel momento in cui tale riluttanza o incapacità è spiegata con l’affermarsi della tecnica? La posta, ci sembra, è la relazione fra tecnica e responsabilità, giacché, imputando al carattere autoreferenziale della tecnica la nostra incapacità di ponderare finalità e valori, si può avallare una forma di deresponsabilizzazione delle nostre scelte personali e sociali. Si risponderà che proprio questo – la sottrazione della responsabilità delle scelte – è un tratto essenziale della tecnica? Allora potremmo rilanciare: non è proprio questo un riflesso di una più profonda questione antropologica, riguardante la disparità fra le capacità di scegliere i mezzi e di scegliere i fini, se è vero che nell’uomo è maggiore la prima? Cioè, l’uomo è istintivamente più abile nello scegliere i mezzi (la selezione naturale non gli permetterebbe troppi errori) sulla base di fini che recepisce, senza accoglierli deliberatamente, dalla sua dimensione biologica o sociale (sopravvivenza, benessere, etc.)? Per riprendere la questione iniziale: se è il caso che T in senso ampio (che lo sia in senso stretto, come si è visto, è falsificabile), lo è per ragioni interne all’affermarsi della tecnica, o lo è anche e più profondamente per ragioni antropologiche?

B) Nel § 6 è sostenuto che la concezione platonica dell’ordinamento politico è reticolare e policentrica. Per dimostrarlo si esaminano le dinamiche che stanno alla base della tripartizione platonica delle classi dello stato, delle facoltà dell’individuo, delle virtù. Ora, se è vero che la concezione di Platone è reticolare e policentrica, perché le classi sono tre (reggitori, difensori, popolo)? Non potrebbero essere 2, 4, 97, un qualsiasi altro numero? Se la rete è costituita da nodi, cosa significa il fatto che ci sia un determinato numero di nodi piuttosto che un altro? E che rete è se i suoi nodi devono essere necessariamente tre? Se si rispondesse che il 3 o il 4 hanno un significato particolare, si dovrebbe ridimensionare la portata reticolare della concezione platonica; se invece non si intendesse ridimensionare tale portata dovrebbe spiegarsi come e perché il numero determinato delle classi e delle funzioni non la influenza (ma a quel punto tale numero determinato sarebbe di ben poca rilevanza pratica). Così posta, però, la questione può risultare troppo netta. Un’interessante specificazione può essere questa: vi è un numero che è condizione stretta della logica reticolare o vi è un numero che ne costituisce, diremmo, una condizione minimale ma non esclusiva? Cioè, posto che n sia un numero determinato:
i. vi è rete se e solo se i nodi sono n?
ii. ii. vi è rete se e solo se i nodi sono almeno n?

C) Nel § 8 sembra esposto il seguente argomento: la tecnica, che non è neutra (contrariamente a quanto pensano certi giuristi ingenui), ha modificato i presupposti dell’ordinamento gerarchicamente inteso (à la Kelsen) e tale modifica rende vana la pretesa di certezza nella risoluzione delle controversie. (O almeno rende vana la pretesa di una certezza geometrica gerarchicamente determinata nei modi del sillogismo giudiziale applicativo della legge). Citiamo Pagallo: "occorre aprire gli occhi all’evidenza e insistere sul fatto che i media telematici e informatici, i sistemi esperti e le reti neurali, l’intelligenza artificiale e la augmented reality, revocano i presupposti della ricostruzione geometrica dell’ordinamento". Il che ha qualcosa di paradossale, giacché non di rado si sostiene che l’informatizzazione permetterebbe un più elevato grado di certezza nella risoluzione dei casi. A tale convinzione è legata certa renaissance della teoria del sillogismo giuridico, come Pagallo mette in rilievo: "la progressiva informatizzazione del diritto consentirebbe di precisare in modo univoco (e automatico) il significato delle decisioni prese dal sovrano (o, almeno, da chi, nel caso particolare, lo rappresenta). Rispetto alla legge intesa come premessa "maggiore" del sillogismo giuridico, si nutre, cioè, la (vana) speranza che la traduzione algoritmica del linguaggio naturale utilizzato dal sovrano, elimini, come ai tempi del Code Napoléon, la necessità di inoltrarsi negli infruttuosi campi dell’ermeneutica giuridica". Pagallo mette in luce le aporie di una simile visione – in particolare la necessità di un tramite ermeneutico nel quadro dell’interazione comunicativa – e i difetti di un così affrettato bilancio. Non è vero che ipso facto l’informatizzazione garantisca la certezza ed anzi, per venire al punto, la pretesa di una certezza gerarchicamente e sillogisticamente intesa è revocata dalla logica reticolare e policentrica che i processi di informatizzazione portano con sé. La nostra domanda è se con ciò si voglia implicare una relazione, e quale, fra certezza e tipo di ordinamento. Si vuole intendere in particolare che la pretesa di certezza dipende dai presupposti dell’ordinamento gerarchicamente inteso? Forse che in una concezione policentrica e reticolare non si pretenderebbe certezza nella risoluzione delle controversie? Che le disposizioni giuridiche siano pattizie o legislative o altro, non sembra cambiare il punto: le parti in causa ne chiedono il rispetto. In cosa altrimenti consisterebbe il ‘chiedere giustizia’? O forse vi sono diverse forme di certezza giuridica, relative alle diverse logiche cui un ordinamento può essere ispirato? Semplificando un po’, vi sono forme di certezza determinate da una logica gerarchica e forme determinate da una logica reticolare? Intuitivamente, può ben essere così. Ma si tratta anche, al di là degli aspetti macroscopici, di una differenza concettuale? Poniamo di nuovo la domanda: vi è una differenza concettuale fra il ‘chiedere giustizia’ rispetto a norme emerse da una logica reticolare e il chiederla rispetto a norme generali ed astratte poste da un legislatore?

D) Sempre in rapporto al § 8. I logici avvertono che l’inferenza deduttiva preserva nella conclusione la (supposta) verità delle premesse. Non chiedono di più. Dunque, la pretesa che una deduzione offra ipso facto la certezza di una verità è frutto di un fraintendimento sul senso dell’inferenza deduttiva: essa garantisce delle conclusioni ma non delle premesse. Così, un sistema esperto può garantire delle conclusioni ma non delle premesse e il punto, intuitivamente, rimane questo: chi seleziona le premesse o i modi in cui, eventualmente, il sistema esperto le sceglie da sé? Leibniz (calculemus!) avrebbe sempre ragione se il problema delle premesse non si ponesse mai. Che considerazioni trarne rispetto al sillogismo giuridico? Potremmo ammettere che il ragionamento di chi giudica ha una fase deduttiva a patto di ammettere al contempo che tale fase è logicamente preceduta da una fase abduttiva che ne determina le premesse. (Per maggiori dettagli, si veda il nostro Inferenza e giudizio, nel primo numero del 2003 di questa rivista). In tal modo, sarebbe mantenuto l’ideale deduttivo di certezza ed equità ma non la sua illusione, data la consapevolezza delle sue difficoltà e le inevitabili incertezze di ogni inferenza abduttiva (l’inferenza che formula un’ipotesi).