Quattro domande su Diritto e Informatica
PRO
di Paolo Heritier
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Questo intervento muove dalle "quattro domande su diritto e informatica" di Giovanni Tuzet, a cui si ritiene di poter fornire qualche argomento contrario. Nell’addurre controargomentazioni, si individueranno così alcuni punti di interesse dei "Prolegomeni" di Pagallo, ritenuti suscettibili di fecondi sviluppi. La prima domanda posta da Tuzet concerne il § 3 (Tre definizioni di tecnica) ed è riferita a ciò che Tuzet definisce il principio T (la nota affermazione per la quale la tecnica sarebbe marcata dal principio: "fare in modo che tutto ciò che è possibile fare tecnicamente, si faccia"), vale a dire la terza definizione proposta da Pagallo. Tuzet procede falsificando questo principio, se inteso in senso stretto, adducendo un esempio in cui ciò non è vero; passa poi ad interpretare il principio in senso ampio, riportando la questione sul piano antropologico del rapporto tra mezzi e fini, dunque ponendo il principio T al di fuori della sfera della mera autoreferenzialità della tecnica. In primo luogo rilevo che introdurre il tema dell’informatica giuridica dopo la considerazione del problema della tecnica, come fa Pagallo, mi sembra un accostamento metodologicamente tanto ineccepibile quanto poco praticato. Non mi pare possibile parlare filosoficamente di informatica giuridica senza premettere un’interrogazione fondamentale sul nesso tra diritto e tecnica. Certo non è semplice, né possibile poi risolvere la questione (si apre una tematica immensa e suscettibile di infinite argomentazioni – faccio riferimento solo alla distinzione terminologica tra tecnica e tecnologia -) ma mi pare filosoficamente indispensabile impostare in questo modo il problema per condurre un discorso rigoroso. In secondo luogo osservo che alla problematizzazione della questione della tecnica segue, nei paragrafi successivi al terzo, la proposta di un nuovo paradigma utile a interpretare le evoluzioni giuridiche attualmente osservabili: la configurazione reticolare del diritto, da opporre a quella gerarchico-piramidale. Proposta che mi sembra indicare la possibilità della ripresa di una innovativa teoria istituzionale e relazionale del diritto, più precisamente di un neo-istituzionalismo giuridico-reticolare, che mi pare promettente e del tutto condivisibile, anche se solo abbozzata nei suoi tratti teorici (del resto, si tratta per ammissione dell’autore di "Prolegomeni"). Tra questi due sfondi si colloca il paragrafo sulle tre definizioni di tecnica ove la prima (sostenuta dall’idea di un progresso cumulativo e dall’ambiguità rilevabile tra il sapere di non poter dell’etica e il potere del sapere del know-how tecnologico) prelude alla seconda (tecnica come "complesso di norme che regolano l’esecuzione pratica e strumentale di un’arte, scienza o professione"), considerata da Pagallo emblematica di come i giuristi pensano il diritto e conseguentemente radicalmente criticata. Secondo l’autore, sullo sfondo della pretesa neutralità della tecnica e del diritto "…la definizione kelseniana del diritto come strumento di controllo sociale,…l’estinzione del diritto nella società senza classi del comunismo di Marx,…la tecnocrazia di St.- Simon…- comportano, tutte, l’illusione di aver risolto la questione del fine una volta per sempre"… nel senso dell’eternità, dell’atemporalità della tecnica (e della dogmatica giuridica). Da questa critica (alla riduzione della tecnica a diritto propria di Irti e a quella eguale e contraria del diritto a tecnica di Severino) trae origine nei Prolegomeni il riferimento alla terza definizione di tecnica nella forma di imperativo categorico: "occorre fare in modo che tutto ciò che è possibile fare tecnicamente, si faccia" (cui si riferisce la questione posta da Tuzet). A mio avviso, dunque, la posizione di Pagallo deve essere compresa a partire dall’intreccio tra tecnica, diritto e richiamo a nuovi paradigmi, nel suo oltrepassare le impostazioni criticate di Irti e di Severino, sostenendo una tesi più attuale, utile a porre le premesse per un accostamento