ADRIANO TILGHER
di Francesco Gentile

Si tratta di un’antinomia per uscire dalla quale, afferma sicuro del suo crocianesimo Tilgher, "basta ammettere nello spirito pratico l’esistenza di due gradi, l’uno puramente utilitario, l’altro morale che comprenda in sé, come momento superato, il primo". In tal modo è facile riconoscere che, "dal punto di vista utilitario, delitto è ciò che nuoce; dal punto di vista morale, delitto è ciò che è male. In entrambi i casi, affinché qualche azione sia appercepita come nociva o come cattiva, è necessaria una reazione della coscienza, utilitaria nel primo caso, morale nel secondo, ma in tutti e due una reazione negativa, una repugnanza utilitaria o morale. Ed ecco trovata l’essenza del delitto, del delitto utilitario e del delitto morale. Il delitto utilitario è un’azione (utilitaria o morale), cui si repugna utilitaristicamente, ed in tanto è delitto utilitario in quanto vi si repugna utilitaristicamente; il delitto morale è un’azione utilitaria, cui si repugna moralmente, e solo in quanto vi si repugna moralmente, essa è delitto morale. L’essenza del delitto è costituita in entrambi i casi dall’eccitamento di una repugnanza (utilitaria nell’uno, morale nell’altro). Noi possiamo dunque definire come delitto ogni azione che provoca una repugnanza (…). E, per amor di chiarezza – conclude puntualizzando Tilgher – avvertiamo esplicitamente che per noi delitto significa qualunque atto cui si repugna: quindi non solo l’omicidio, il furto, l’adulterio, la repugnanza contro i quali s’esprime con la condanna del reo alla ghigliottina, alla prigione, all’ammenda; ma anche la sgarberia, cui si risponde col togliere il saluto, la violenza di una norma di etichetta, cui si reagisce non invitando più al ballo o al pranzo il colpevole, ed anche quella piccola mancanza di delicatezza, cui si reagisce con un moto che ci si affretta a nascondere nel più profondo dell’animo".
Leggendo questo testo è difficile non rilevare che, in tal modo, si può ben dire, rovesciando l’assunto, che neppure l’omicidio, il furto e l’adulterio sarebbero delitti per chi non prova repugnanza per l’attentato alla vita, alla roba o alla fede coniugale. Ma non è questo soggettivismo assoluto, né l’implicito, sebbene inconsaputo, nichilismo che in questa sede interessa notare, quanto piuttosto la soddisfazione del giovane adepto, fanaticamente fedele all’imperativo idealistico che "la filosofia deve comprendere il mondo qual è, ricreandolo intellettualmente", il quale si compiace della sua sistemazione in cui l’antinomia delle teorie utilitaristiche e delle teorie moralistiche del delitto è superata, perché in essa si è trovato il posto di tutto, cioè per essa tutto è a posto. E così sarà per l’antinomia delle teorie utilitaristiche e delle teorie moralistiche della pena e il suo superamento, ed anche per l’antinomia di delitto e pena e il suo superamento, rappresentato così: "Come Essere e Non-essere, di per sé ravvisati, sono due vuote astrazioni, che trovano la loro concretezza solo nel Divenire (…), come, al di fuori della sintesi, i contrari, singolarmente considerati, sono ombre pallide senza consistenza, così non v’è delitto senza pena, né pena senza delitto". La sistemazione è perfetta, perché circolare. "La nostra deduzione partì dal delitto e finisce col ritornarvi. Definita la pena come reazione negativa a una determinata situazione di fatto, la situazione di fatto, cui la volontà reagisce, è il delitto. I due punti estremi del circolo si congiungono, ed il circolo si chiude in sé stesso, come un tutto compiuto ed autonomo". Compiuto, si capisce, perché tutto vi ha trovato posto e il contrario di tutto. Ma autonomo da che cosa? Forse dall’esperienza che mette di fronte quotidianamente a tanti delinquenti impuniti e a tanti penitenti senza colpa?