teorico ulteriore. Nel § 4 infatti Pagallo nota, in prima battuta, riferendosi a Irti e Severino: "La tecnica "neutra" ed autoreferenziale, sottratta al divenire storico, im-pone, sul piano logico, il più rigoroso aut- aut: o la tecnica subentra alla norma fondamentale come fondamento "ultimo" del diritto (e allora, come vuole Irti, è riservato al giurista il solo "onorevole silenzio" dovuto al "nuovo dio"); oppure, la tecnica rimane un "oggetto" disciplinato dalle norme del diritto e, quindi, non si vede in cosa consista la novità delle frontiere tecnologiche dell’ordinamento". Nessuna delle due soluzioni pare adeguata all’autore, come viene precisato poco oltre: "Nel caso dell’informatica giuridica, il presunto "mezzo" con il quale si mira a rimodernare i vecchi ideali della "geometria legale", finisce per incidere sul fine stesso del positivismo". Ritengo dunque che la posizione di Pagallo sia già oltre a un certo modo "novecentesco" e "conflittuale" di porre sia la questione della neutralità della tecnica, sia il problema del rapporto tra il mezzo e il fine: precisamente nel senso del recupero del nesso ineliminabile tra i due poli (almeno così comprendo lo sviluppo del tema per cui "il fondamento è sempre relativo a quanto fonda" nel § 4) all’orizzonte ipotizzabile di un nuovo paradigma antropologico. Non concordo pertanto con certe tesi prese in considerazione da Tuzet: riluttanza degli uomini a deliberare sui fini, sottrazione delle responsabilità delle scelte, maggiore abilità istintiva dell’uomo nello scegliere i mezzi mi sembrano tratti di un vecchio pensiero, peraltro ancora assai diffuso. Al contrario, il principio T ("Fare in modo che tutto ciò che è possibile fare tecnicamente, si faccia") mi pare non possa essere considerato "vero" per un criterio di fecondità e di interesse proprio fondato su ragioni antropologiche: mi sembra che Pagallo, nella sua critica a Irti e Severino, postuli precisamente questo. La vera discussione, naturalmente, inizierebbe qui, ma qui finisce anche lo spazio, fisico e virtuale, della risposta. Dove tuttavia registro il maggiore dissenso rispetto alle tesi di Tuzet è con riguardo alla sua seconda domanda, concernente il § 6 e la rilevanza del numero di nodi necessari per definire la "rete". Se nella precedente domanda Tuzet coglieva comunque un aspetto interessante di sviluppo (dalla questione tecnica alla questione antropologica), qui mi sembra che compia un indubbio fraintendimento della nozione di "nodo", la cui configurazione mi sembra la parte più interessante dei "prolegomeni". Mi pare che la chiave con cui comprendere il concetto di "nodo" sia anche metaforica, lo si può evincere fin dalle prime battute del § 6 intitolato " La figura del nodo ", ove Pagallo principia nel seguente modo: "Sin dalla più remota antichità, il nodo rappresenta metaforicamente il punto in cui la determinazione spazio- temporale di ogni stato dell’essere s’intreccia alla totalità." Qualche "pagina" dopo, l’autore precisa che "Come dichiara Socrate, la "polis è infatti un individuo scritto a lettere maiuscole" (riformulando ciberneticamente il concetto, si può anche dire che ogni nodo, se ingrandito, si presenta esso stesso come rete)". Secondo Pagallo, il nodo ha una dimensione spaziale e una temporale e inoltre, "mediante la figura del nodo, si staglia la struttura analogica della intelligenza intesa classicamente; ossia, alla lettera, come ana-logos, ciò che conduce verso l’alto". Infine, nel corso del paragrafo 8, l’autore lamenta il fatto che i giuristi abbiano ridotto "l’elemento costitutivo dell’insieme, il ‘nodo’ " ad un’unica dimensione, precisando poi: "in sede logica, il nodo media il profilo lineare e ciclico dell’appercezione spazio-temporale della esperienza, tra "funzioni" e "struttura", processi cognitivi e procedure di auto- adattamento; per cui, ciò che si è smarrito, è la nozione del luogo specifico che il nodo occupa tra "sincronia " e "diacronia" istituzionale". Su ognuno di questi punti vi sarebbe molto da approfondire, mi concentrerò tuttavia solo sull’idea del nodo inteso come a sua volta una rete, se ingrandito. A questo proposito alla questione posta da Tuzet: (i) vi è rete se e solo se i nodi sono n ? (ii) vi è rete se e solo se i nodi sono almeno n? si potrebbe rispondere che v’è rete purché n sia uguale ad 1 (e si tratterebbe di risposta certo parziale). In altri termini, il programma di ricerca che voglia ricercare il numero minimo dei nodi nella rete mi sembra come il programma di ricerca volto ad individuare i componenti ultimi della materia: si è condannati a individuare sempre nuovi "mattoni ultimi" della materia, fino a fronteggiare un luogo ove è la stessa idea che vi sia un mattone ultimo individuabile che inizia a vacillare. Con una differenza: non saprei se la ricerca del numero minimo dei nodi sia pragmaticamente altrettanto utile! Al di là della battuta, credo che il riferimento alla totalità e all’idea di legame pongano elementi forse irriducibili rispetto alla prospettiva avanzata da Tuzet. Quanto al riferimento al carattere policentrico della concezione platonica, francamente non sarei in grado di giudicarne la fondatezza. Mi sembra tuttavia assai stimolante l’idea che la configurazione reticolare possa avere una dimensione anche ermeneutica, conducendo a nuove interpretazioni di classici del pensiero filosofico. Mi sembra pertanto, in base alle precisazioni sommariamente esposte, di non vedere alcuna contraddizione nell’indicare, nella teoria platonica, la rilevanza del numero delle classi (3) e il sostenere che si tratta di una concezione reticolare. Indubbiamente, il tema della rete solleva una pluralità di questioni introno alla teoria dei livelli logici, che tuttavia non mi sembrano ponibili esclusivamente con formalizzazioni di tipo logico, ma anche su un piano ermeneutico, anche in relazione alla sfera della stessa telematica. Ancora una volta, tuttavia, tale osservazione rappresenterebbe il punto di inizio di un’altra discussione. Di diverso tenore sembrano invece i rilievi mossi da Tuzet nella terza e quarta domanda. Nella terza questione, Tuzet, dopo aver ripreso il ragionamento del paragrafo 8 concernente la "critica del sillogismo informatico", pone la questione del nesso tra certezza e tipo di ordinamento. In altre parte solleva l’interrogativo sul punto seguente: parlare di "nuovo" paradigma, significa anche identificare una "nuova" concezione di certezza? Nella quarta domanda (la cui impostazione mi sembra condivisibile per quanto concerne la relazione tra deduzione e abduzione), Tuzet pare svelare la sua proposta in tema di catena sillogistica: una divisione tra la fase di individuazione delle premesse (fase abduttiva) seguita da una fase, logicamente rigorosa, deduttiva, tale da consentire di mantenere "l’ideale deduttivo di certezza e equità ma non la sua illusione". Ritengo che la concezione della certezza propria di una concezione reticolare del diritto si muova, come peraltro ogni concezione di certezza, proprio in questo spazio esistente tra l’ideale della certezza e la critica della sua illusione. Nei Prolegomeni, mi sembra che questo aspetto sia posto laddove Pagallo evidenzia un paradosso conclusivo in tema di "certezza", tra diritto e tecnologia informatica, espresso così: "Quanto maggiore sarà la consapevolezza del non poter ridurre la premessa "maggiore" del sillogismo alla volontà del sovrano, tanto meno gli informatici perderanno di vista i contorni operativi dei programmi in grado di automatizzare le prestazioni dello stato sociale, le interazioni giuridiche dei computers privati, rendendo certe e sicure firme digitali, notifiche elettroniche, commerci cibernetici…" In altre parole mi pare una garanzia che la certezza del diritto rappresenti un ideale, sempre soggetto alla critica per l’illusione di averla raggiunta, in un sistema giuridico dato. Al peso del nesso tra responsabilità e libertà mi sembra che l’uomo non possa sfuggire, neppure in una realtà virtuale: la certezza continuerà, spero anche in una concezione reticolare, a porsi tra l’ideale e l’illusione. Non sarà certo indifferente, tuttavia, la scelta delle particolari tecnologie e metodologie, informatiche e giuridiche, mediante le quali tentare di raggiungerle.