Non c’è dubbio che vi sia molta ingenuinità nel furore sistematico, nel senso di sistematorio, del giovane Tilgher. Il che spiega il tono paternalistico del richiamo di Croce: "Sentire cari ragazzi ..". Ma a leggere attentamente tali esercitazioni sistematorie non si può sic et simpliciter dire che fossero fuori strada, fuori cioè dalla strada tracciata dallo storicismo crociano o hegeliano, fuori dalla concezione crepuscolare della filosofia come comprensione degli eventi nelle categorie dello spirito.
Si potrebbe sostenere invece, a giusto titolo, che, proprio per l’ingenuità giovanile, nella sua infatuazione, Tilgher abbia irrigidito, schematizzandolo, lo storicismo crociano, evidenziandone inopinatamente, ed involontariamente, il limite implicito. E questo spiegherebbe la singolare reazione di Croce. La secca stroncatura del ’15, resa, se possibile, ancor più sdegnosa dall ‘esser fatta per interposta persona, il fido De Ruggiero. L’apparentemente bonario rimbrotto del ’14. Ma soprattutto lo strano, e col senno di poi potremmo dire minaccioso, silenzio tra il ’10 e il ’14 su quelli che erano i problemi evidenziati dalla schematizzazione tilgheriana. Non si dimentichi l’elogio di Don Ferrante, il cui solo limite era quello di non avere delle buone categorie. Ma nel caso di Tilgher le categorie erano quelle di Croce, e dunque per definizione erano buone. Tale silenzio può ben essere letto come elusione così come il precedente silenzio sulle prime applicazioni tilgheriane delle categorie crociane alla filosofia del diritto per criticare il povero Petrone, reo di giusnaturalismo e di formalismo nel medesimo tempo, può ben essere letto come attesa, come uno stare a vedere senza compromettersi teoreticamente. Eppure il giovane Adriano bazzicava dalle parti di Croce, se è vero quello che egli, Tilgher, ricorda nel violento panphlet antigentiliano del 1925, intitolato Lo spaccio del bestione trionfante. A proposito della "pietosa incultura" di Giovanni Gentile, racconta Tilgher, Croce "rispose guardandomi in tralice con l’occhietto pungente e vivo: Chi? Chillu llà? Se lo levate da quelle quattro stroppole di storia della filosofia, chillu llà non conosce assolutamente niente! (Era di maggio, e noi due passeggiavamo per via Foria a Napoli e dal vicino Orto Botanico arrivavano a ondate dolci e languenti profumi)".

Queste schematizzazioni, e relative frustate crociane, costituiranno per Tilgher il passaggio per o nel suo esodo dallo storicismo e dalla filosofia del diritto, ma qualche effetto hanno avuto, come dicevamo, anche su Croce, silenzioso ma non sordo, il quale d’allora in poi non si è più avventurato nella sistemazione dell’esperienza giuridica, limitandosi ad alcune uscite, sempre pungenti, destinate a singoli filosofi del diritto dell’accademia italiana. Per farsene un’idea può bastare il richiamo di un’ennesima frustata, sempre su "La Critica", questa volta del 1935, provocata dall’uscita del libro di Del Vecchio su Diritto ed economia, nella quale appare per la prima volta la parola magica della critica crociana: l’ircocervo. Il Del Vecchio, scrive Croce, "è un professore di filosofia del diritto, uso perciò a dar valore speculativo alle distinzioni meramente pratiche e solo praticamente giustificabili dei giuristi, e a rinvenire l’universale giuridico, come lo chiamano, un filosofico ircocervo, che sarebbe giuridico ma avrebbe carattere etico, e che, in fondo, adempie al solo ufficio di fornire una base alle cattedre di filosofia del diritto". Sorvolando sull’antipatia istintiva, quasi una forma d’idiosincrasia, nutrita da Croce nei confronti di tutto ciò che sapeva di carriera universitaria, e non dimenticando la provocazione di Del Vecchio, peraltro non molto originale, col paragone fra la posizione del filosofo napoletano di fronte al diritto e quella di Don Ferrante di fronte alla peste, ai fini limitati che qui interessano, basterà notare come Croce ritorni sul Don Ferrante manzoniano, il cui "metodo" aveva almeno implicitamente approvato anche nella nota del 1908, per difenderlo questa volta esplicitamente dall’accusa mossa dal Del Vecchio, di non "aver abbandonato o corretto le sue categorie che la sua stessa esperienza (la peste che aveva sott’occhio) gli dimostrava erronee e insufficienti". "Quel buon peripatetico – scriveva Croce – più filosofo in questo del prof. Del Vecchio, intendeva ragionare con la mente e non con le impressioni sensitive dell’occhio; e non negava già quel che aveva sott’occhio ma negava che fosse ciò che altri diceva e che repugnava (si noti l’uso del verbo repugnare) ai suoi concetti e alle sue categorie (la peste come contagio) (…). L’osservazione e l’esperienza facevano in Don Ferrante, com’era logico, tutt’uno con le premesse concettuali del suo ragionare. Così non serve arrecare i miracoli che accadono a Lourdes o alla Madonna di Pompei per confutare colui che nega i miracoli perché tiene contraddittorio e vuoto il concetto stesso di miracolo: per affermare un miracolo è necessario affermare nell’atto stesso il concetto di miracolo". Magnifico esempio di sofisma, cioè di argomentazione in cui si nasconde un argomento scorretto dietro ad uno corretto. E mi spiego.

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